Angela Marinescu: una retrospettiva (III). Da «Parcul» (1991) a «Fugi postmoderne» (2000)

La terza parte della retrospettiva dedicata ad Angela Marinescu include poesie provenienti dalle raccolte pubblicate tra il 1990 e il 2000: Il parco (1991), Il gallo si è nascosto nel taglio (1995), Blues (1997) e Fughe postmoderne (2000). Riguardo a questa fase poetica Al. Cistelecan scrive: «Una volta giunta sull’orlo della crisi Angela si precipita in una nuova valanga editoriale, in parte prolungando in modo agonico […] la scrittura atomizzante e implosiva delle poesie di ferro» – si veda a questo proposito soprattutto le poesie brevi della raccolta Il parco – «in parte riconquistando la sicurezza del periodo retorico e trasformando le sue ossessioni in temi (temi personali senza dubbio, ma temi premeditati) organizzati in visioni ʻsistematicheʼ e sistematizzate. Non troviamo più quasi da nessuna parte la precedente spontaneità visionaria» – in riferimento in particolare alle poesie di ferro di La struttura della notte (1979), alla raccolta La blindatura finale (1981) e agli inediti dell’antologia Var (1989) – “e Angela si comporta come un proprietario di temi amministrati sotto un concetto poetico proclamato sempre più aggressivamente, ma che non ritrova più la densità del nucleo d’uranio delle febbri angoscianti d’un tempo”.


Da Il parco (1991)


Al confine del giardino

Il confine del giardino si è scosso come davanti
ad un tocco solenne
ma l’atto dello stupro si è consumato bruscamente
la morte ha evitato, impassibile,
Tre Ombre Profane.
il mio onore oscuro è una poesia lontana
che chiude un libro la cui conclusione potrebbe essere religiosa
se la mia pelle avesse racchiuso un altro corpo più forte,
un corpo davvero maschile, con la fronte di monaco,
ma io urlo con la bocca chiusa e mia sorella…
mia sorella Eleonora mi chiama da oltre il muro
che si avvicina
sull’ombra di Eleonora disegno un’altra ombra.
là dove il cervello tocca un’altra ombra
delle sue cosce
prima della morte
prima di ogni libro
prima di ogni parola.




Cielo d’autunno

Il cielo si estende, bianco, come un animale
che ha la nausea; nel vaso viola un fiore viola
mi spacca la faccia
l’abisso così spalancato raggiunge la perfezione.
all’interno, nell’atto più nero, vicino,
prego davanti alla chiesa che distrugge la strada,
il mio volto rivolto a quelli che non hanno volto; sono il mendicante pieno di sangue
che entra all’interno
per sempre, laggiù, così lontano
con sedie di legno che si innalzano
tra le Loro vesti vecchie e profonde,
vesti di legno.

tra di loro, l’esitazione, selvaggia.




Ora, nel buio

Ora, nel buio, salgo sulla tua mano viola
e sento le mie parole tra le cosce.
stamattina ti sveglierò e ti dirò;
vai via per sempre dalla casa con ragni di cristallo,
vai via come un estraneo. 
la mia pazzia è più vicina alla morte
che alla poesia.
l’icona a destra, appesa, non ha più volto; il bacio
dei poveri ha corroso l’immagine fino al legno.
un villaggio in cui ho incominciato a conoscermi
è il villaggio in cui hai raccolto lamponi neri.
laggiù la nostra risata è stata sbagliata.
un altro bambino bacia le sue mani; un’altra morte.




Il giuramento

La monaca rompe il suo giuramento;
ora incomincia il massacro e la paura.
essere quella che non sei non è facile.
ma essere quella che sei diventata è terribile.
un angelo che vedo mi taglia la strada.
un angelo che non vedo
mi dona il vaso di ferro
da riempire col sangue.
un angelo, malato, mi dice
che l’amore e l’odio non hanno fine.

verrà il giorno in cui disegnerò le parole che
non posso più pronunciare.




La parola che mi turba

Vicino ad un certo giorno, ci sono molti muri
che imputridiscono nella luce; ancor di più quelli che
sono abbandonati nell’ombra.
s’innalza il buio, come una sonda, verso
il cielo irreversibile.

“poiché volentieri avrei incominciato a baciargli
la pianta dei piedi”
ma il tempo cancella la religione del mio volto.
il tempo s’innalza, come un animale.
s’innalza sull’arma.

sono in una chiesa; non devo più urlare.
la violenza sono io. la chiesa, fuori.
le cripte, le vetrate, gli infermi
e quelli che se ne sono andati.
quando mi ricordo la parola che mi turba;

ora, qui, dentro.




