|
|
Nuovi racconti di Cristian Fulaș, riconferma di uno scrittore di talento
Dopo i primi due romanzi (quello del debutto, Fîsii de rușine, Vinea-Gestalt Books, 2015; Polirom 2018 [2] – presentato su «Orizzonti culturali» di dicembre 2015 – e După plîns, Casa de Editură Max Blecher & Gestalt Books, 2016, affiancati da Jurnal de debutant, Editura Tracus Arte, 2016), Cristian Fulaș (1973) si cimenta ora con la prosa breve, dando alle stampe cinque racconti confluiti nel volume Cei frumoși și cei buni (Polirom, 2017, pp. 181). Fedele alla sua cifra stilistica, di cui la critica aveva colto fin da subito il peculiare spessore sia come scrittura, sia come pregnanza tematica, in questo nuovo traguardo editoriale, Cristian Fulaș, in questo suo nuovo ventaglio di situazioni e personaggi, non propone scenari consolatori, i suoi protagonisti non sono, di certo, metaforicamente né belli né buoni, per richiamarci al titolo del volume, bensì i testimoni lucidi e disincantati di un mondo che, filtrato attraverso la sua ottica, ci appare così com’è, nella sua durezza, nella sua inesorabilità, nella sua immutabilità. Qui c’è il presente crudo e duro, e il passato o il futuro che ne fanno da preludio o epilogo confermano che il loro apporto a esso è relativo perché tutto si coagula attorno alla nostra memoria, che è il fulcro, l’ancora della nostra esistenza. Queste sono, a ben vedere, le idee-guida che tengono insieme queste prose, esposte, per così, proprio in uno dei cinque racconti, l’ultimo, În celălalt loc, cu o spaimă perpetuă, costruito attorno al dialogo serrato, in forma «epistolare», tra la voce narrante e il suo interlocutore. È il racconto forse meno racconto di tutti, ma l’autore sa sorprenderci perché lo interseca con flash – di nuovo la memoria che irrompe nel presente – di episodi di vita vissuta, calati e «piegati» all’interno del testo come esempi paradigmatici di uno schema della propria visione sulla scrittura e del senso della letteratura. Le due gemme, a nostro avviso, della raccolta sono Liniștea «Il silenzio», proposto già in anteprima su «Orizzonti culturali» di marzo 2017, e Giovanni, qui proposto in traduzione per la prima volta. Il primo è lo straziante dialogo interiore di una donna immobilizzata su un letto d’ospedale, semiparalizzata in seguito a una caduta. Non crediamo si sia letto ultimamente un testo così teso e dirompente uscito dalla penna di un autore romeno contemporaneo; il secondo è la storia dai tratti quasi picareschi di un immigrato romeno, Ionel (ma che tutti, per comodità, chiamano Giovanni), di origini contadine, giunto clandestino in Italia, il quale, dopo un duro periodo di esistenza ai limiti, svolgendo lavori precari e dormendo all’aperto, per convenienza accetta alla fine di essere arruolato in una banda mafiosa di Roma: è il cortocircuito esistenziale di un uomo che, pur orgoglioso delle sue umili origini, le baratta sadicamente in una nemesi antropologica, quasi una catarsi al contrario, di impattante pregnanza. Un «ritratto» dell’immigrato clandestino in Italia troppo verosimile e coinvolgente per non essere, in parte, lo specchio della realtà odierna.
Giovanni
Aveva faticato non poco a trovare un alimentari aperto, altrimenti avrebbe dovuto fermarsi a mangiare in un ristorante ed era costoso; in questo modo risparmiò un po’ di soldi e si sentiva da dio seduto lì, sulla panchina, all’ombra, con il salame, il formaggio, il pane, le olive e una bibita, non aveva più intenzione di sperperare soldi al ristorante. Era tornato in Romania per le vacanze, in un autolavaggio aveva speso una cifra che gli sarebbe bastata per comprarsi le sigarette di un mese, così non andava bene, era rimasto quasi a secco dei tremila euro che aveva, e lo aspettava ancora un sacco di strada da fare, si era proposto di non fare più soste fino a Roma per mangiare e comunque non sapeva che cosa avrebbe trovato a casa, dove parenti e amici lo avrebbero riempito di brutte notizie, guastandogli il sangue, dove avrebbe scialacquato soldi in feste e cattivi affari, offerto da bere alla gente per festeggiare quello che aveva guadagnato lavorando all’estero, e sarebbe ritornato a casa al verde, con le bollette da pagare e senza prospettive di arrivare a fine mese; come se non bastasse, aveva anche ammaccato la macchina, guidando ubriaco in gare notturne – si era fatto il macchinone dopo essersi fatto un mazzo così per cinque anni ed era andato a pavoneggiarsi dai Grădinaru, per far vedere loro di che cosa era capace, aveva centrato in pieno l’estremità del ponte – e i soldi da dove li avrebbe presi per riverniciare l’auto? A uno avevano chiesto mille euro per un graffietto alla fiancata, e lui dove andava a prendere i soldi visto che aveva cominciato a costruirsi la casa, cinque, seimila euro al mese, no, non poteva proprio sganciare tutti quei soldi. Se ne stava appoggiato con i gomiti sulla capotta, stanco e con le borse sotto gli occhi, e guardava la strada, la nazionale «Dealul Negru», e puntualmente si chiedeva perché la gente la chiamasse così.
