Elena Cologni, pratiche di cura per rivelare il ‘corpo del/al lavoro’

A giugno, la nostra inchiesta esclusiva sulla donna artista si arricchisce di una nuova serie di interviste che approfondiscono e allargano ulteriormente la prospettiva sull’argomento. Il progetto, a cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin, andrà avanti nei prossimi numeri, continuando ad arricchire la nostra rete per il dialogo interculturale. Tutti i contributi sono riuniti nel nostro spazio appositamente dedicato a questo progetto, Inchiesta esclusiva donna artista.
Formatasi all’Accademia di Belle Arti Brera di Milano, oggi l’artista Elena Cologni vive e lavora a Cambridge, in Gran Bretagna, dove svolge attività di ricerca presso la Cambridge School of Art, Faculty of Arts, Humanities and Social Sciences (Anglia Ruskin University). È presente a Venezia, fino al 4 luglio 2021, con la sua personale Pratiche di cura, o del cur(v)are, a cura di Gabi Scardi, esposta alla Fondazione Bevilacqua La Masa negli spazi di Palazzetto Tito. Nel dialogo conosciamo il suo linguaggio artistico «dal vivo» e partecipativo, con diramazioni nell’«ecofemminismo».


Stante la sua esperienza, quali contorni assume attualmente lo status muliebre della donna artista?

È un momento questo in cui per fortuna ci sono molti spazi di riflessione sul riconoscimento storico di alcune grandi artiste, di come tante abbiano favorito l’evoluzione degli stili, ma siano state assolutamente dimenticate. Questo ha portato a una particolare attenzione anche le protagoniste dell’arte contemporanea, e ci si auspica prosegua. 

Con quale visione nasce la mostra Pratiche di cura, o del cur(v)are?

La mostra ruota intorno al concetto di ‘intraluogo’ che ho definito nel progetto ‘Seeds of Attachment’ del 2016/18 e che è inteso come una distanza, ma anche spazio condiviso nell’approccio dialogico, partecipato. Attraverso i miei progetti precedenti in mostra, l’idea dell’interdipendenza tra individui, la comunità e l’ambiente sta alla base dell’attivazione delle mie sculture dialogiche. Nel progetto specifico per Venezia questo avviene nei luoghi del lavoro, e pratiche di cura per rivelare il ‘corpo del/al lavoro’.

Quali sono gli ingredienti caratteristici del suo linguaggio, del suo codice comunicativo?

L’indagine dal vivo e partecipata è centrale nel mio operare, anche se la pandemia mi ha portato a lavorare a lungo in studio. Gli oggetti e sculture sono strumentali all’esperienza condivisa, attraverso laboratori, o eventi, come avviene anche a Venezia.



Nella sua ricerca artistica trova spazio anche l’ecofemminismo. In che modo?

L’ecofemminismo, che ho discusso con Laura Cima e Susan Buckingham, tra gli altri, indica che il progresso industriale di alcuni ha portato alla sofferenza di altri, dei più deboli, incluse le donne. Ecologia intesa come sistema delicato di relazioni, oltre che riferirsi all’ambiente. Nel progetto Seeds of Attachment avevo coinvolto delle madri a incontrarmi sul tragitto casa-scuola, con l’intenzione di indagare come il rapporto madre/figli influisca sullo sviluppo dell’attaccamento al luogo. Attraverso il progetto si è reso evidente come il ruolo del prendersi cura non è solo della madre, ma è un ruolo fondamentale nella società, anche se ritenuto marginale. L’ecofemminismo sostiene, così come l’etica della cura, che certi ruoli marginali nella società devono tornare a essere centrali, secondo una logica nuova.

Il suo lavoro artistico si fonda anche sul 
coinvolgimento del pubblico al farsi dell’opera. Qual è oggi, secondo lei, la funzione sociale dell’arte?

Domanda complessa e per la quale avere una risposta precisa sarebbe presuntuoso. Ci provo. Credo che l’artista abbia la responsabilità di raccontare delle storie che abbiano senso anche per gli altri, che debba veicolare delle riflessioni che possano diventare dialogo. Per me questo ha significato pensare a dei lavori non-finiti, da completare attraverso la percezione, l’interazione, la collaborazione a riconoscere di nuovo la necessità di un’interdipendenza, non solo tra artista e fruitori, ma in modo più ampio nel sociale.


