«Il silenzio» di Cristian Fulaş. Un frammento in esclusiva Il silenzio, racconto di cui offriamo qui in esclusiva un frammento, fa parte di un progetto per un nuovo libro – il cui titolo provvisorio è I belli e i buoni – che nelle intenzioni dell’autore, lo scrittore Cristian Fulaș (al quale «Orizzonti culturali» aveva già dedicato un articolo sul suo romanzo del debutto), dovrebbe accogliere più voci narranti che si snodano su altrettanti temi, usando ogni volta uno stile diverso. *** Tutti te lo dicono, tutti ti dicono che nulla è quel che sembra e che questa vita è una presa in giro, che è una specie di pantomima muta, qualcosa che io vedo in ogni momento e non te lo puoi immaginare perché qualunque cosa tu faccia, per quanto tu possa scervellarti per capire come sono fatta io, non riuscirai a imitare il rumore di fondo che mi perseguita tutto il tempo e non ti puoi neppure mettere nei miei panni quando tutto ronza, le finestre, le sedie, il pavimento ronzano, perfino il letto su cui sono distesa ronza, e la luce e il buio ronzano, è tutto un ronzio continuo e penetrante, per lunghi minuti che sembrano secoli, e tu non puoi capire una cosa del genere perché semplicemente a te non succede mai, il tuo mondo non è così e quindi non hai modo di raccontare la storia così come la vedo io, nel mio mondo dove quasi tutto è vista e tatto, e nient’altro, questo mondo menomato e folle nel quale non volevo entrare, nel quale sono stata trascinata dentro allora, un momento che non posso ricordare qualsiasi cosa io possa fare, un giorno dell’estate scorsa, mi avevi fatta ricoverare all’ospedale e tutto sembrava che andasse bene, chiacchieravamo come al solito ed è arrivata quella dottoressa bassa di statura, quella tipa con l’argento vivo addosso con cui avevo già parlato e disse, Dobbiamo prepararla per l’operazione, con una faccia che non era più la sua, mi hai portato fuori per fumare una sigaretta, non dicevi niente e ti vedevo scuro in volto, ti sentivi a disagio, ma così sei fatto tu sempre, strano, poi siamo ritornati in corsia e ho visto il corridoio pieno di piante verdi, con quel ficus che sempre mi è piaciuto, poi mi hanno messo il respiratore sulla faccia ed è arrivato l’autunno, di colpo, e mi sono trovata in un altro ospedale che non assomigliava a nessuno di quelli in cui ero stata, paralizzata e ammalata uguale a prima, solo che le vostre labbra si muovevano in modo insolito e io sentivo solo quel silenzio cretino e ho cominciato a domandarvi, me lo ricordo perfettamente, E io perché non sento più niente? Quand’è che guarirò?, e voi facevate spallucce, non volevate dirmi niente, e io domandavo, domandavo, domandavo a tutti come una pazza e nessuno voleva dirmi niente, solo ora mi rendo conto che non c’era niente da dire, poveri voi che non sapevate niente, nessuno capiva che cosa fosse accaduto, poi avete portato quella lavagnetta per bambini, di un verde sbiadito, e vi siete messi a scrivermi cose semplici, come se fossi completamente rincretinita, come se all’improvviso fossi io il figlio e voi i genitori, soprattutto te, con quella faccia inebetita e senza più speranza, ai tuoi occhi io ero diventata il figlio e sapevo che non era così, io ho cinquantotto anni e da sette mi trovo sul letto di morte, ho cambiato tanti altri letti su cui sono morta un pochino ogni volta, e a ogni crisi e a ogni nuova malattia che sviluppavo, così quasi dal nulla, sono morta in tanti ospedali tanto che ho dimenticato dove sono stata e tante volte, riflettendoci, penso che, certo, era mio destino morire in un ospedale, visto che comunque ci avevo lavorato in uno per tutta la vita, ma ora penso che solo qui, su questo letto di morte, fra un letto e l’altro e dopo averne cambiato molti altri, vorrei sentirti ancora una volta e capire se stai bene, se per caso qualcosa è cambiato nella tua voce e se me ne devo preoccupare, devo dire agli