Angela Marinescu: una retrospettiva (I). Da «Sânge albastru» a «Structura nopții» (1979)

Violenta e viscerale fino all’esasperazione, la poesia ultra-confessiva di Angela Marinescu, dopo più di mezzo secolo dal debutto, non cessa d’inquietarci, di sfidarci e d’interrogarci. Da un lato si tratta di una poesia ancorata agli aspetti concreti dell’esistenza: al “sangue” – che riscalda e nutre, ma che si fa anche segno di morte e ferita – alla “densità nera della materia” colta sempre nelle sue forme più spoglie e brutali. Materia aggressiva che assedia, limita e opprime il Sé, cerchio chiuso e oscuro dal quale l’evasione sembra impossibile. Dall’altro lato una poesia più astratta, che rivela nella sua fredda e ripetitiva essenzialità, nella sua concettuale cerebralità, un retroterra filosofico (di matrice nichilista) e un evidente sostrato metafisico, anche se in Angela Marinescu la stessa metafisica è, paradossalmente, di matrice istintuale. Sangue e viscere, cervello e materia pesante e densa (metallo o ferro), sono le ossessioni ricorrenti che si riverberano nei versi, coordinate simboliche entro cui si colloca l’esperienza poetica, psichica ed esistenziale dell’autrice. La poesia di Marinescu contiene in forma embrionale, sin dai suoi esordi, alcune delle successive tendenze della poesia romena contemporanea, svelandosi a noi, proprio per queste ragioni, come la poesia più rilevante prodotta negli ultimi cinquant’anni in Romania. Questa retrospettiva vuole presentare per la prima volta al lettore italiano il percorso di una voce poetica fondamentale per la nostra contemporaneità. La prima parte della retrospettiva si focalizzerà sulle raccolte pubblicate tra il 1969 e il 1979: Sangue blu (Sînge albastru, 1969), Cera (Ceară 1970, pubblicata con lo pseudonimo Basaraba Matei), Poesie (Poezii, 1974), Poesie bianche (Poeme albe, 1978), La struttura della notte (Structura nopții, 1979).

Giovanni Magliocco


La poesia di Angela Marinescu nasce dal vissuto nudo, dai fantasmi e dai fervori dell’io, ma anche dal lucido impegno nella costruzione e nella decostruzione della visione, in una scrittura radicalizzata, che rende variegata, col rigore geometrico, l’architettura intransigente e fluttuante della sofferenza. C’è qui una voluttà degli opposti che si biforcano, ma anche una reinvenzione di sé, tramite la legittimazione della metafisica come incontro tra intelletto e sensorialità, la poetessa osserva difatti che «solo in presenza dell’istinto è possibile il divenire metafisico […] E senza la metafisica la poesia resta solo letteratura». Solitudine, malattia, visceralità, ombra, cenere, morte, nudità, negatività: questi sono i termini di riferimento ricorrenti della poesia di Angela Marinescu, una creazione dall’orizzonte immaginario difficile da decifrare con un’unica chiave di lettura. […] Sincerità, rifiuto dell’ostentazione, sperimentazione dell’intangibile o esplorazione premeditata della sofferenza inespugnabile rappresentano i grandi topos di questa creazione. Voce importante della poesia neoespressionista contemporanea, Angela Marinescu essenzializza la sua sofferenza in testi taglienti, testi che ripudiano ogni seduzione, ogni stasi illusoria. Angela Marinescu espone nelle sue poesie, in modo diretto, senza ornamenti e indulgenze stilistiche, la propria intimità, le sue esperienze liminali, rifiutando la narcosi estetizzante o l’espiazione attraverso l’autoflagellazione, a beneficio della verità ultima ed essenziale dell’essere.

Iulian Boldea

 

La poetica di Angela Marinescu è una forma radicale della patologia dell’autenticità e della testimonianza come (auto)denuncia e vituperazione, una confessione proiettata (senza dubbio, non solo annotata, ma una confessione che ha un progetto e un’architettura) e costruita volutamente al limite della più impietosa ed integrale esposizione di sé, portata non solo fino al rischio dell’assenza di distinzione tra biografia e testo, ma fino all’indecenza drammatica della «sincerità» (la «sincerità» in poesia è, sicuramente, qualcosa di strettamente costruito, è una convenzione sia di retorica che di pathos che vuole bilanciare l’autenticità direttamente nel dolore della testimonianza […]; è un effetto, non una premessa). […] C’è una fiamma romantica nell’assolutismo e negli assolutismi di Angela, una fede violenta nella natura sacrificale (e integralmente sacrificale) della poesia. Ciò non è evidente solo nelle poesie, ma viene assunto come opzione essenziale anche nelle riflessioni su di sé o sulla sua stessa poesia.