The Body of/at Work, 2018/2021

Lei è ricercatrice dell’Anglia Ruskin University di Cambridge, in Gran Bretagna. In che modo la ricerca accademica influisce sulla sua esperienza artistica?

La mia ricerca accademica ed esperienza artistica sono la stessa cosa. Questo sta proprio alla base dell’approccio ‘art as research as art’, che ho discusso in una recente pubblicazione. Ricordo che anni fa ero quasi derisa perché facevo ricerca, ma questo tipo di cultura è anche uno dei motivi per cui me ne sono andata. Il mio modo di lavorare aveva già l’idea della conoscenza che può essere prodotta e riconosciuta attraverso il fare arte. La mia curiosità verso le cose, i concetti, i luoghi e le persone passa attraverso il fare, non per cercare risposte, ma per il piacere di indagare.

Quali direzioni di ricerca e progetti ha in serbo per il futuro?

In questo momento sto lavorando su un progetto a cui ho pensato e che ho preparato da tempo, ma se la pandemia ne ha deviato il percorso da un lato, dall’altro ha reso più evidenti e necessarie alcune riflessioni insite nel mio lavoro. Tra queste: il nostro rapporto con i luoghi come la casa e quello del lavoro; il bisogno di allenare la nostra attenzione al quotidiano, al marginale e alla cura dell’altro. Il tema del lavoro della donna, centrale nel progetto che prende il via a Venezia ‘The Body of/at Work’, non si esaurisce certamente qui.


Untitled (score), serie di disegni (2020, 35x50 cm ciascuno)

Esiste un network delle peculiari professionalità artistiche, ovverosia un’unione tra i modelli teorici e le prassi artistiche, pensando a collezioniste, critiche, curatrici, artiste della mano e del digitale?

Io faccio ricerca dalla fine degli anni ’90 e l’ambito della pratica artistica come ricerca andrebbe addirittura storicizzato ormai, comunque sì, certamente, un ambito c’è. Le artiste e curatrici attente alle teorie di genere sono molto bene informate e la rete si sviluppa per passa parola e per rispetto reciproco ci si segue e prima o poi ci si incrocia per affinità di pensiero o approccio.

Dagli anni ’60 del Novecento il corpo delle donne diviene l’interprete della discussione politica, il movimento femminista esplora i paradigmi e i ruoli stereotipati delle donne, mentre l’azione dei collettivi arricchisce le meditazioni sulla differenza di genere. La sua storia personale può documentare ostacoli dovuti alla sperequazione di genere?

La mia storia personale è indissolubilmente legata alle scelte che ho fatto di abbandonare l’Italia e acquisire prospettiva e libertà espressiva. Il mio lavoro ha assorbito il sentimento di avversione verso una cultura patriarcale dominante nel paese e in famiglia, e sono pienamente consapevole delle conseguenze che sto ancora pagando. I ruoli sono così statici nella società e ogni occasione è buona per ricordacelo. Ma per me si tratta molto anche di un problema di potere e controllo che identifichiamo con il sistema patriarcale. Ma io penso oltre al genere, e ritengo che il problema sia che tutti coloro i quali sono allineati con questo sistema sostengono anche un modo di pensare binario, che include dicotomie come mente-corpo, forte-debole, urlato-sussurrato, maschio-femmina.

Quali sono, a suo avviso, le differenze più spiccate tra il sistema dell’arte in Italia e in Gran Bretagna, anche per quanto riguarda gli spazi di visibilità della donna artista?

Non saprei, non conosco così bene né l’uno né l’altro, non credo di fare parte di un sistema. Ma da esterna, mi sembra che la riflessione sulla visibilità della donna artista sia presente in entrambe, ma se in Gran Bretagna l’artista può essere parte attiva del dialogo, in Italia tende a parlare per bocca di altri, o canali diversi. Questa è una differenza in parte dovuta alla ricerca che in Gran Bretagna riconosce alla pratica un ruolo attivo in ambito accademico, ma anche per l’impatto che ha nella società e nella politica. Detto questo, stiamo aspettando dei tagli non indifferenti per la cultura e l’educazione... comunque, così come me, anche molti altri professionisti hanno avuto il sostegno dell’Arts Council England, che favorisce la sperimentazione e ha sostenuto tantissime iniziative di genere.



Pratiche di cura, o del cur(v)are



A cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin
(n. 6, giugno 2021, anno XI)