Giovanni (Ionel sulla carta d’identità) era un tipo robusto, di circa trent’anni, crapa pelata e ceffo da cattivo, da delinquente che ne aveva passate di tutte i colori, dalle mani grosse e callose e dal torace largo così, come quello di un toro. Era partito per l’Italia anni fa, clandestino, era entrato a Trieste passando per la Slovenia, per un periodo aveva dormito nei boschi, coprendosi con un telo di plastica, poi si era diretto verso Roma – avevo sentito dire che lì era come il Paradiso in terra. Per un po’ di tempo aveva cercato qualche lavoretto di città in città: aveva trasportato sacchi in spalla a Venezia, poi con i soldi guadagnati era ripartito per la capitale. A Firenze aveva lavorato in una cava di pietra, cercando come un disperato un posto dove stare, aveva dormito lungo la strada di un’autostazione dismessa; il telo di plastica era diventato il suo tetto, e malediceva il giorno in cui aveva lasciato il suo villaggio – l’idea era di diventare un uomo – per finire in mezzo a quei bastardi degli italiani. Vita da cane con soldi in tasca, questa era la sua vita, perché nessun italiano gli avrebbe affittato una stanzetta senza i documenti in regola. Una sera, due marocchini, in compagnia dei quali aveva bevuto al bar locale, tentarono di rubargli i soldi, riempendolo di botte e minacciandolo che se non avesse dato loro tutto quello che aveva, lo avrebbero sgozzato. Li squadrò, entrambi erano secchi come due acciughe, i denti guasti e certe manine da signorina, diede una spinta a uno dicendogli duro: Ahò, smamma, sennò poi mi tocca averti sulla coscienza; quelli allora tirarono fuori i coltelli, guardandolo con occhi torvi da bestie del deserto, e cercarono di accoltellarlo, lui si scagliò contro di loro, buttandoli a terra e prendendoli a calci, tutta la furia, accumulata lavorando giorno e notte in cava, la scaricò su di loro. Alla fine, i due sembravano due masse informi buttate sul ciglio della strada. Li guardò con pietà, se ne andò dopo essersi lavato nel fiume lì vicino, poi scappò via di nuovo. Lontano, il più lontano possibile da Firenze e dai carabinieri che potevano mettersi sulle sue tracce da un momento all’altro. Dormì di nuovo nei boschi come un animale, aveva paura di essere acciuffato, finendo in prigione, sarebbe stato il colmo dopo aver dormito sotto le stelle per quasi un anno. Rubò nelle stazioni dei treni e nelle autostazioni quel poco per poter comprarsi qualcosa da mangiare la sera, camminò per giorni sotto piogge torrenziali, ma alla fine arrivò a Roma. Grande città, eh, così aveva sentito dire, capitale dei cattolici di tutto il mondo – questo gli avevo detto il prete del suo villaggio. Agli inizi bazzicava la stazione Termini, lì vide che molti ci dormivano di notte e nessuno veniva a fare domande: perché dormivano in strada, perché bevevano lì e altre menate. Erano tutti delinquenti, tossici, poveri alcolizzati come lui, falliti che si trovavano ai margini di un mondo troppo bello per loro; vestiti di stracci, sporchi, dallo sguardo assente e dalle voci arrocchite, in perfetto contrasto con i turisti in ghingheri che scendevano dai treni ad alta velocità per raggiungere gli hotel di lusso della città. Il nostro si adattò alla perfezione all’atmosfera del posto, nei paraggi della stazione, era perfino riuscito a convincere un portiere d’hotel a lasciarlo dormire in una baracca del parcheggio, in cambio lui avrebbe fatto da guardiano notturno. Il portiere gli portava ogni tanto i resti del cibo avanzato dai clienti, perciò, un poco alla volta, era diventato una sorta di cane da guardia dell’hotel. Nessuno gli sfuggiva di notte, raggranellava anche qualche spicciolo dai clienti, cominciava insomma a sentirsi qualcuno in terra straniera. Iniziò a mettere da parte tutti i soldi delle mance che gli facevano, aveva anche lui un sogno: ottenere un bel giorno il permesso di soggiorno e un lavoro e prendersi una casa in affitto. E per raggiungere questo scopo, nel tempo libero sgraffignava qualcosa. O dalle borsette e dalle tasche dei turisti, o dalle persone sedute sulle panchine a Termini, cellulari e macchine fotografiche e tablet, o dalle auto lasciate aperte nel parcheggio lungo la strada laterale della stazione, c’era sempre qualcuno che andava di fretta e che piantava lì la macchina incustodita, andandosene, non capiva proprio che cosa avesse la gente per la testa.