Al. Cistelecan

 

Formulata in diversi interventi teorici come un’esperienza «sacrificale», la poetica di Angela Marinescu proietta la violenza interna (la forza primitiva degli istinti) nella violenza del linguaggio attraverso il quale viene sacrificata la materia psichica nel quadro di un rituale di liberazione. L’incisività e la precisione (rituale) diventano strumenti della conversione estetica della violenza e della morte, dell’esorcismo realizzato nel senso di un agone tragico; la poesia è concepita come una violenza attenuata, un muro di difesa contro la violenza brutale dell’oscurità dell’inconscio, una specie di «blindatura finale» contro la realtà istintuale infernale. Ricorrenti fino all’ossessione nel suo immaginario poetico, «la notte», «l’ombra» e «il sangue» sono le tracce del continuo sacrificio di sé, della liberazione della psiche dalle maschere, attraverso la parola. Operatori di un sacrificio astratto, le parole liberano la psiche di tutta la sua carica conflittuale, Angela Marinescu sviluppa, allora, una visione quasi-religiosa dell’atto poetico tramite la fede nella forza che la poesia ha di captare ed esorcizzare la «struttura della notte interiore».

Ilona Duță


Da Sangue blu (1969)

Metallico

Completamente attratto dalla terra
Quest’animale pesante, solo sangue.
Sento il luogo antico ed angusto
Da dove è evaso.

E a volte, nel sonno,
Sfrenato, lo sogno,
Comprimermi, metallico,
Occhi e fronte,
La gloria, il più solo
E il più passeggero,
Tra gli animali.



Terra, terra…

Sono incollata a questa terra
E devo sentirne sempre il fetore.
Che sia forse
Maledetta?

Vorrei liberarmi una mano
Per farmi il segno della croce.
La mia maledizione non è forse
Un gioiello steso su un panno di velluto?

E questa sabbia
Su cui giaccio felice
Che sia forse il collo eternamente pieno della clessidra
O solo un mito?

E quel fetore
Che mi fa venire voglia di morire,
È un corpo vulnerabile,
O solo una nuvola?

Ma io cado in ginocchio
E prego.



Sonno

In piani molli, antichi sprofonda
Il mio scheletro un po’ fragile.
Brillando in modo strano, solo il cervello sente ancora
Come macera se stesso, un fuoco ambiguo e passeggero

Noi siamo lunghe piante immobili,
Fiorite in sottili campane di cristallo,
In cui l’altero accoppiamento ricorda ancora
Di quanto è mobile, di quanto è onda

Oh, vorrei precipitare
Nel sonno pesante di un volto amato,
Cieco di dolore e lago di sangue
Stendermi in esso, demente e pallido.

Non essere più corpo,
Che la mia gola più non palpiti,
Ma libero d’ora in poi,
Nella mia stessa essenza divina
Formarmi.



Le piante sono più vive di me

Le piante sono più vive di me,
Il loro profumo è come un seno di madre rigonfio
Il loro fusto è una parola circondata dal sangue
Il loro limite è la cresta sessuale del gallo che piange.

Il petalo è però un tormento
Sottomesso al suo potere
Sento come la luna fredda ferirà lentamente
Il mio ventre morbido e infantile

E la rugiada se la stringi nel pugno
Gocciolerà sanguinante
Persino la mia serena e imperturbabile sorella
È molto più viva, molto più viva

Il petalo è però un tormento
Sottomesso al suo potere per troppo tempo
Sento come mi raffreddo lentamente
Estranea alla terra e alla tristezza.



Da Cera (1970)

Il sesso

Con la mano sottile
Mi tocco
Il sesso
Rabbrividendo.
Se solo potessi morire
Nel suo centro
Col corpo sollevato
Circondato dal vuoto
Come
Alte figure geometriche.
Che i miei occhi sentano solo
Neonati bianchi che scivolano nell’inferno.
Che il mio orecchio si gonfi di spazio
Come un angelo che scende
E, morta,
Che io baci il mio teschio nudo,
Così come, da viva,
Baciavo tutto ciò che era pieno.



