Inchiesta esclusiva. Intervengono Sara Montani, Daniela Perego, Silvia Stucky e Delphine Valli

A giugno, la nostra inchiesta esclusiva sulla donna artista In Italia e in Romania si arricchisce di una nuova serie di dieci interviste che approfondiscono e allargano ulteriormente la prospettiva sull’argomento. Nel nostro speciale spazio corale intervengono Sara Montani, Daniela Perego, Silvia Stucky e Delphine Valli.
Altre pagine ospitano gli interventi di Anna Maria Panzera, Annalisa Zito, Elena Cologni, Simona Filippini, Caterina Corni e Teodolinda Coltellaro.
Nel format che vi proponiamo, la riflessione scaturita dallo scambio di idee e punti di vista è accompagnata da una ricca galleria di opere che va dalla pittura alla scultura e alle installazioni, dalla rilettura della tradizione alle contaminazioni e al dialogo con il fumetto e l’illustrazione.

(Nell’immagine, Silvia Stucky, Lacrime delle cose, 2018)

Il progetto, a cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin, andrà avanti nei prossimi numeri, continuando ad arricchire la nostra rete per il dialogo interculturale. Tutti i contributi sono riuniti nel nostro spazio appositamente dedicato a questo progetto, Inchiesta esclusiva donna artista.
La prospettiva italiana ci offre punti di incontro con la percezione romena espressa nell’inchiesta esclusiva
che ha finora raccolto 43 testimonianze.



Sara Montani (visuale e operatrice culturale, Milano)

Le donne sono state costantemente presenti da quando esiste l’arte stessa; tuttavia, sino al XVI secolo, il loro tributo documentato rimane scarsamente visibile. Quali sono, a suo avviso, le ragioni per le quali è stato così arduo sottrarsi all’invisibilità e come vede oggi la condizione dell’artista-donna in Italia?

Sino al XVI secolo le donne hanno svolto – culturalmente e antropologicamente – attività che le vedevano affiancare, supportare, ispirare attività, sino a quei tempi, prevalentemente di matrice maschile (regnare, combattere, scrivere, dipingere, lavorare nei campi). Solo grazie ai sacrifici di alcune, poche hanno preso consapevolezza delle proprie competenze e il coraggio di esprimerle. Penso a grandi talenti femminili dell’oggi, penso al coraggio e alla caparbietà di donne come l’educatrice Maria Montessori, il Premio Nobel per la medicina Rita Levi Montalcini, la regista Emma Dante.
Penso anche ad Artemisia Gentileschi, Sofonisba Anguissola, Camille Claudel che raramente vengono ricordate. Le donne artiste sono sempre state penalizzate, se non ignorate o al limite menzionate per essere compagne di artisti uomini. Nel cimitero di Passy, nei pressi di Parigi, una lapide ricorda Berthe Morisot con la scritta: «Berthe Morisot, vedova di Eugène Manet». Nessun riferimento alla sua carriera d’artista.
La donna artista è riuscita a guadagnarsi qualche autonomia rispetto alla figura maschile a partire dal XIX e XX secolo. La donna ha lottato per la sua emancipazione; ricordi giovanili mi riportano alle manifestazioni a favore dell’aborto, del divorzio, alla parità dei diritti. Eppure sul vocabolario della lingua italiana alla voce artista si legge: sostantivo maschile e femminile. Oggi la donna è riuscita a sottrarsi in parte all’invisibilità proprio grazie alla sua forza di volontà, alla tenacia e all’innovazione cui conducono la sua sensibilità e le sue idee. Per fortuna oggi anche il panorama culturale pare dedicarle maggior attenzione.

Pensando all’essere artista-donna, ravvede una specificità di punto di vista esclusivamente muliebre; un fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime dell’arte declinata al femminile?

Nell’arte al femminile influisce sicuramente il diverso modo di essere della donna, una tra tutte la sensibilità, e non secondaria la sessualità, intesa in senso lato. Nel lavoro artistico a mio avviso si evidenzia in modo prevalente il sentire sensibile, un desiderio di comunicazione, di coinvolgimento in questioni sociali che vogliono offrire motivazioni ‘al femminile’, appropriate ad argomentare, su cui riflettere. Le artiste più giovani mi sembrano essere le più motivate verso una ricerca appassionata di problematiche femminili, ricca di spunti che sanno favorire una relazione tra arte e cultura, tra arte visiva e altri linguaggi espressivi.

Esiste un network delle peculiari professionalità artistiche, ovverosia un’unione tra i modelli teorici e le prassi artistiche, pensando a collezioniste, critiche, curatrici, artiste della mano e del digitale?