Col tempo, Giovanni (così lo chiamavano tutti, Ionel era troppo complicato da pronunciare) diventò una persona temuta nella zona attorno a Termini. Teneva sotto di sé anche un paio di poveracci che rubassero per lui, ragazzi scappati di casa che lui proteggeva e loro gli davano in cambio una parte del bottino del giorno. Il gruzzolo cominciò a farsi consistente, con duecento euro si comprò una Fiat, aveva così anche lui la sua auto, era diventato il capetto del quartiere in cui era lui a fare giustizia. Gli accattoni ora avevano paura di lui, Giovanni aveva la sua ghenga e nessuno si metteva contro una decina di tizi cui prudevano le mani, non era proprio il caso, quelli ti facevano a fettine senza tante cerimonie, non scherzavano affatto. Portava abiti puliti, non sembrava più il morto di fame arrivato a Termini appena un anno prima. Dietro una piccola somma, il portiere dell’hotel gli aveva procurato i documenti per il permesso di soggiorno e non aveva più paura di essere fermato per strada e portato via per accertamenti come era già accaduto. Al contrario, ora aveva un contratto regolare con l’hotel che l’aveva assunto come addetto alla sicurezza. Giovanni si era sistemato, non c’era nessuno come lui al mondo, girava mostrando i muscoli e non c’era giorno in cui non mettesse da parte un altro po’ di soldi, per diventare ancora più uomo. Sorvegliava l’hotel come un mastino, aveva pure preso a legnate un paio di italiani che avevano dei conti in sospeso con il proprietario. Ciò fece alzare notevolmente le sue quotazioni, la mattina si beveva il suo caffettino nella hall dell’hotel e, in pratica, era diventato l’uomo di fiducia di tutti. Trasportava le valigie dei turisti al posto del portiere, aiutava a portare fuori l’immondizia, insomma, era bravo in tutto. Col tempo aveva imparato di nuovo a sorridere e si era messo insieme con una ragazza albanese, un’addetta delle pulizie, uno schianto di bionda e con certi fianchi, giusta su misura per lui. Entrambi erano nati in campagna, si accordarono fin dal principio a non prestare soldi a nessuno né di fare passi indietro, il loro scopo era arrivare in alto. Era una ragazza tranquilla, non aveva la lingua lunga e non sbavava, come facevano certe altre, dietro ai matusa italiani danarosi, dentro di sé lui era ancora un ragazzo di campagna che sapeva amare subito di quell’amore disperato delle persone più mature. Quanto agli introiti, si consideravano entrambi già quasi dei benestanti: non passava mese senza che avessero messo insieme cinquemila euro, una somma che sarebbe bastata loro per un buon affitto e per un tenore di vita agiato se un giorno avessero centellinato i soldi. E invece no: nelle infuocate notti d’amore, facevano grandi progetti, tipo comprare un terreno vicino a Roma e costruirci la loro casetta. Comprarla già fatta era escluso, come potevano dare soldi agli altri e lasciarseli fregare così, sotto il naso? Non si fa così, gli diceva Abena (cioè nata di martedì, come gli aveva spiegato un giorno), non si danno via i soldi guadagnati col proprio sudore ad altri, meglio lavorare e tenerseli per sé, non ci si può più fidare di nessuno a questo mondo, è così, se lavoriamo non moriamo, e di morti in povertà ne ho già visti abbastanza. Giovanni la ascoltava rapito, era come se quelle parole uscissero dalla sua bocca. E la amava ancora di più, era una donna sveglia, e proprio di una donna come lei aveva bisogno lui, non di quelle svampite che ti prosciugavano il portafoglio rovinandoti gli anni della gioventù, come aveva visto accadere ad altri. Ne aveva conosciuti tanti che si erano messi in casa il demonio, accecati da un sentimento mai provato prima, e poi lasciati per strada proprio per via di quel sentimento. A lui però che potesse accadere una cosa del genere era escluso, Giovanni era uno sveglio, lui non si faceva infinocchiare. Aveva avuto storie con ragazze del villaggio, aveva avuto un flirt anche con una di città durato un’estate, sapeva come andavano le cose nel mondo delle donne, e si era preso anche lui la sua dose di sofferenza quando la tipa se n’era andata via dal villaggio senza neppure salutarlo e lui ci era rimasto malissimo: stava lì imbambolato e col cuore a pezzi a guardare al di là dello steccato della casa dei nonni di lei, incapace di capire che diamine le fosse frullato in testa. Poi era stata la volta di Lenuța, quella stronza dei vicini che era tornata a casa dopo aver finito la scuola per infermiere e avevano fatto l’amore, poi era diventata una signora importante alla farmacia dopo che suo padre aveva donato al dottore un carretto carico di legna e un maiale, e da allora lei gli aveva tolto il saluto, tanto che c’era stato un periodo in cui lui aveva pensato seriamente di farla finita e se ne stava tutto il giorno ubriaco spolpo in osteria, sciogliendosi di nostalgia e covando pensieri di vendetta nei confronti di Nae, figlio di quell’alcolizzato, che aveva pure l’auto e che aveva montato la testa alla ragazza. Insomma, ora che aveva anche lui una donna con le palle, che non correva dietro a tutti quelli là pieni di grana, intendeva volerle bene come alla cosa più preziosa che aveva.
E così è stato finché un giorno, rincasando a piedi dalla stazione come chi aveva fatto il suo dovere, la vide all’angolo della strada mentre parlava con uno seduto dentro un’auto di quelle furbe, nera e costosa, una che avrebbe voluto possedere anche lui. Indietreggiò di qualche passo, nascondendosi dietro un pino, e guardava la scena con il cuore a pezzi. Non ridevano, parlavano molto seri, e soprattutto non si toccavano. Lei era in piedi di fianco alla portiera, mentre lui le diceva qualcosa di importante, a quanto pareva, perché aveva cambiato faccia. Infilò una mano nella tasca doppia dei pantaloni, sfiorò il coltello, come per assicurarsi che era lì. Si è spostato di lato, accanto a una vetrina di un negozio, sembrava che il tizio non avesse ottenuto quel che voleva, poi si è avvicinato lentamente all’auto. Abena si voltò, lo vide, come anche il tizio dell’auto. Prima che lui la raggiungesse, l’auto era partita sgommando e lei gli stava andando incontro. Stava per darle uno schiaffo, ma la afferrò per il collo stringendo un poco. Chi era quello? le chiese con la voce strozzata in gola. Ti racconterò tutto in hotel, gli rispose lei con la faccia molto seria, non l’aveva mai vista così prima di allora. Dài, vieni, non stare lì impalato. La seguì dentro l’hotel, già non si sentiva più a suo agio. Lei si era fatta tutta rossa in