altri che si prendano cura di te e che non ti lascino ammalarti, non sopporterei di vederti di nuovo ammalato e sai bene che per tutta la vita ho tentato di proteggerti, di stare accanto a te, fin dove ho potuto, fin dove me la son sbrogliata, persino quando tu eri già andato via e non hai più voluto parlarmi per anni, non mi rispondevi e sei rimasto nascosto, dove, nessuno lo sapeva, eri come ammattito e non sapevo che fare, piangevo ogni giorno, mi stavo consumando, si era rotto qualcosa dentro di me, qualcosa mi stava trascinando già verso quello che sono oggi, la nullità a cui mi sono ridotta, un peso per tutti, quasi una morta che sta su un letto e che ha costantemente bisogno di cure e che sembra non rimettersi per niente in senso, lo so, lo so, lo so, per me non c’è più scampo, l’ultimo viaggio è cominciato già da un pezzo e aspetto di trovarne la fine, il che dovrà necessariamente arrivare, non ti preoccupare, l’ho saputo fin da quel mattino, quando mi sono svegliata nella stanza bianca su un letto bianco fra persone vestite di bianco e non riuscivo a muovermi minimamente e sentivo tutto come in un sogno e vedevo annebbiato e non riuscivo a muovermi, neppure un dito, sembrava fossi morta e mi guardavo, e sentivo tutto ma non potevo dirvi che stavo con voi e volevo respirare e volevo alzarmi e fumare una sigaretta, era l’unica cosa che desideravo al mondo, non avevo idea di quello che era successo, ho sentito, È caduta in bagno, questo solo ho sentito, poi siete usciti e io sono rimasta insieme al silenzio delle pareti e al ticchettio delle apparecchiature e con dentro una paura che non avevo mai provato prima, la paura di rimanere paralizzata, cominciavo a capire e non volevo restare allo stato vegetativo per tutta la vita, un corpo immobile, un corpo già morto, anche se vivo, ne ero terrorizzata e vedevo tutto buio, parlavo nel pensiero con le mani, con i piedi, sentivo come il liquido colava fuori da me e non potevo fare niente per fermarlo, volevo solo gridare, gridare fino a quando qualcosa si sarebbe mosso, fino a quando sarei diventata di nuovo io, non quella cosa che scorgevo da qualche parte fin dove arrivava lo sguardo, la labile traccia sotto le lenzuola con la quale non potevo comunicare, le protuberanze, le tracce con cui tentavo di parlare e che tentavo di muovere e che non mi davano retta, ma poi siete tornati, vi siete seduti intorno al mio letto esattamente come a una veglia funebre e vi ho guardato, vi ho guardato così intensamente che avrei potuto scavare dei buchi nei vostri corpi, l’unica cosa che mi era rimasta era lo sguardo e lo usavo come un trapano, tentavo di dirvi che ero lì con voi, che non m’ero ancora andata e che non me ne sarei andata, che avrei lottato e che sarei guarita – e non perché avessi solo cinquantun anni e che fosse ingiusto, ma perché il mio amore non mi permetteva di andarmene, non mi sarei permessa di lasciarvi da soli a questo mondo, senza di me non avreste avuto modo di cavarvela – e avrei continuato a ridere con voi e avremmo trascorso ancora insieme la nostra vita, così come è stato in effetti, solo che non era come l’avevo sperato io come una pazza, ma in qualche modo solo a metà, perché metà del mio corpo era morto e non mi ubbidiva più, non riuscivo più a muovere il lato sinistro, non mi ubbidiva più, ma col tempo ho imparato a rigirarmi in modo da riuscire a trascinarmi dietro gli arti morti, ho imparato a trascinarmeli dietro e appoggiare il bastone in modo da usarlo come perno per riuscire a camminare in qualche maniera, per trascinarmi da un punto all’altro, lentamente, molto lentamente, poi ho imparato a salire le scale e perfino a scenderle, ma era molto meglio comunque sulla sedia a rotelle, era molto più facile così, a ogni modo avevo riacquistato l’udito e la parola e anche la vista e me ne stavo tutto il giorno al telefono e mi ci ero abituata in qualche