La ferita

La ferita,
Non è carne e sangue,
Perché è un corpo senza corpo,
Un urlo senza bocca.

Su bordi levigati di terra
Ci stendevamo,
Come due linee pure.
Pietre immense si lasciavano rosicchiare da vermi oscuri,
Al di sopra, il cielo crollava
Nell’unico punto che riempivamo,
Come l’acqua dell’orcio nella bocca dell’assetato.

La ferita
Non è carne e sangue,
Perché è un corpo senza corpo,
Un urlo senza bocca.



Inno metallico

In pallide sere
Staranno in fila
Su tavoli metallici crani,
Tra i quali regnerà il mio,
Esangue e solitario.
Mio amato
Corpo simmetrico
Che mi chiami piano,
Impara, adesso, da me,
L’amore di una malata
In un ospedale
Chiuso ermeticamente.



Angelo selvaggio

Il mio volto insanguinato.
Lo spazio scorre fuori.
Un angelo
Selvaggio spezza i rami
E scuote il baratro.
La mia morte cambia la struttura del mondo.



Da Poesie (1974)

Il vagabondo

Il vagabondo segue sempre nel lungo viaggio coloro
Che sono spinti in eterno verso l’orizzonte. Paludi mute periscono prosciugando
I suoi stracci e altre paludi una dopo l’altra appaiono,
Mentre la vita mugghia sulle paludi.

Il frutto fragile fiorisce nel suo petto crudele, quasi vivo,
Come in tranquille nascite. Nido di fiamme bianche, sorgente,
Fango che nutre e terra rigonfia di sangue, figlio perduto
Cieco e astuto come la morte.



Da Poesie bianche (1978)

Come un soldato sul campo di battaglia

Ecco la libertà: la sanità del corpo e della mente,
Amici alati oppure no, più buoni o più cattivi,
Più fedeli o proprio impossibili da trafiggere con l’anima,
Comunque, amici,
Una certa discrezione delle azioni,
Uno slancio e un’onestà di ferro nelle discussioni,
Indulgenza con gli avversari,
Intransigenza, fino al sangue, con la sorella, il fratello, i genitori
O con i tuoi figli preziosi!
Un letto, un tavolo o il desiderio di vivere e morire
Come un soldato sul campo di battaglia.



Le parole della fiaba

Ci sono io, qui, mostro profondo e felice,
In mezzo alla cenere eterna.
Inghiotto con avidità la mia vita
Piccola e miserabile
Ed ecco, non resta che la Cenere, la polvere sacra.
Le mie parole, piccole, rosse
E sofferenti, dalla mia cenere
Nascono.
Esse mi rodono – un trapano trivella il legno putrefatto.
Il mio urlo – il sentimento più preciso.
La vita rende vana l’argilla inanimata.
Nascono da me,
Dalla mia cenere avara e cinerea,
Piccoli topi.
Volano via le mie parole da questa cenere.
Farfalle nere.



Vecchia provincia

Pioggia torrenziale. Le ossa ingiallite, putride,
E il legno che ci aspetta. Quel segno riflesso in migliaia di croci,
Una pietra su un’altra pietra,
Una coppia di pietra.
Un desiderio che non è più desiderio.
Una passione che si lascia dietro chiasso e lamenti.
La finestra rotta e l’edera spezzata proprio di fronte alla finestra rotta.
Mucchi di purezza macchiata, polvere da gettare sulle strade
Battute, dove la tela del ragno, cinerea e oscura
Si inclina sempre da un lato (un bambino tenero, nel vento della sera,
Tocca la tela con la palpebra)
Di nuovo, la melma, l’immondizia nuda, i genitori risanati,
I fratelli irreali, l’umidità, la volontà indebolita in così tanta sottomissione
Cieca, incomprensibile. La tua vita – un piccolo topo, rosa sporco.
I vicini, i colleghi, la maldicenza e il coraggio di dirti che vivi
Alla periferia della società.
Ma la sera è profonda e la pioggia viola, il crepuscolo viola,
Il cielo viola, la malattia e il terrore viola, il mare viola…
E la strada uguale della pioggia e del falco morto.