faccia, passarono a tutta velocità davanti alla reception ed entrarono entrambi in camera sua. La donna si sedette sull’unica sedia della stanza, lui sul bordo del letto, poi la guardò dritto negli occhi, domandandogli in modo secco: Che fai alla stazione ogni giorno? Niente, ogni tanto mi faccio una birra, mi guardo intorno, mi tengo occupato. Bugiardo. Ti sto dicendo la verità, giuro, che cazzo vuoi che faccia alla stazione? Quel tipo che è appena andato via fa parte della famiglia che controlla la stazione. Mi ha fermato per strada, venivo dal negozio, sapeva benissimo chi ero. Mi ha detto che sanno che cosa fai e ti propongono due soluzioni: o la smetti e loro chiudono un occhio, o vai a parlargli. Oggi stesso. Ha detto che ci devi riflettere bene, che non devi fare cazzate, aspetta una risposta entro stasera. Abena si frugò nelle tasche, estrasse un foglietto. Ecco qua il numero di telefono, disse, mandagli un messaggio e loro verranno a parlarti, se vuoi. Che cazzo fai tu alla stazione se questi qua sono venuti a cercarti? Dimmelo, lo supplicò scoppiando a piangere. Vuoi finirla male, vuoi che vengano a raccoglierti con la paletta sui binari, che cos’hai intenzione di fare? Giovanni, scuro in volto come la pece, non disse nulla. Le prese le mani, la baciò sulla fronte, si alzò e uscì dalla camera. Lei rimase con la testa fra le mani piangendo a singhiozzi, poi si gettò sul letto, continuando a piangere più sommessamente. Da tempo si era lasciata alle spalle i pianti, era una donna che ne aveva già passate tante alla sua età, grandi sofferenze, vissute in gioventù, che le avevano scavato dentro profonde ferite, che l’avevano spinta a lasciare il suo Paese per cercare per il mondo una sorte migliore. Di famiglia povera, fin da piccola aveva fatto ogni tipo di lavoro, cercando di aiutare i fratellini come meglio poteva. Poi, a sedici anni, l’incontro innocente con un ragazzo si era trasformato in uno stupro in piena regola a cui erano stati invitati a partecipare anche degli amici di lui. Si era sentita profanata e, per far perdere le sue tracce, se n’era andata via di casa per cercare in città un’altra vita e per nascondere la vergogna. Non era mai andata a scuola, non ne aveva avuto la possibilità, per tutta la sua vita era stata una umile lavoratrice e basta, e il suo unico sogno era quello di farsi una famiglia e di avere dei figli, null’altro. Ma in Albania la vita era dura e, insieme ad altre compagne di lavoro, era partita per l’Occidente per cercare un’esistenza diversa e migliore. Agli inizi aveva lavorato in agricoltura o dove capitava, aveva vissuto in una baracca in mezzo ai campi con le sue amiche, mettendo da parte i risparmi; poi aveva deciso di partire e di cercare fortuna a Roma. Con l’aiuto di altri albanesi, aveva trovato lavoro presso varie famiglie come donna di servizio e a un certo punto la fortuna le aveva sorriso perché il proprietario dell’hotel, in casa del quale faceva la domestica, le aveva offerto un lavoro stabile. Da quel momento fino a quando aveva conosciuto il suo Giovanni, la sua vita non le aveva apportato nulla di nuovo, e ora doveva affrontare una disgrazia che non poteva minimamente immaginare.
Uscì dall’hotel, subito voleva salire in auto, ci ripensò e si avviò a piedi infilandosi per stradine secondarie, diretto verso la stazione. A Santa Maria degli Angeli e dei Martiri svoltò su Via Nazionale, doveva camminare e pensare. Guardava le vetrine dei negozi, e le persone in strada e aveva come la sensazione che anche loro lo guardassero, specie quelle vestite più eleganti. Non si sentiva uguale a loro, mai si era sentito uguale a uno di città, ma covava la speranza che un giorno anche a lui sarebbe andata meglio. In Piazza Venezia cedette, entrò in un bar e ordinò un cognac doppio e un caffè ristretto, nero, liscio. Guardava la gente intorno, in gran parte turisti vestiti bene, poi sollevò lo sguardo verso l’Altare della Patria e rimase così, a contemplarlo. A sinistra scoprì la Colonna di Traiano, non pensava di abitarci così vicino. Ma non riusciva a concentrarsi, era tutto un accavallarsi di dubbi. E se continuava per la sua strada affrontando ogni rischio? E se li mandava tutti affanculo con le loro minacce da due soldi, e se pensava lui a cosa fare dopo? Di sicuro volevano il pizzo, chissà quanti soldi avrebbe dovuto sborsare a quei bastardi. E se provava a farli fuori, mettendo insieme la sua ghenga? Qualcosa gli diceva che non era la migliore delle idee mettersi contro quelli, non era affatto saggio quel ragionamento. Pensando solo alle storie che aveva sentito, gli venivano i brividi. Si alzò, pagò, lasciando perfino la mancia, chiamò Abena per tranquillizzarla e poi si diresse con calma verso il Vaticano o il Mausoleo, non sapeva esattamente verso dove lo conducesse quella strada. Ma si fermò sulla riva del Tevere, trovò una panchina e si sedette; poi estrasse il cellulare di tasca e mandò il messaggio richiesto. Aveva troppa paura, non aveva il coraggio di immischiarsi in una cosa del genere. Era un ragazzo di campagna spavaldo e dalla mano pesante, ma questa volta era chiaro che non aveva nessuna probabilità. Il cellulare vibrò per un attimo, sul display apparve un messaggio: Stasera alle 9 di fronte all’hotel. Dovrai salire nell’auto che si fermerà vicino a te. Il nodo che gli si era formato in gola era palpabile, che cazzo vuol dire? Aveva paura, aveva sentito parlare di persone sparite da un giorno all’altro, la gente ne parlava e probabilmente non erano favole. In che casino si era messo, ma una volta nella vita non gliene poteva andare bene almeno una? Si alzò e si incamminò verso casa, aveva bisogno di bere qualcosa. Arrivato alla stazione, chiamò uno dei suoi ragazzi dicendogli che dovevano tutti alzare i tacchi finché non glielo diceva lui di ritornare. Che nessuno doveva più mettere piede in stazione, che la cosa era seria sennò gli avrebbero fatto un culo così. Si scolò una birra, da solo, davanti alla stazione, rifletté, pregò, mentre gli passava davanti agli occhi tutta la sua vita. Una volta in hotel, tirò fuori dal frigo una bottiglia di vino, accese il televisore e aspettò. Erano solo le sei di sera, era presto, aveva ancora tempo. Due pensieri gli giravano in testa, una sola via d’uscita: salire in auto, in incognito, e scappare in Romania? E con lei che faceva? Di certo non avrebbe voluto venire ad abitare con lui al villaggio, in culo al mondo. Piantare tutto e accontentarsi dei soldi guadagnati all’hotel? Decisioni difficili da prendere.