Creare un network, costruire una solida rete di professionalità ha svariati benefici, può determinare successo o fallimento. In arte però è molto difficile, se non impossibile. Esistono amicizia e solidarietà, dialogo e confronto e queste potrebbero diventare motivazioni solidali che fortificano le donne artiste, ma non si può parlare ancora di manifestazioni di network in arte. Certamente la percezione sensibile è intrinseca all’opera femminile, è questa la vera artista. Poi il costante confronto di tematiche diviene la pratica che consente di allargare all’universale i contenuti espressi con una delicatezza prettamente femminile.


Dagli anni ’60 del Novecento il corpo delle donne diviene l’interprete della discussione politica, il movimento femminista esplora i paradigmi e i ruoli stereotipati delle donne, mentre l’azione dei collettivi arricchisce le meditazioni sulla differenza di genere. La sua storia personale può documentare ostacoli dovuti alla sperequazione di genere?

Personalmente un’esperienza diretta mi è occorsa negli anni Novanta: in una fiera il gallerista aveva praticamente concluso la vendita di una mia opera, ma la firma femminile bloccò l’acquirente che cambiò idea. Fino a quel momento avevo sempre pensato di essere un'artista: a quel punto capii che essere ‘artista donna’ faceva differenza. Lo considerai un vero e proprio sopruso, una violenza di genere. Forse quell’esperienza fu determinante perché iniziassi a occuparmi di questioni sociali.


Sara Montani, Intimità, 2019
Cianotipia su carta Fabriano,100x70 cm

Quali sono gli ingredienti caratteristici del suo linguaggio, del suo codice comunicativo rispetto al ʽfemminile’ rappresentato palesemente oppure celato?

Due sono i progetti in cui ho inteso elaborare una ricerca dal codice prettamente femminile. Il discorso mi si è chiarito gradualmente nel tempo, ma in modo convincente nel farsi del lavoro riguardante il tema delle Vestali. In questo progetto intendevo riflettere sulla donna e la sensibilità femminile avvalendomi di un indumento intimo, la sottoveste – c’è e non si vede – di cui ho collezionato vari capi appartenenti agli anni ’50/’70.
La sottoveste nasce come indumento intimo femminile per riscaldare la persona, fatta con tessuto di cotone, di lino, oppure di lana o seta, ma nel XVI secolo serve più come sottogonna, per dare forma agli abiti. Negli anni ’20, per adeguarsi agli abiti, si accorcia, e il materiale di cui è fatta cambia, si utilizza sempre di più materiale sintetico come il nylon.
Io appartengo ancora a un’epoca in cui anche le bambine la indossavano. Perciò ho iniziato la raccolta. Quasi come un desiderio di preservare e proteggere ricordi e femminilità. La mia mamma le indossava e la zia Adelaide ne aveva di bellissime. Diventato ormai parte dei cimeli storici, questo capo di abbigliamento, raramente oggi viene usato sotto l’abito, ma la si ritrova ancora come abbigliamento intimo sensuale in molti film. Indubbiamente è un indumento simbolo, che ha un certo fascino. Scelgo quindi per il mio nuovo lavoro, proprio quelle sottovesti bellissime e scivolose dalle rifiniture in pizzo.
Avevo in mente la processione delle figure femminili appartenenti al Corteo di Teodolinda, lo straordinario mosaico nella Basilica di San Vitale a Ravenna. La mia idea voleva essere una processione di figure, con stampe a cera molle, suggerite dalle sottovesti e contemplava proprio l’uso di più capi della mia raccolta, per evidenziarne la diversa fattura nel tempo.
Come di consueto, il lavoro comincia con la preparazione delle lastre. Scelgo cinque matrici, dalle dimensioni di 45x90. Una matrice in tessuto, cartone e colle sarebbe stata affrancata su alluminio; le altre quattro, in rame, avrebbero originato stampe differenti, uguali nelle forme, ma diverse per colorazione solo nella parte del pizzo.
Quindi procedo convinta. Pulizia delle lastre, cera molle, morsure, acquaforte e impronte. Via via che il lavoro avanzava provavo grande soddisfazione e già ipotizzavo modalità di stampa differenti al fine di ottenere più fogli con forme femminili fra loro varie, pur appartenendo alle stesse matrici.
In attesa di completare il lavoro con le matrici in rame, che necessitavano di morsure e quindi di tempo in acido, iniziai a eseguire una serie di prove di stampa con la matrice in cartone.
Subito però, una nuova idea prese il sopravvento. Perché stamparle? Le lastre così, non finite, erano splendide, ogni passaggio tecnico era lì, lo osservavo stupita e compiaciuta. Presi allora a lavorare a ogni lastra con altre modalità. Estratto dalla vasca dell’acido, il metallo cambiava tonalità di colore e i segni neri evidenziavano le forme, la lastra vibrava di luccichii intensi, raccontava già. Ammiravo incantata le morsure che evidenziavano parte dei pizzi, le pennellate svanite della vernice coprente e le tonalità cromatiche del rame corroso dal percloruro mentre la cera molle si era scurita in modo anomalo.
Che bisogno c’era di stamparle? Significava togliere tutto per mettere in luce solo la lastra e i segni conferiti dall’acido! Decisi quindi di rivedere il progetto: quelle sarebbero state le mie opere finite. Così com’erano, completate da qualche ulteriore intervento tecnico.
Di fatto poi rimasero opera le matrici stesse. Il percorso di lavoro mi aveva catturato, non mi interessò più raggiungere l’idea iniziale: la processione di figure femminile rimase compiuta dalle sole prime stampe della matrice in cartone.
Il tessuto è uno dei medium del mio lavoro, un’infinita fonte di opportunità di racconto, di far nascere storie. Non butto via nulla, cose o materiali, se la loro vita non è stata sfruttata al meglio. Amo toccare gli oggetti, sanno trasmettermi una pluralità di sensazioni, possiedono una bellezza da rivelare, che devo scoprire. E mi riempie di entusiasmo e gioia chi me li dona.
L’ascolto della forma – scrive Cecilia Carrara – è, soprattutto, il metodo di lavoro di Sara Montani: tutti i suoi lavori, che si tratti di progetti artistici o di natura pedagogica e sociale, nascono nello spazio che l’artista lascia alla materia stessa. Il permettere al caso di entrare nel processo creativo diventa una necessità, e la scoperta del risultato una meraviglia da attendere in trepidante silenzio.