modo, avevo cominciato a capirlo, cogli anni, che non sei più guarita e che era solo una questione di tempo prima di, ma su, non devo dirlo, sennò ricominciate a sgridarmi, su, scrivetemi qualcosa sulla lavagnetta, sigarette non me ne date più, cretini, come se proprio queste mi facessero crepare, proprio adesso, dopo che neanche un bel mucchio di cose è riuscito a farmi fuori, come se dovessi morire per delle fottute boccate di fumo, dopo che mi hanno rotto tante di quelle vene nel cervello che nessuno sarebbe capace di contarle tutte, io ho il cervello ridotto a un colabrodo e la gente invece pensa ai cavoli propri, e a voi, cretini, vi frega solo che non mi venga un cancro ai polmoni, ma ce l’ho già il cancro, ve lo siete dimenticati, non siete stati voi a portarmi all’ospedale per fare un controllo e avete scoperto che ho un tumore alla tiroide grande quattordici centimetri, non siete stati a voi volere che mi operassero, invece di lasciarmi morire in pace, non siete stati voi a venire in corsia con quella scema della dottoressa, pronti a farmi fare un buco nella trachea e a mettermi un apparecchio perché non potevo più parlare e voi insieme a quella non avevate altro per la testa se non una seconda operazione, non ve lo ricordate, ho alzato la voce, roca com’ero e senza fiato, ve l’ho detto in tutti i modi possibili che mi sarei buttata dalla finestra, non fatemi più una cosa del genere, avete avuto fortuna quel giorno, la fortuna spacciata di avermi creduta, alla prima occasione in cui mi lasciavate da sola mi sarei buttata dalla finestra per finirla una volta per tutte con questa tortura, come potevate voi lasciare me con un buco nella trachea, che vi passava per la testa, pensavate di riuscirci, dài, andiamo a fumarci una sigaretta, non guardarmi più in quel modo, se sono sorda non vuol dire che sono muta, su, chiama l’infermiera e portami fuori, voglio fumare, voglio uscire da questa corsia, voglio stare all’aria aperta, perché non vuoi portarmi fuori, credi che se muoio faccia qualche differenza, perché continui a farmi soffrire anche tu, non vedi che stai chiacchierando con un cadavere, proprio non lo vedi, credi che una come me, che non può camminare sulle proprie gambe, che deve essere portata fuori su una sedia a rotelle, abbia qualcosa da perdere, tu non riesci a capire che da un certo punto in poi non c’è più niente da perdere e mi aggrappo alla vita perché ho paura della morte e non lo so, non sono mai morta e sono abituata a vivere, non perché ci sia chissà quale piacere a stare nella situazione in cui mi trovo, i piaceri li ho persi quasi tutti da un pezzo, da anni, da quando ero giovane o quasi, attorno ai 45 anni la mia vita andava a rotoli, me ne sono andata di casa e sono arrivata in quel paese di cui non sapevo niente, ho potuto vivere grazie alla pietà delle persone che conoscevo, miei compaesani, poi mi sono trovata quel lavoro orrendo, in montagna, facevo la badante, abitavo in un interrato umido e senza finestre e mangiavo una sola volta al giorno, mi fumavo le cicche che trovavo nei posacenere di coloro presso cui lavoravo, non avevo soldi per comprarmi qualcosa, mi sono dannata, sai, mezz’anno per poter tirare avanti, per non crepare là sottoterra come una talpa, da sola e al freddo, quasi cieca, quasi morta già da allora, non sapevo più di cosa dover dispiacermi, ormai non ci capivo più niente, avevo tanta nostalgia di casa come non avrei mai creduto di soffrirne, non credevo di arrivare ad avere due figli e a vivere da sola sottoterra, a che non mi telefonasse più nessuno, a sparire dalla faccia della terra a un’età in cui altre sono felici, alla fine hanno fatto qualcosa della loro vita e in quel momento credo di essermi inacidita, in quel momento ho dimenticato come si fa a sorridere e ho cominciato a stare zitta, non parlavo più con nessuno, ero una serva e tacevo e facevo le pulizie in una casa