Alle nove meno cinque, si mise una camicia pulita e stirata, prese il coraggio a quattro mani e uscì davanti all’hotel. Non fece in tempo ad accedersi una sigaretta che già alle sue spalle si erano accesi i fari di un’auto che subito gli si accostò. Aprì la portiera davanti, stava per salire, quando il conducente, un colosso di un quintale e mezzo, gli fece segno di accomodarsi dietro. Si sistemò sul sedile di destra, e d’istinto accarezzò il cuoio morbidissimo su cui era seduto, poi guardò davanti senza dire nulla. Arriviamo subito, gli disse il conducente, non c’è traffico a quest’ora. Prenditi qualcosa da bere, mettiti comodo. Ci vorrà poco più di un’ora. Giovanni guardava con attenzione, si versò un bicchiere di cognac di quello costoso – aveva proprio bisogno di qualcosa di forte – e cercò di capire in che direzione stavano andando. Lo chiese al tipo al volante. Alla villa, gli rispose. Altro non riuscì a scucirgli. Guidava con prudenza, rispettando diligentemente i limiti di velocità consentiti, cosa che aveva visto fare rare volte. L’automobile era perfettamente insonorizzata, scivolava sull’asfalto come fa una barca sull’acqua. A un certo punto si rese conto che avevano lasciato la città, non si vedeva più una luce attraverso i finestrini scuri. Dove cazzo lo stava portando quello? In qualche paesino, chi lo sa. L’automobile, svoltando in una curva secca, imboccò una stradina di campagna strettissima, affiancata da pini e cespugli. Si fermarono davanti a un portone che si aprì automaticamente e percorsero un vialetto che si addentrava in una specie di bosco. Davanti a loro, a circa cinquecento metri, si scorgeva qualche luce flebile. Giunti accanto a una casa, il conducente gli disse di scendere e di entrare da solo, lo stavano aspettando. Scese, la casa era a tre piani e sembrava più un condominio che una villa. Aveva già visto questo tipo di case, prive di balcone e di altri elementi decorativi fatta eccezione per le piccole finestre dalle immancabili inferriate a maglia stretta. Abbassò, spingendo, la grossa maniglia di una porta alta più di tre metri; era una porta in legno massiccio, a giudicare bene dall’aspetto. L’ampio atrio, grande quanto un campo da tennis, era immerso nella semioscurità, ma una voce dal tono amichevole lo invitò ad entrare nel soggiorno. Era una stanza enorme, di dieci per quindici metri quadrati circa, con il soffitto alto più o meno cinque metri e con tutte le pareti ricoperte da quadri. La luce era soffusa, non riusciva a intuire di che colore fossero gli enormi divani in cuoio sparsi nella stanza. In fondo sul lato che dava al giardino, lo osservava un tizio sui cinquant’anni, vestito in maniera impeccabile. Gli si avvicinò, gli strinse la mano invitandolo a sedersi su una delle poltrone. Gli versò un bicchiere di vino, poi gli si sedette di fronte fissandolo con attenzione e sorridendo in continuazione. Giovanni, seduto sul bordo della poltrona, si sentiva a disagio, non aveva neppure il coraggio di alzare lo sguardo. Quindi tu saresti Giovanni, il tipo della stazione che ha messo insieme la sua squadra e lavora senza di noi, gli disse il padrone di casa fra le volute di fumo. Bel coraggio, non c’è che dire. Devi essere un bravo ragazzo. Quelli cattivi non campano molto qui da noi. Lo guardava con sospetto, il tizio era piccoletto e lui non sapeva come risolvere la questione, avrebbe potuto schiacciarlo come un insetto, con una sola mano. Il padrone di casa continuò come se gli avesse letto nel pensiero: Certo, stai pensando che potresti farmi qualcosa, tu sei coraggioso e lo sappiamo tutti, ma io direi che dovresti darti una calmata. Di colpo Giovanni si bloccò, si sentiva come un arco teso e appoggiò il bicchiere sul tavolo. Si frugò nelle tasche, afferrò il pacchetto di sigarette, e senza tirarlo fuori, estrasse una sigaretta. Se la portò alla bocca, la inumidì con la lingua e infine l’accese. Non mi è neppure passata per la testa una cosa del genere, disse incespicando nelle parole. Sì che ci hai pensato, siamo uomini e tutti pensiamo allo stesso modo. Non ti preoccupare, non m’incanti. Giovanni guardava la notte dietro i vetri delle finestre e la notte guardava Giovanni dentro di lui, mozzandogli il respiro. Si guardò intorno smarrito, poi si sedette più comodo, si era rassegnato. Io mi chiamo Nicola, gli disse il tizio. Sono la mano destra del capo. Dimmi un po’, tu cos’è che sai fare? Lo guardò stupito, non si aspettava quella domanda. Lui era un ragazzo di campagna, non sapeva fare granché. Sapeva picchiare, guidare l’auto, trasportare in spalla quel che era necessario, e basta. Questo gli disse, la verità gli sembrava la strada migliore da battere. Un uomo versato in tutto, quindi, un tuttofare, un autista [1]. Abbiamo bisogno di uomini così. E tu, della tua vita che vuoi farne? L’uomo sorrideva, quindi cominciò a raccontargli dei suoi progetti: la casa vicino a Roma, il matrimonio, una vita migliore. Sogni da immigrato. Poi gli raccontò da dove veniva, che cosa aveva fatto, il faticoso cammino fino a Roma, come aveva cominciato l’affare alla stazione, tutto praticamente. L’uomo lo ascoltava, gli versò un altro bicchiere di vino, poi, come se niente fosse, gli disse: Scegliti la casa, mi occuperò io di fartela avere. E dopo questa conversazione, andremo insieme a scegliere anche l’auto che desideri. Lavorerai per noi, se anche tu lo vuoi. Lo guardò con sospetto, nulla sembrava meno vero delle parole che aveva appena sentito. Una casa? Un’auto? E tutto questo per che cosa? Ti pagheremo pure, non preoccuparti, tutti quelli che stanno con noi se la passano alla grande. Non prendere per buone tutte le fregnacce che senti in giro, siamo gente perbene e affidabile.