E qual è il secondo progetto intento a parlare al femminile?

La mostra Seduzioni d’artista. Per mangiarti meglio. È questa una mostra che, con tecniche differenti tra loro, con ironia e giocosità, ha inteso parlare al femminile. L’intento fu quello di esprimere attraverso metafore la condizione attuale della donna nella società.
«Ehi, nonna, che bocca grande che hai…», «Ed è per mangiarti meglio!» […]. Ispirata dalle parole della fiaba di Cappuccetto Rosso [1], ho presentato in un teatrino la scena del lupo travestito da nonna attraverso un articolatore dentale su cui montai impronte in gesso delle arcate dentali per rimandare ai lupi dell’oggi/violenza, ricatto, seduzione. Due mele in terracotta dipinta, quali metafore di figure femminili: una mela acerba/inesperta, che si affaccia al proscenio della teatrino/vita e una matura/invecchiata si apparta nel retroscena respinta dall’articolatore/società.
La seduzione è una ‘truffa’: è una messinscena, una sorta di fascinazione collettiva, che gioca un ruolo fondamentale nella vita di tutti i giorni e domina ogni forma di espressione sociale, la moda, la pubblicità, il mondo dello spettacolo, la letteratura, condizionando i rapporti interpersonali [2]. Nella società odierna, la seduzione prende il posto del lupo nel letto della nonna e, come il lupo, si traveste e non ti dà scampo. Ti mangia.
Tutti, uomini e donne, quotidianamente siamo sedotti o dobbiamo sedurre; in particolare la donna deve sorprendere con la bellezza e con il potere comunicativo degli accessori.
Ho inserito la poesia La ballata delle donne di Edoardo Sanguineti [3] quale filo rosso che ricucisse tra loro i tanti significati cui le opere si riferivano. Figlia, madre, nuora, sorella, amica, la donna è impegnata in una battaglia silenziosa: i versi della poesia di Sanguineti diventano così le didascalie alle opere.
I ruoli sociali, sulla linea del tempo, sono le tematiche che rivendicando alla donna la centralità dell’esistere.

BALLATA DELLE DONNE
Edoardo Sanguineti

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.

Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.

Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.

Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.

Femmina penso, se penso l’umano
la mia compagna, ti prendo per mano.

Affidai la curatela a Gigliola Foschi, storica e critica della fotografia; compagne di classe negli anni di liceo artistico, ci confrontammo con entusiasmo, a distanza di tempo, compiaciute di vivere un’esperienza insieme.
In catalogo Gigliola scrive: Strategie delle apparenze, giochi della seduzione che si declinano con la potenza del femminile e la costrizione dei corpi. Nelle opere presentate da Sara Montani gli oggetti più simbolici della seduzione (la mela tentatrice, il perizoma/reggicalze, la sottoveste...) assumono una nuova vita, al contempo inquietante e magica, fiabesca e metaforicamente capace di rimandare ai problemi delle contemporaneità. Un gioco dell’ammaliamento esaltato anche dall’uso di tecniche espressive molteplici (incisione calcografica, installazione, fotografia), ma sempre nate per ‘contatto’, a partire da impronte di abiti, da calchi corporei, da ricordi legati all’infanzia e all’universo intimo della donna. Impronte che si trasfigurano nel tempo di un fare artistico generato, di opera in opera, da un’inesausta curiosità creativa. che sa accettare il caso e accogliere la forza della materia per imboccare strade non ancora battute [4].