di venti stanze per tutto il santo giorno, quando finivo da una parte, l’altra parte era ridotta a un porcile, ho resistito sei mesi, i mesi più lunghi di qualsiasi persona, poi una sera sono scappata, ho preso la mia valigetta con dentro poche cose e me ne sono andata, avevo mille euro e non ce la facevo più a restare con quelli, dove mi stai portando, dài, restiamo qui al sole, dammi una sigaretta, perché mi guardi così, che pensi, che morirò per colpa di una stramaledetta sigaretta, se non sono morta per tutto quello che mi è successo finora, se muoio dopo tanto tempo e non sono più morta, al diavolo la vita, al diavolo, no, non piango più, non piango, non piango, no, ricordati però che quando morirò sul serio di darmi una birra e o un bicchiere di vino, di non fare come hai fatto con tuo padre, l’hai lasciato là e te ne sei andato senza dargli quello che ti aveva chiesto, che cane che sei stato, su, riportami in corsia, voglio essere cambiata, sono completamente zuppa, fino al collo, fin dentro l’anima, mi sono stufata di essere bagnata e che nessuno mi cambi, di aspettare ore e ore che qualcuno venga a cambiarmi mentre fisso quel dannato soffitto, quel soffitto bianco e pieno di crepe, perché non lo riparano non lo so proprio, ecco, come si stava bene in quell’altro ospedale, veniva sempre qualcuno a cambiarmi, c’era sempre qualcuno con cui potevo chiacchierare, ma ora, da quando sono sorda, ogni tanto vengono delle infermiere, mi guardano, poverine, alcune hanno addirittura la faccia triste, alzano le spalle e se ne vanno, che mi possono fare, nessuno sa più che fare con me adesso, non c’è più niente da fare, sento questo continuo ronzio e aspetto che arriviate, e quando arrivate, rimanete poco, sembra che dobbiate andare sempre di fretta da qualche parte, dove cavolo andate così di fretta non lo so, ma probabilmente somigliate a me, anch’io per tutta la vita sono andata di fretta, e ho corso e mi sono agitata come una forsennata, ho fatto tutto quello che potevo fare, non ricordo mai di essermi riposata un giorno, ecco, non ricordo un solo giorno in cui non abbia fatto niente, semplicemente non me lo ricordo e ci rifletterò su, penserò di nuovo a tutta la mia vita e scoverò alla fin fine il ricordo di un giorno in cui mi sia riposata, come tutti, anche se non lo credo, me lo sarei ricordato, ricordo sempre ogni cosa, i ricordi sono tutto quello che mi è rimasto e con essi vivo io, con tutte le cose che vanno e vengono, senza un ordine preciso, pensieri e fatti che si mescolano senza sosta, senza un ordine e senza una logica, una vita di donna che si muove in tutte le direzioni allo stesso tempo, un oceano, no, no, no, non potrei raccontartelo, perché continui a scrivermi di raccontartelo seguendo un ordine, quando in realtà i ricordi non seguono nessun ordine, i ricordi arrivano come arrivano, e nello stesso modo se ne vanno, sostituiti subito da altri, non te ne rendi neanche conto, no, non sono pazza, è che semplicemente i pensieri funzionano così, tutti allo stesso tempo, dài, esci che mi devono cambiare o per lo meno girati di spalle, non fare il maleducato che non ha senso, sta’ lì e guarda dalla finestra, perché mi guardi, pensi che una donna cambiata da un’infermiera sia una cosa bella da vedere, credi che a me piaccia, sei matto da legare, non sfuggi più a nessuno, ti porteranno al pronto soccorso alle nove e quelli ti rispediranno indietro, anche i matti ti cacceranno via, ma perché tutti mi stanno fissando, perché le loro labbra si muovono così in fretta, le labbra di tutti, questo non lo capirò mai, ehi, stronza, non mi strapazzare così che non sono mica fatta di legno, guardala un po’ come mi tira per un piede, non capisci tu che non riesco a muoverlo, non lo capisci, è peggio di quando sono caduta e mi sono ritrovata quel giorno all’ospedale, mi sembra di aver capito che i dottori mi hanno impiantato