Continuarono a parlare del futuro di Giovanni, rimasero a chiacchierare come due vecchi amici fino al mattino. Poi il padrone di casa lo accompagnò in un’enorme rimessa dietro la casa, molto probabilmente le ex stalle, e gli fece scegliere un’auto. Giovanni non credeva ai suoi occhi, solo i pezzi grossi andavano in giro in bolidi come quelli. Ne scelse una più modesta, per non dare troppo nell’occhio, poi si mise al volante e tornò all’hotel. Abena lo stava aspettando, non aveva dormito per tutta la notte, ma si tranquillizzò. Nei suoi pensieri si vedeva già come donna realizzata, con una casa e un marito serio e ricco che prometteva un futuro roseo. E si vedeva già a passeggio con i figli, sorridente, in un paese vicino a Roma.
E un anno dopo, tutto ciò, tranne i figli, era diventato realtà: si erano scelti una casa non molto grande, l’avevano arredata grazie alla montagna di soldi messi da parte, lei faceva la pendolare da e per Roma, lui sbrigava varie faccende per conto dei suoi capi. L’affare della stazione l’aveva ceduto a un ragazzo più giovane, che gli fruttava una sommetta mensile. Giovanni si era sistemato, andava sempre in giro fresco e tirato, era ingrassato di circa cinque chilogrammi, e dove abitavano, batteva sempre il sole, quando non soffiava anche una piacevole brezza. Si alzavano la mattina e prendevano il loro caffè in riva al mare.
E un bel giorno, per amore del proprio Paese e còlto dalla boria di chi si è arricchito all’estero, il nostro eroe decise di costruirsi la villetta nel suo villaggio. Aveva vissuto tutta la vita con addosso lo stigma del bambino povero, con la frustrazione nel vedere che i giocattoli più belli li avevano sempre gli altri bambini e che i vestiti più fichi li avevano sempre gli altri compagni di scuola, e da adulto nel morire di invidia per le case e le auto che gli amici si compravano, mentre lui non si poteva permettere un bel nulla. Ebbene, con la sua nuova agiatezza, era giunto il momento di mostrare a quegli smandrappati del suo villaggio quello di cui era capace, doveva ora far vedere a tutti che si era sistemato e che nessuno era come lui, che nessuno aveva il potere e i soldi che aveva lui. Ma per fare questo aveva bisogno di soldi, di molti più soldi, e la sua attività come piccolo corriere al servizio dei suoi padroni non sembrava procurargli le somme sufficienti di cui necessitava. Perciò, un giorno come un altro, si presentò dal suo capo per dirgli che voleva salire di rango, compiere missioni più serie. Il capo scrollò la testa pensieroso, poi gli disse di ritornare da lui dopo qualche giorno per vedere che cosa si poteva fare. Quando ritornò per parlargli, Giovanni ripeté il gesto di sfilare una sola sigaretta dal pacchetto senza tirarlo fuori di tasca. Lo sguardo bieco e deciso, era pronto a fare qualunque cosa pur di vedere realizzato il suo sogno. Gli fu assegnata una strada di cui doveva occuparsi. E una nuova auto. E un’arma. E una serie di istruzioni precise su quel che doveva fare. Era diventato importante, andava in giro con la cravatta e si lucidava le scarpe ogni mattina, ora l’ex pattumaro dell’hotel era responsabile della strada dove un tempo aveva mendicato un posto in una baracca. Si presentò dal padrone dell’hotel per dirgli che cosa voleva. Quando questi tentò di buttarla sul ridere, Giovanni sbatté un pugno sul tavolo e lo guardò con aria truce, pronto a spaccargli la faccia al primo movimento. Uscì soddisfatto dall’hotel, si era vendicato come tante altre volte. Poi andò alla stazione e passeggiò, quando i suoi ragazzi fecero per salutarlo, lui si voltò dall’altra parte schifato. Era un uomo tra uomini ora, non andava bene salutarsi con gente di quella teppa. Lui, salutare tutti quegli straccioni, che mendicavano e rubacchiavano in stazione? Uscì per andare a camminare in centro, pranzò in un ristorante costoso e si comprò un vestito buono. Ma meglio si sentì quando la sera tornò a casa, si mise i bermuda e le infradito ed uscì in cortile per prendere un bicchiere di vino con i vicini. Quelli facevano i muratori, semplici braccianti o del mestiere, abitavano pigiati in quattro o cinque in una sola stanza, e mettevano i soldi da parte per poi spedirli a casa per i figli. Li aveva visti al supermercato [1] come si dividevano la spesa fino all’ultimo centesimo, anzi, a volte litigavano e si segnavano chi doveva all’altro anche pochi spiccioli. Mangiavano solo pollo e tonno in scatola, il cibo più a buon mercato, e si compravano il vino in bottiglioni da cinque litri o la birra in cartoni, per risparmiare. Le sigarette le compravano da chi arrivava in autobus dalla Romania, di contrabbando, fatte filtrare per Nădlac, alla frontiera, in combutta con i doganieri. Giravano come straccioni, raccogliendo apparecchi elettronici gettati nella spazzatura o i sacchetti di abiti usati lasciati dagli italiani, lavati e stirati – tanto per dire, così erano i vestiti buttati nella spazzatura –, li separavano e li spedivano a casa in Romania. Sicché i loro figli e parenti andavano in giro portando vestiti griffati, anche se recuperati dalla spazzatura. Non compravano niente mentre erano all’estero, non andavano mai in città, erano la feccia del mondo e andavano fieri della loro esistenza, se chiedevi loro come si sentivano a stare in quel porcile, ti rispondevano subito che si sentivano come baciati da Dio. Per il resto, erano contadini come lui, gran sbevazzatori e lavoratori, gente in cerca di fortuna. In un certo senso, avevano tutta la sua comprensione, loro l’avevano passata peggio di lui e sapeva che cosa dovevano sopportare. Prestava loro sempre soldi se ne avevano bisogno, offriva loro sempre da bere o li invitava alle grigliate, che lui aveva molto di più e perché così si faceva: chi aveva di più dava a chi aveva di meno.