Sara Montani, La sposa bambina, 2021
tessuto, resina, 65x40x35 cm

Sara Montani, Vestale nera, 2010
tecnica mista, tessuto,acrilico su lastra di alluminio 100x50x5
cm





Daniela Perego (artista visiva, Roma)

Le donne sono state costantemente presenti da quando esiste l’arte stessa; tuttavia, sino al XVI secolo, il loro tributo documentato rimane scarsamente visibile.Quali sono, a suo avviso, le ragioni per le quali è stato così arduo sottrarsi all’invisibilità e come vede oggi la condizione dell’artista-donna in Italia?

La risposta più scontata e semplice è che la donna aveva la funzione essenzialmente di moglie, madre e viveva all’ombra del marito. Doveva essere fonte ispiratrice, musa e non era contemplato che potesse a sua volta essere artista. Le donne che non rispondevano a questo ruolo il più delle volte erano considerate pericolose o streghe. Nel passato di artiste ve ne sono state sicuramente e probabilmente anche molto brave ma il nostro mondo è sempre stato ʽmaschiocentrico’ e poche sono riuscite a sottrarsi a questa invisibilità. Penso alla lingua che è fondata sul maschile, a un Dio che è il Padre, quindi maschio, dell’umanità. Credo che l’uomo abbia sempre avuto timore della forza e intelligenza della donna e non riuscendo bene a comprenderne il diverso sentire non sa bene come rapportarsi a lei, quindi la condizione di subordinazione è una soluzione sicura. Sicuramente nel ’900 le cose hanno cominciato a evolvere e negli ultimi anni stiamo assistendo a un importante cambiamento nella figura dell’artista; le donne stanno conquistando sempre più importanza nel mondo dell’arte e non solo come artiste ma anche come critiche, curatrici e direttrici di Musei. Detto tutto, questo non ci resta che aspettare il sorpasso delle artiste sugli artisti… dopo secoli di silenzio ce lo meriteremmo.



Daniela Perego, Arrivederci, MACRO di Roma, 2017


Pensando all’essere artista-donna, ravvede una specificità di punto di vista esclusivamente muliebre; un fil rougeche annoda le plurime e molteplici anime dell’arte declinata al femminile?

Generalmente si afferma che le artiste siano più introspettive e che spesso lavorino su sé stesse e sul proprio vissuto. Questo riguarda sicuramente in buona parte il mio fare arte ma non amo le generalizzazioni. Conosco molte artiste che lavorano su svariati altri temi e mi sento di dire che le donne, qualsiasi sia il tema che affrontino, lo fanno in un modo diverso dagli uomini. Siamo differenti fisicamente, emotivamente e quindi siamo diverse anche nella nostra arte. Forse è questo il fil rouge che ci lega tutte nell’arte: la diversità di sensibilità. Personalmente riesco quasi sempre a capire se l’opera che ho di fronte a me è stata realizzata da una artista o da un artista e raramente mi sbaglio. Questo non è un male, come molti tentano di affermare, ma è naturale. Non voglio dire che l’arte delle donne sia migliore di quella degli uomini ma semplicemente diversa, quindi anche gli artisti-maschi hanno il loro fil rouge.

Esiste un network delle peculiari professionalità artistiche, ovverosia un’unione tra i modelli teorici e le prassi artistiche, pensando a collezioniste, critiche, curatrici, artiste della mano e del digitale?

Sinceramente non saprei ma sarebbe interessante scoprirlo.


Daniela Perego, Il mio albero, 2020


Dagli anni ’60 del Novecento il corpo delle donne diviene l’interprete della discussione politica, il movimento femminista esplora i paradigmi e i ruoli stereotipati delle donne, mentre l’azione dei collettivi arricchisce le meditazioni sulla differenza di genere.La sua storia personale può documentare ostacoli dovuti alla sperequazione di genere?

Devo dire che non ho avuto ostacoli significativi. Forse l’essere un’artista esteticamente carina ha creato dei fraintendimenti o false opportunità celate da un interesse sessuale, ma sono stata brava a stroncarle sul nascere.
Una volta ho avuto a che fare con un noto giornalista direttore di una rivista d’arte che spudoratamente manifestò il suo interesse in cambio di prestazioni. A un mio netto rifiuto ha cercato di ostacolarmi quando gli è stato possibile, ma sinceramente provo pena per lui e, tirando le somme, è stata un’esperienza ridicola e fortunatamente l’unica.


Daniela Perego, Arrivederci, MACRO di Roma, 2017


Quali sono gli ingredienti caratteristici del suo linguaggio, del suo codice comunicativo rispetto al ʽfemminile’ rappresentato palesemente oppure celato?