Questa notte

Questa notte assetata d’amore
mi sgorga per molto tempo dal petto, come allora,
quando ancora giovanissima sputavo sangue sulle pareti
piene di fumo dell’ospedale in cima alla montagna.
nelle mie passeggiate malate e perdute
il sentiero tra gli abeti irrompeva direttamente nei polmoni
come un arco d’argento bagnato nella resina
o forse come una parola che provoca l’atto sessuale
o, più precisamente; il piacere puro.

un ratto mi segue dappertutto.




Porto parole sul vassoio pieno di viscere calde

La mia selvatichezza è così grande che
posso strapparmi le mani
posso staccarmi la bocca rossa
posso portare le parole sul vassoio dove
portano le viscere calde

e la brama di sangue caldo
è molto meno selvaggia della
mia selvatichezza quando mi provoco
davanti al muro, il lago in cui introduco,
fino al sangue, il mio sesso.

il ricordo del muro è più selvaggio dello
specchio in cui mi guardo il volto quando
prego, di sera spacco sul petto lo specchio
freddo, quando le campane annunciano la quiete profonda della notte
quando il buio mi nasconde il volto anche allora
così selvaggio.




Il parco

(frammento)

In questo parco proverò il potere e l’efficienza
della rivolta nei confronti di me stessa, con le mani
mi provocherò il Tutto.
staccherò lo specchio lucido e nero dal muro che
m’impedisce di vedermi così da vicino tanto da non
vedermi.
lo spaccherò. mi incollerò al muro col corpo.

al posto del silenzio si insinuano le mani.

il buio staccato dalle mani è la parola che può
distruggere.
perché le mie mani sono state sempre piene di
buio
gioco con loro profondamente come il fuoco.
avanzo con la lanterna nera di un bambino in questo parco
di nessuno.
le foglie ancora verdi tremano colpite da un vento che non
può essere descritto.
sono qui, ma solo con ciò che non sono. perché in
questo parco
non posso più amare sento il nulla. il nulla può essere anche il sole
che taglia
il muro bianco di fronte, ma anche il sesso terribile del padre
bruciato nel fuoco.
niente di distinto nel rifiuto che scuote la vita. ho amato finanche
la sua testa,
e non portata sul vassoio.
un sassofono d’argento piange nelle mani di colui che lo
maneggia
e il suo pianto mi parla più del mondo che
di me stessa.

il bambino con la fronte ammaccata dall’ingenuità avanza
sui gradini neri dentro la città, sale su una
panchina
che abbiamo sistemato con cura, qui dentro il suo cielo
guarda
la stella oscura.

il suo volto s’infossa sulla croce con la lenta velocità della morte.
e quando si dice che nulla conta se non
la presenza di una
fessura attraverso la quale possa penetrare la luce, allora non si dice
nulla.

allora il mio volto diventa stretto e preciso come
un ostacolo.

il bambino conduce una lotta mortale col suo amico
e il sangue gli scorre dal naso; ma il sangue sul suo volto è
solo un sussurro. e il profumo del suo sguardo come un personaggio
in piena azione resta qui, fermo, per sempre.
una fine che incomincia senza nessuno scopo. un fruscio
di neve sull’abete tagliato per la festa interiore
che è sempre passata e non è mai.
mi faccio spazio con le mani piene di buio
nello specchio nero e splendente che non può essere sconfitto.
nel tempo dello specchio lo specchio diventa la parola che può
distruggere.

colui che mi guarda senza vedermi
vorrebbe che tutto possa essere rinviato.
e che la morte nel tempo della morte sia ciò che non può essere,

forse la mia poesia è solo il tempo in cui
ho scritto senza vedere.
di me ho scritto che il mondo sono io.

ma io non sono.




Da Il gallo si è nascosto nel taglio  (1995)


Il villaggio

Con la testa rasata camminavo per il villaggio
nel tempo in cui la poesia non aveva più nessun potere.
Nessuno Aveva Più Nessun Potere.
Da alcune casupole usciva fumo.
nelle stalle, il bestiame muoveva solo il corpo.
era tempo che venisse il buio con la pelle scorticata
era tempo che venisse la notte piena di placche di ferro arrossato
sulle mani come squame.
era tempo che venissero i cani e i gatti, bruciando vivi tra altri animali.
io ero la monaca che distrugge il suo sesso.
Deboli estranei e parenti di sangue venivano per tormentarmi.
un turbine mi afferrava la testa e la portava in un luogo
senza nessuna possibilità; alti diavoli, col naso troppo grosso,
mi strappavano, indifferenti, la pelle della testa.
angeli pieni di sangue mi aiutavano a vivere.
non volli più scrivere perché l’erba cresceva fino al recinto, coprendo il villaggio.
e non volli più tacere perché il Silenzio era lo stesso villaggio.
all’improvviso il Fuoco inghiottì gran parte del villaggio; era una punizione
ma anche una felicità.
nessuno sapeva la verità e nemmeno io.
“e disse Manole a sua moglie; moriremo senz’altro
perché abbiamo visto Dio”.