Crepuscolo

Campane,
Fosse profonde piene d’oro, in volo.
Pioppi immensi schiacciano le ombre –
Vermi perfetti –
Antichi cortei,
Che portano nelle mani fiaccole accese,
Si perdono in catacombe illuminate a giorno.
Il mondo, una cifra divina.



Veglia dopo la guerra

Tutti i tuoi soldati di pezza
Stanno intorno a me e sorvegliano la mia vita –
Scudo perverso, ramaglia piena d’ombra!
Mi basta sentire solo il fruscio dei tuoi passi
Ardenti
Perché io tremi sopra ogni cosa.
Lanciami solo uno sguardo –
Mi colpisce dritto nel petto
Come una scintilla di ferro.
E vago abbandonata, selvaggia e pallida
Sulle tue tracce blindate.



Da La struttura della notte (1979)

***


Alberi potati. Il mio pensiero
Si lancia su di loro, avvinghiandoli.
La strada monotona e arida
Del malato.

Paura della morte. Mi chiudo in me stessa.
Il pensiero e l’amore si stringono stretti.
Intensità della paura e della conoscenza di sé.
Nel parco, brillano gli occhi del fratello pallido.

Il coltello dell’assassino resta scoperto.
In nessun luogo luce. Solo la densità nera
Della materia, che riflette la freddezza
Delle viscere compatte.

Vette della solitudine. Loro stesse
Malate di loro stesse. E la loro aureola
Sanguinante che esplode negli
Occhi neri.



***

Dispersione oscura. La cavità toracica,
Piena di erba ghiacciata, diviene tempio.
Nelle sere religiose, gli angeli lanciano
Uno sguardo sereno.

L’uomo che irrompe sulla disperazione
della donna. La donna sprizza da sé,
Il sangue.
Oggetti lilla che tremano, sospesi,
Nella notte di pietra.



***

Deserto senza oasi. In lontananza la carovana
Brilla come una stella precipitata nella sabbia.
Per il resto, il rantolo degli animali
E gli occhi fanatici degli uomini, mescolati tra loro

Parole mescolate tra loro.
La vita tende a prendere l’aspetto del ferro
Ferro mescolato con lo spirito.
Mani che colpiscono le fiamme delle sbarre.
Stelle che inghiottono il proprio sangue.
Negli occhi del malato brilla
La rugiada oscura.



***

Oppressa dal cerchio di fuoco che mi soffoca,
Diavoli rapidi salgono sulla circonferenza nera
E poco mi importa della loro incapacità di vedere
come l’angelo cammina, a suo agio, tra i neuroni.

Guardano con occhi tristi e grandi solo
La carne sanguinante, solo lo stelo opaco
Solo l’anima che impaurita vola davanti a loro.

Non vedono quanto siano crudeli e uguali all’angelo,
Davanti alla morte.




La volta

Frescura è la tua vicinanza.
La volta che guardo con gli occhi della mente, mi spaventa.
La quiete si agita battendo le sue ali fredde.
Vedo il mio sangue rispecchiarsi nell’immenso
Giardino.
Quanto ho creduto nella ragione e nel
Potere della vita!
La dea della sofferenza, la luna.
Al di là di me, dello spazio lunare,
Lo spirito vaga su una riva di ghiaccio.



Provocazione

Signore, con te ho compiuto quella cosa.
Ho rovesciato quanto è naturale. Circondata da pareti nude,
Con l’energia della notte
Ho piantato il mio volto pallido nel sangue della carne.
Nessuno può toccare col pensiero
La fredda masturbazione della materia con se stessa.
Né gracchia più il corvo sbrindellato,
Né vola più l’aquila.



Notte di maggio

La luce delle rose stilla la propria carne.
Nei dintorni dei giardini abbandonati si raccoglie la rugiada viola.
Grandi fiamme colpiscono i rami tremanti,
La loro relatività d’argento incrinato, perduto,
Sotto la volta fredda.
Dio, se esisti, dimmi di non essere.
In maschere di metallo sconvolte dai tempi
Coloro che vengono dopo di noi insinuano la loro leggera delusione.
Col ferro rosso tocchi
La mia notte tremante
E senza fine,
che con Te sta in agguato.


A cura di Giovanni Magliocco
(n. 5, maggio 2024, anno XIV)