Se per linguaggio femminile intendiamo l’uso della mia persona nelle opere sicuramente in un certo periodo era palese ma, come penso di aver fatto intuire, secondo me si parte da un assunto errato: i linguaggi sono diversi, maschile e femminile non hanno molto significato per me. L’essere umano ha il suo metodo di espressione, se è donna avrà una sensibilità leggermente o anche molto diversa da quella maschile, ma in fin dei conti ha poca importanza, l’importante è che l’opera parli e arrivi nel cuore del fruitore oltre che al cervello. Inoltre si sta entrando in un’era sempre più androgina e quindi questa differenza è destinata a perdere sempre più di significato.


Daniela Perego, Arrivederci, Castello di Rivara, 2017





Silvia Stucky (artista visiva e insegnante di Qigong e Taijiquan, Roma)

Le donne sono state costantemente presenti da quando esiste l’arte stessa; tuttavia, sino al XVI secolo, il loro tributo documentato rimane scarsamente visibile. Quali sono, a suo avviso, le ragioni per le quali è stato così arduo sottrarsi all’invisibilità e come vede oggi la condizione dell’artista-donna in Italia?

Mi viene in mente la storia di Emily Davison, militante della Women’s Social and Political Union che rivendicava il voto per le donne in Gran Bretagna. Il 4 giugno 1913 si recò a Epsom, alle porte di Londra, per l’annuale corsa di cavalli cui assistevano la nobiltà e la ricca borghesia, alla presenza del re Giorgio V. Quando la corsa ebbe inizio, Emily Davison corse verso il cavallo del re per attaccare alle sue briglie la bandiera viola, bianca e verde della WSPU, e farla così sventolare fino al traguardo. Il cavallo la travolse; Emily riportò una frattura cranica e morì dopo quattro giorni senza riprendere conoscenza. Il suo gesto («deplorevole e scandaloso» per re Giorgio V) intendeva richiamare l’attenzione sui diritti delle donne, che non riuscivano a ottenere dal governo il diritto di voto nonostante le attività e le manifestazioni delle suffragette, oscurate o denigrate dalla stampa e perseguitate dalle forze dell’ordine. Solo nel 1928 il parlamento britannico avrebbe concesso il diritto di voto a tutte le donne.

Non stupisce quindi, molto più vicino alla nostra epoca, l’invisibilità delle artiste. Donne che uscivano dai canoni previsti e che era meglio nascondere per non pubblicizzare ‘cattivi esempi’.
Grazie alle tante battaglie e alle lotte dei movimenti femministi dagli anni Settanta, la posizione della donna nella società è cambiata, e così anche nel mondo dell’arte. Possiamo dire che dopo Carla Lonzi abbiamo una nuova visione. Ma nella realtà c’è ancora molta strada da fare, specie per quanto riguarda le istituzioni e il mercato dell’arte. E ancora, in Italia, le donne vittime di femminicidio nel 2020 sono state 112, 111 nel 2019, 133 nel 2018.



Silvia Stucky, Je est une autre, 2016, performance con Monica Valenziano
Installazione: dittico, foto digitale, disegno a inchiostro, 35.5x28 cm ognuno, panca di legno
Transfusioni #0, Archivio Menna/Binga, Roma, Foto Andrea Calì


Pensando all’essere artista-donna, ravvede una specificità di punto di vista esclusivamente muliebre, un fil rougeche annoda le plurime e molteplici anime dell’arte declinata al femminile?

Molte artiste hanno messo al centro delle loro opere temi legati al femminile, dall’esposizione provocatoria del proprio corpo come atto di denuncia, alla rivendicazione del cucito come tecnica artistica, solo per citare due delle innumerevoli forme di un’arte che pone il femminile al centro del suo operare. Altre artiste hanno lavorato su tematiche completamente diverse, apparentemente non connesse al femminile, eppure quasi sempre l’opera di una donna ha qualcosa di riconoscibile, di specifico.

Esiste un network delle peculiari professionalità artistiche, ovverosia un’unione tra i modelli teorici e le prassi artistiche, pensando a collezioniste, critiche, curatrici, artiste della mano e del digitale?

Non so se esista un vero network o un modello da mettere in atto. Già nel 1990 avevo partecipato alla IV Biennale Donna a Ferrara. Negli ultimi anni mi è spesso capitato di essere invitata a progetti ideati e curati da donne. È il segnale che sempre più donne – artiste, storiche dell’arte, curatrici, critiche, collezioniste – lavorano con grande passione e professionalità nel campo dell’arte e della cultura.