Col passare del tempo, il nostro scalò la gerarchia, arrivando a occuparsi di un intero quartiere. Abena era rimasta incinta, e Giovanni faceva su e giù dalla Romania occupandosi della costruzione della villetta, a un certo punto non sapeva neppure lui perché la stava costruendo. Forse poi l’avrebbe venduta, perché in testa aveva chiaro che non voleva più tornare al villaggio né far crescere suo figlio in Romania.
Questi erano i pensieri che giravano in testa a Giovanni ogni giorno e che nella loro semplicità sembravano tenerlo lontano dai problemi. Solo che, se questi pensieri lo distoglievano dai problemi, lo stesso non si poteva dire della vita. E un giorno, mentre stava facendo il suo abituale giro per il quartiere per raccogliere il pizzo del mese, tutto precipitò. Un fruttivendolo [2], tranquillo e sempre puntuale nei pagamenti, gli ringhiò contro, dicendogliene di tutti i colori, che non gli dava più niente, che andava dai carabinieri se si azzardava a mettere piede ancora nel suo negozio, che si era rotto le palle di pagargli il pizzo per niente. Giovanni fece spallucce, sapeva quel che doveva fare. Quella stessa sera prelevò una busta a casa del capo, si incontrò con certi tizi della zona e i soldi arrivarono ai poliziotti che sorvegliavano quella strada. Di notte annodò un fazzoletto nero alla porta di casa del tizio, voleva dargli un avvertimento. La mattina, quando passò di lì con l’auto, procedendo lentamente e studiando il terreno, il fruttivendolo uscì, strappò il fazzoletto dalla porta e gli diede fuoco lì, sul marciapiede. Giovanni sorrise tranquillo e se ne andò. Con le buone maniere non c’era niente da fare, era chiaro, doveva affrontarlo a muso duro. L’aveva già fatto alla stazione Termini, ma qui la faccenda era seria e doveva procedere con metodo. Una cosa era discutere con un accattone, mollandogli due calci in bocca perché capisse di aver invaso il territorio, tutt’altra invece era regolare i conti per la famiglia di cui faceva parte. Il giorno dopo si piantò nel negozio del tipo. Lo pregò con le buone di non mandare all’aria l’amicizia tra loro, che non era suo interesse farlo, ma quello si rifiutò nel modo più categorico, usando parole che avrebbero fatto abbassare gli occhi per la vergogna a qualsiasi persona normale. Ebbene, da quel momento c’era una sola cosa da fare. A un suo cenno, i ragazzi devastarono il negozio, lasciandolo in pochi secondi come dopo il passaggio di un uragano. Poi gli fracassarono in testa alcuni vasi di fiori, lo riempirono di cazzotti e calci e se ne andarono tranquilli così come erano arrivati. La sera, quando il proprietario chiuse bottega, lo aspettarono all’angolo della strada. Spalancarono la portiera dell’auto davanti a lui e lo spinsero dentro, sul sedile posteriore, per avere una piccola discussione amichevole, ma dato che non pareva cooperare, lo presero a pugni e partirono insieme verso la periferia della città. Quando si mise a urlare e a dimenarsi, gli tapparono la bocca con del nastro adesivo. Arrivati in autostrada, lo trascinarono fuori dall’auto, chiedendogli se era ancora intenzionato a rompere la vecchia e fruttuosa amicizia fra entrambe le parti. Quello sputò in faccia a Giovanni, dicendogli che preferiva morire piuttosto che continuare a dargli soldi. Il problema si era fatto molto complicato, se non cooperava, si sarebbe creato un precedente e molti altri avrebbero seguito il suo esempio. Diede quindi mano libera ai ragazzi, e questi fecero quello in cui erano più esperti. Gli assestarono una tale gragnuola di calci che quando se ne andarono, pareva morto. Risalirono comunque nell’auto, lasciandolo lì; erano convinti di aver portato a buon fine la loro missione, e che era chiaro che aveva capito la lezione. Smammarono tranquilli, anche se dentro di sé Giovanni sentiva alleggiare un presentimento, come se avvertisse che non tutto era filato liscio e che sarebbe accaduto qualcosa, che quella faccenda sarebbe finita male. Lasciò gli uomini del capo in città, poi guidò da solo per circa due ore, con la testa in preda a mille pensieri. Abena lo aveva tempestato di chiamate, come se anche lei avesse intuito che era accaduto qualcosa. Alla fine, spaventato dal pensiero di aver forse ammazzato una persona, tornò indietro con l’auto lungo il ciglio dell’autostrada dove avevano abbandonato il fruttivendolo. Trovò una pozza di sangue, poi delle orme, poi un corpo raggomitolato sotto il guardrail. Non respirava più. Giovanni gli si sedette accanto, sul ghiaino. I suoi soldi valevano tanto da averlo spinto a togliergli la vita? Come aveva potuto arrivare fino a quel punto? Si stava facendo giorno. Si alzò, spinse il cadavere con un piede, facendolo rotolare giù nel fosso di scolo vicino al parcheggio e tornò a casa. Comunque non c’era più nulla da fare, doveva solo pregare di non essere arrestato.