Quando tutto sarà quieto

Quando tutto sarà quieto
e colui che è stato l’amato diventerà il nemico
e colui che è stato il figlio diventerà il carnefice
e colui che beve il vino tremerà

allora saprete che sono rimasta più sola
di un animale prossimo alla morte
con la pelle tesa sulle parole
con le mie lunghe cosce vicine alla disperazione

nella camera mezza nera
ho conosciuto la solitudine
e la colpa di colei che si provoca la poesia.




Da Blues (1997)

Blues

Tu sei un poema feudale in carne ed ossa
la tua memoria è un’istituzione sacra da cui
tutti strappano la loro parte e tuttavia, ne rimane
sempre abbastanza per seppellire un intero harem.
mi allontano dallo spazio in cui la tua memoria
si è scavata la tomba. me ne allontano a fatica,
la mente si copre con un velo pesante e nero,
le parole rimangono sospese alla corda
sulla mia testa. la violenza si accende
da sola da una candela invisibile
voglio che tu sia il primo, che tu sia il più forte,
che tu sia la fine del mondo e della mia vita.
vorrei che tu scrivessi i miei testi più difficili
che firmassi col sangue, che cancellassi la superficie blu del mare
come un cervello col rasoio
che mi accarezzassi le cosce con le mani arrossate nel fuoco
e che non rinunciassi mai al demonio.
finché esisto sono ancora viva, la mia patria
è feudale. il terrore è la bandiera che sventola
sulla porta nera e stretta della mia casa.
ma i miei diavoli mi assediano, mi hanno strappato occhi
e denti, le ferite si spalancano sotto la pelle che, astuta,
copre il corpo che crolla da dentro,
come la riva scavata dall’acqua.




Da Fughe postmoderne. Poesie sempre più inesatte (2000)


Fuga postmoderna XIV

Non riconoscerò mai che mi sarebbe piaciuto
fare l’amore.
Ho solo desiderato e solo desidero di entrare
nell’impero dei cieli.
In mezzo ad angeli senza vigore, a donne
con uteri di pietra,
a bambini col sesso paffuto e perverso
a lesbiche alte, a ladri che pregano
con le ginocchia rotte,
in mezzo a falliti, a ciechi e zoppi,
a impotenti che costruiscono col sangue
i propri castelli,
a neri incatenati, a vecchi suicidi
e pazzi.
Ho voluto fare l’amore solo con me stessa
su una croce di ferro innalzata da me,
non ho voluto essere violenta con gli altri, ma solo con me stessa.
il legno delle mie mani attacca in una sola direzione.
sono contro di me, non contro gli altri. succhio il sangue dei miei
parenti di sangue.
perché ormai ho solo parenti di sangue,
ho perso il mio equilibrio. sono quasi un uomo,
non sono un maschio, ho quattro testicoli;
due testicoli al posto dei polmoni, bagnati nel sangue
e due testicoli invisibili nel cervello.
lotto contro me stessa e contro gli altri
con grande precisione.
Vado a caccia di gonne quando il vento
si asciuga sulle pietre.
ho il sentimento del dovere piantato come un chiodo in fronte
e una scure foderata con la pelle di un animale giovane
ucciso lentamente.
sin dall’infanzia ho il sentimento della morte piantato
come un artiglio d’aquila nella mia tempia destra.
ho desiderato così tanto rimanere illibata che
ho torturato mia madre e me stessa.
mi sento colpevole per non essere stata dall’inizio
quasi un uomo,
avrei dovuto strapparmi i denti, tagliarmi col coltello
una croce sullo sterno,
avrei dovuto strapparmi gli occhi, tagliarmi le dita
delle mani e dei piedi,
non avrei dovuto piangere, né volere un amato, un figlio,
un amico o un nemico.
avrei dovuto vedere con gli occhi della mente non con la bocca.
la mia bocca è così piena di carne che ho dovuto
tagliarmi la radice della lingua e conficcarla in chiesa,
al buio, accanto all’altare.
il pavimento di legno della chiesa si è riempito di sangue rosso,
cade dalla bocca, dalla lingua, scivolo sul sangue non sulle assi.
voglio entrare nell’impero dei cieli
perché non ci sia più cielo.



Retrospettiva parte prima e parte seconda.

A cura di Giovanni Magliocco
(n. 7-8, luglio-agosto 2024, anno XIV)