Fra i progetti pensati e realizzati da donne cui ho partecipato ci sono Transfusioni curato da Anna D’Elia, fortemente voluto da Tomaso Binga/Bianca Menna che l’ha ospitato all’Archivio Menna-Binga e al Lavatoio Contumaciale, che ha dato vita a cinque mostre dal 2016 al 2020; e il ciclo di mostre Le altre opere. Artisti che collezionano artisti ideato da Daniela Perego, subito accolto da Lucilla Catania, e proposto in cinque musei romani dal 2020 al ’21. Non sono progetti con tematiche rivolte al femminile, ma hanno ospitato artiste e artisti senza discriminazioni, forse anche con una prevalenza di artiste, cosa a volte rara nelle rassegne collettive.
Progetti dedicati alle donne sono Il Sangue delle Donne di Manuela De Leonardis (libro/catalogo, Postmedia Books, 2019); il ciclo di performance Il corpo delle donne a cura di Lori Adragna (Il corpo delle donne, Inside Art Autori, 2018) e Anna de Fazio Siciliano, nell’ambito del progetto Per una ricerca sulla specificità (eventuale) dell’arte femminile #2 - Arte, reazione e resistenza, a cura di Veronica Montanino e Anna Maria Panzera, documentato poi nel libro FEMM[E] arte [eventualmente] femminile. Nel 2021, la rassegna virtuale sul video d’artista del MLAC, Video of the Week, è stata curata da Francesca Gallo e Paola Lagonigro, e la mostra Arte e Natura. Opere dalle collezioni capitoline di arte contemporanea, al Museo Bilotti, in corso fino a settembre, è curata da Antonia Arconti, Ileana Pansino, Daniela Vasta.C’è ancora un grande lavoro da fare per portare alla luce il lavoro delle artiste impegnate nell’immaginare nuovi schemi di pensiero. Penso che dobbiamo imparare a fare rete, cambiare punto di vista, fondare una nuova visione del mondo fuori dal modello patriarcale. E questo non solo nell’arte ma in tutti i settori, a cominciare dall’educazione.



Silvia Stucky, La cascata, 2019,
dittico, fotografia (stampa su carta Hahnemühle), acquerello su carta, 30x30 cm ognuno
Le altre opere. Artisti che collezionano artisti, Museo Napoleonico, Roma


Dagli anni ’60 del Novecento il corpo delle donne diviene l’interprete della discussione politica, il movimento femminista esplora i paradigmi e i ruoli stereotipati delle donne, mentre l’azione dei collettivi arricchisce le meditazioni sulla differenza di genere. La sua storia personale può documentare ostacoli dovuti alla sperequazione di genere?

Ho frequentato il liceo artistico negli anni Settanta, partecipando alle occupazioni, alle assemblee, alle manifestazioni, ai gruppi politici, facendo parte dei collettivi femministi. Vivere quell’epoca mi ha reso consapevole di che cosa vuol dire essere donna in una società dominata da modelli e poteri economici maschili. Le donne hanno fatto tante lotte e tanto lavoro per migliorare aspetti sociali, economici, personali della condizione femminile, per ottenere il diritto di decidere ciò che riguarda il nostro corpo. E per acquisire una consapevolezza che permetta alle donne di sviluppare un pensiero diverso da quello dominante. A volte è difficile anche per le donne, pensare, ragionare, indipendentemente dal contesto, pensare modi di relazione e modelli diversi. Fare arte, essere indipendente, non avere figli, queste sono state le mie scelte alla fine del liceo. Decisi di essere un’artista perché era una necessità personale, intima, non una carriera o un lavoro come un altro. Molti sono stati gli ostacoli, di vario tipo, e tanti gli errori, ma non ho mai rinunciato alle mie idee, alle mie scelte. Uno degli slogan che preferivo è «io sono mia».



Silvia Stucky, Lacrime delle cose, 2018
colori per tessuto su lino, 59x59 cm, Il sangue delle donne. Palazzo Fibbioni, L’Aquila


Quali sono gli ingredienti caratteristici del suo linguaggio, del suo codice comunicativo rispetto al ʽfemminile’ rappresentato palesemente oppure celato?