Raccontò ad Abena quanto era accaduto, esponendole tutta la storia in ogni particolare. Lei lo capì, come sempre, certo che capiva che faceva tutte quelle cose per lei e per il figlio, non per il piacere di farle. Poi andò a letto e dormì di un sonno pesante come il piombo, ma dopo cinque giorni il capo lo chiamò per dirgli di andare da lui, dovevano parlare di alcune cose. Tentò di rinviare al giorno dopo, ma gli disse chiaro e tondo di piantare lì tutto e di andare in quel momento. Alla villa, contrariamente al solito, c’era molta più gente. Il capo lo chiamò nel suo ufficio e gli disse che era ricercato per omicidio insieme agli altri ragazzi, in un modo o nell’altro le cose avevano preso una brutta piega e doveva pensare a che cosa fare. Rimase in silenzio alcuni minuti, poi disse: Terrò la bocca chiusa, è così che si deve fare. Il capo gli diede una pacca sulle spalle e lo condusse nella grande stanza, dove c’erano i capi dei capi. Lo elogiò e chiese che fosse protetto, ora era uno dei loro. Era circondato dagli sguardi di simpatia di tutti, poi uno dei capi gli parlò, dicendogli di prendere la moglie e di trasferirsi nella sua città per un po’ di tempo, finché le cose si sarebbero calmate. Lì sarebbe stato protetto, nessuno si sarebbe permesso neppure di sfiorarlo. Di solito non durava molto, qualche mese. Chiamò Abena, di lì a un’ora sarebbe arrivato qualcuno per portarla via di casa. Alle sue domande agitate, le rispose in tono netto di non prendere niente con sé, di salire in auto e di chiudere per bene la casa a chiave. Non c’era bisogno di altro. Stette ad aspettarla per circa un’ora e mezzo con il motore acceso, il piede che fremeva con cui, ogni tanto, spingeva sull’acceleratore. Era già scappato una volta di prigione per miracolo, all’epoca per lo meno si era difeso, ma ora aveva paura. Perché, questa volta, aveva da perderci. Aveva lavorato per i soldi e per la propria casa, per tutto quello che era andato racimolando, e una condanna sarebbe stata per lui la peggior cosa al mondo. No, era meglio morire piuttosto, lui non ci stava in galera per vent’anni, non poteva sopportare quell’idea. Quando arrivò Abena, lasciarono la sua auto nel garage del capo e partirono per l’isola. Un lungo viaggio, di circa cinquecento chilometri, ma quella sembrava essere l’unica soluzione. Nascondersi, far perdere le proprie tracce, non esistere più per un po’ di tempo e tutto poi sarebbe andato bene, così gli era stato detto.
Arrivarono di notte, furono sistemati in una casetta e, con loro grande sorpresa, nessuno in quel paesino chiese loro da dove venissero, come si chiamassero o che cosa fosse accaduto; furono accolti come ospiti della famiglia presso la quale furono alloggiati senza che venisse chiesto loro niente, come se fosse stata la cosa più normale del mondo. Due mesi dopo nacque anche il loro figlio, battezzato col nome di Roberto e a cui fece da padrino l’uomo presso il quale abitavano. Giovanni si era integrato perfettamente nella nuova famiglia. Faceva le stesse cose di prima, solo che in un altro posto. Non si sarebbe mai immaginato che le cose fossero uguali ovunque in questo mondo, si dovevano solo conoscere le persone giuste. Durante tutto questo tempo i lavori della casa vicino a Roma erano continuati come di consueto, un amico se ne occupava al posto loro. E lui, ricercato dalla polizia per due casi diversi, faceva le stesse cose, guadagnando perfino meglio di prima. Aveva imparato che i soldi non guadagnati col proprio sudore arrivavano più facilmente e che le persone oneste non erano affidabili. Ora percepiva due salari, uno da Roma e l’altro dal nuovo padrone. Riusciva inoltre ad andare avanti con la costruzione della casa in Romania, tutto andava a meraviglia e quasi quasi si era dimenticato di essere perseguito per un crimine e che potevano cadergli in testa più di vent’anni di galera. In quel periodo, però, stabilì un suo principio: mai e poi mai avrebbe ucciso un’altra persona.
[1] e [2] In italiano nel testo.
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(ottobre 2018, anno VIII)
|
|