Non ho mai pensato di dover fare opere che avessero per soggetto il femminile. A volte ho realizzato opere legate a una dimensione intima, personale. Il campo del possibile (2012) è un dittico che contiene il mio testamento biologico. Je est une autre (2016) comprende un’installazione composta di un dittico (una foto e un disegno) e una panca di scuola elementare, e una performance. Confrontandosi con un’opera di Ketty La Rocca, Je est une autre riflette sul tema del riflesso, del doppio, dell’altro come ‘altra’, della memoria. Nella performance, due donne ‘uguali’ stanno insieme, sedute, in silenzio.
L’acqua è un elemento centrale del mio lavoro. L’acqua non ha forma, il suo fluire è un continuo dalla sorgente agli abissi del mare, un ciclo inarrestabile fra cielo e terra. Seguire senza forma il flusso delle cose: questo ha guidato la mia pratica artistica attraverso pittura, video, fotografia, installazione, performance. Proseguendo nel mio cammino ho rivolto l’attenzione alla natura, osservandone i processi, i cambiamenti continui, la rete che tiene in equilibrio le relazioni fra tutto ciò che è vivo sul pianeta, a cominciare dalle piante.
Scrive François Jullien in Il saggio è senza idee: «Versare senza mai riempire, attingere senza mai svuotare e senza sapere da dove questo viene, ecco ciò che si chiama custodire lo splendore».
Per accogliere lo splendore della natura e custodirlo nel mio lavoro di artista ho fatto un passo indietro, attenuando la mia autorialità per lasciare uno spazio vuoto e un tempo fecondo alle cose che semplicemente accadono. A volte progettare troppo può rivelarsi inutile; per tenersi nel giusto equilibrio fra tutte le cose è meglio essere ‘come acqua che scorre’.
Opera senza io (2015) nasce per accogliere e mostrare lo splendore della natura. All’Orto Botanico di Roma un grande noce, caduto nel 2008, è stato salvato coprendo con una collinetta di terra le radici, in modo che continuassero a prendere nutrimento dal terreno. Un gesto di cura straordinario, semplice quanto efficace, che ha permesso all’albero di vivere adagiato a terra.
«L’opera è senza io; è un invito a trovare una relazione profonda tra noi e la natura stessa. Opera a ‘impatto zero’: l’opera è un concetto, è una pratica; è il pensiero, è la riflessione e la comprensione che la nostra vita non esiste come cosa a sé stante, ma solo in relazione con tutto ciò che ci circonda. L’opera è lo sguardo dei visitatori, è protezione, come la terra che ha coperto le radici permettendo una nuova vita». Con queste parole invitavo il pubblico a sedersi per guardare l’albero. In rete si può sfogliare il libro Opera senza io, con testi, disegni a inchiostro, e foto che ho scattato durante più di un anno.
Riflettere sui processi della natura ha rafforzato la mia consapevolezza che il sistema capitalista globale – che implica consumo illimitato, prelievo incontrollato di risorse non rinnovabili, distruzione degli habitat naturali, forme più meno scoperte di violenza e di patriarcato – non è sostenibile. Le conseguenze di quel sistema sono il cambiamento climatico, l’emergenza ambientale, l’inquinamento della terra, dei mari e dell’aria che respiriamo, e infine la pandemia.
Cambiare concretamente paradigma e modo di agire è vitale se gli umani vogliono continuare ad abitare la Terra. Questo avverrà solo trovando un equilibrio con i processi naturali. Solo un sistema che non discrimina, che si fonda sull’uguaglianza, darà vita a una società davvero sostenibile, accogliente, inclusiva, che si prenda cura del pianeta come di un giardino che offre cibo, acqua e aria a tutta l’umanità. Il giardiniere è un lavoro da uomo o da donna?


Silvia Stucky, Opera senza io, 2015, Museo Orto Botanico, Roma




Delphine Valli (artista francese, Roma)

Le donne sono state costantemente presenti da quando esiste l’arte stessa; tuttavia, sino al XVI secolo, il loro tributo documentato rimane scarsamente visibile.Quali sono, a suo avviso, le ragioni per le quali è stato così arduo sottrarsi all’invisibilità e come vede oggi la condizione dell’artista-donna in Italia?

A volte, possiamo interrogare un fatto in funzione delle conseguenze che avrà, piuttosto che delle cause che l’hanno determinato e che spesso conosciamo. Chissà cosa produrrà, e cosa stia già producendo, l’arduo esistere delle artiste del passato? Come sappiamo, la storia dell’arte, fino a un certo punto, si è basata sugli scritti degli uomini, un po’ come la storia delle guerre è scritta dai vivi, non da chi ci è morto. Farebbe una bella differenza, chissà cosa direbbe del mondo e dell’implicazione delle sue scelte, chi è morto in trincea, calpestando cadaveri o chi muore oggi sotto le bombe che esistono ancora. Non è arduo sottrarsi all’invisibilità, basta comparire, la visibilità come valore appartiene a un paradigma che lascia intendere che esista solo ciò che si vede. In questo senso, siamo andati avanti spediti nel disastro ambientale e sociale ignorando ciò che non si vede, sia perché è invisibile (inquinamento) sia perché accade sufficientemente lontano (sfruttamento, distruzione di massa degli animali, dei territori…), è più arduo avere a che fare con le forme più recondite dell’ipnosi nella quale la società attuale, ancora patriarcale, progredisce senza evolvere. Ora, occorre essere più ambiziosi, oltre all’uguaglianza, rivendicare valori non contemplati dal potere attuale, che ha coniato una società predatrice che sta palesando i suoi limiti. Fino al 2014, i 10 artisti più pagati al mondo erano uomini, non sta naturalmente a indicare il minor valore delle artiste ma semplicemente la loro relativa assenza dai grandi sistemi legati al mercato e quindi una evidente carenza di questi ultimi. Si dice artista-uomo? No, semplicemente artista. Parlare di artista-donna sembra implicare una sotto categoria, o una minoranza, e oggi non mi sembra proprio che questa minoranza esisti ancora, siamo in tante, e vedendo le ultime generazioni, sempre di più. Si abituassero!



Delphine Valli, On being superficial, oilbar e pittura spray su cartoncino, ferro, vetro, cm 150x40,
2015, Climax, AlbumArte (credito foto: Sebastiano Luciano, Courtesy AlbumArte
)


Pensando all’essere artista-donna, ravvede una specificità di punto di vista esclusivamente muliebre; un fil rougeche annoda le plurime e molteplici anime dell’arte declinata al femminile?

Se esistesse una categoria detta dell’arte femminile, allora anche un artista uomo dovrebbe poterci appartenere, altrimenti si tratterebbe di un ghetto, accessibile solo al genere femminile. Oggi, per non confondere le libertà con la libertà, direi che non bisogna restringere il campo della propria intelligenza e non sottostare a categorie dettate da convenzioni che si sta invece contestando e che si cerca di superare. Gli artisti e le artiste sono già una minorità nella società, a prescindere dall’essere uomo o donna, ma come i Francescani, rivendico la minorità come valore, è un pregio e non l’espressione di una carenza.

Esiste un network delle peculiari professionalità artistiche, ovverosia un’unione tra i modelli teorici e le prassi artistiche, pensando a collezioniste, critiche, curatrici, artiste della mano e del digitale?

Fare rete
è l’ingiunzione vincente, ma se da un lato l’integrazione della propria pratica in un contesto più vasto, con il quale si instaura un dialogo – il tutto è superiore alla somma delle parti – è essenzialmente costruttivo, dall’altro, nel contesto attuale che vede il vecchio paradigma seriamente in crisi, con tutti i valori che alberga, a me appare estremamente delicato determinare la frontiera tra il relazionarsi vitale – che vedo come fertile – e la strumentalizzazione dei rapporti, che appartiene al paradigma del potere e che di certo, non è da assumere come valore. Come artista, ho naturalmente stabilito alleanze motivate da affinità e comunità di intenti, sia con donne che con uomini, proprio perché siamo uguali, ma differenti.


Delphine Valli, Real Return From Utopia,
tempera a parete e ferro dipinto, misure ambientali, Real Utopias, MANIFESTA13, 2020
(credito foto Guido Mencari)


Dagli anni ’60 del Novecento il corpo delle donne diviene l’interprete della discussione politica, il movimento femminista esplora i paradigmi e i ruoli stereotipati delle donne, mentre l’azione dei collettivi arricchisce le meditazioni sulla differenza di genere.La sua storia personale può documentare ostacoli dovuti alla sperequazione di genere?

Le artiste femministe degli anni ’70 come Gina Pane, Jana Sterback, Valie Export per citarne solo alcune, attraverso il loro corpo, frontiera ultima tra l’Io e l’Io sociale, interrogavano il corpo sociale e rivendicavano l’uguaglianza che permette alle differenze, che sono essenziali, di palesarsi liberamente, una volta essa ottenuta. Per me, la questione scottante, oggi, è quella che verte attorno al paradigma del potere, sia esso espresso da uomini o da donne. Alla domanda rispondo di no, sempre che io sappia ovviamente.


Delphine Valli, Sweet subversion, pittura spray su cementina, 20x20 cm, 2019, coll. privata


Quali sono gli ingredienti caratteristici del suo linguaggio, del suo codice comunicativo rispetto al ‘femminile’ rappresentato palesemente oppure celato?

Se sono presenti è alla mia insaputa, sono una donna naturalmente ma non faccio arte attraverso il prisma del femminile ma di un campo più vasto, che integra necessariamente il femminile ma anche il maschile. Si è prima di tutto un essere pensante. Il dualismo va integrato. È una violazione dell’individuo ridurlo alla persona, l’ingiunzione tacita sarebbe quella di dovere pensare come una donna (o vice versa come un uomo) restringendo il campo del pensiero così come quello dello spirito, che non ha alcun sesso. La rivendicazione politica ha luogo proprio perché l’essere possa essere libero, e di sicuro, non perché retroceda e si limiti a vivere in categorie preconcette. Per me, fare arte oggi significa rivendicare questa libertà. In questo senso è politico e in questo senso è spirituale.



Delphine Valli, Sweet subversion, pittura spray su cementina, 20x20 cm, 2020




A cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin
(n. 6, giugno 2021, anno XI)