delle viti, sono un robot, una macchina, sono le medicine e le viti a tenermi ancora in vita, sono sorpresa di riuscire ancora a respirare, questo respiro non si ferma più, neppure io credevo di resistere per tanti anni, dopo tutte le vecchiette che ho seguito, curato, lavato, portato a passeggio, tutte resistevano qualche mese, al massimo sei, e poi morivano, e allora io mi trasferivo da un’altra vecchietta, presso un’altra famiglia, mi sono annoiata in quegli anni come nessun altro, ero arrivata a pulire i vetri delle case due volte al giorno, lavavo i piatti più volte dopo ogni pasto, dove stavo si poteva mangiare per terra, ero andata completamente fuori di testa, passavo giorni interi prima che scambiassi una parola con qualcuno, come non facevo ad andare fuori di testa, questa è stata la mia fortuna, là, stare sempre da sola e sbrigare faccende che tutti erano capaci di fare, mi sentivo così inutile, sembrava che fossi già morta e che niente avrebbe potuto più salvarmi da quell’inferno, già, forse è da lì che è cominciato il mio terrore per il silenzio, durante quelle notti interminabili in cui stavo seduta su una sedia e ascoltavo il loro respiro, ascoltavo come morivano e desideravo morire anch’io, desideravo sottrarmene, ho sempre avuto paura dei morti, non mi sono mai sentita a mio agio accanto a un cadavere, figuriamoci vicino a quelle vecchine che morivano in un baleno, così, di colpo, un attimo prima vedevi le lenzuola che si muovevano, e un secondo dopo non si muoveva più niente, tutto era finito, se ne erano andate, pregavo che non accadesse di notte, ma andava sempre così e dovevo stare con loro fino al mattino, non sapevo chi avvisare, non c’era nessuno sveglio, no, non è come da noi, quelli sono insensibili, perfino i loro propri morti li lasciano da soli, che anime da pagani, e io ero la sola che gli accendesse una candela anche se morivo dalla paura a stargli accanto, e poi dovevo andarmene di nuovo per trovare un’altra moribonda a cui badare, che vita, che nullità, come faccio a raccontartelo senza metterci a ridere a crepapelle, a ridere fino a rivoltarci per terra, sai, ci sono stata anni interi e guardavo le vecchiette che morivano, lentamente, perché non avevano più niente da fare a questo mondo, proprio come mi state guardando voi adesso, come fanno tutti quelli che mi stanno intorno aspettando qualcosa, sono diventata un peso, un supplizio per tutti, una tortura, lo so, me ne sono resa conto fin dai primi mesi, nessuno mi vuole più, ma non capisco perché non mi lasciate morire, perché mi sottoponete a questo martirio facendomi stare in tutti questi ospedali, con tutti i soldi a palate che date a questi estranei, perché non mi lasciate qui, sul letto di morte, senza darmi più una medicina, – guarda, ti prometto che morirò bene, in un batter d’occhio, mi basta solo che voi stiate qui con me – senza pianti e senza lamenti perché non sono stata la persona migliore al mondo, lo so, ma ora non c’è più niente da fare e guarda il prezzo che sto pagando, vedi, di notte, quando mi sveglio al buio, quando nel buio non si sente niente, quando il silenzio è un vortice oscuro che mi risucchia, è quando provo più paura, mi viene da urlare e non ci riesco, sto lì a guardare nel vuoto davanti a me e il terrore non mi lascia respirare come si deve, a volte me ne sto immobile per ore e ho paura, sto lì a ricordare e solo allora mi rendo conto come deve essere stato per quelle, perfino insieme a me in camera, ora capisco com’è svegliarsi e non sapere se sei morto, svegliarsi e non vedere, né sentire, e vivere minuti e ore come dentro una tomba, sotterrata viva, in attesa di una sola cosa, in attesa di scoprire se sono morta o se semplicemente nessuno passerà a controllare se sono ancora viva, se questa nullità che sono io c’è ancora a questo mondo, e basta, quanto insignificante è la vita, oh, quanto insignificanti siamo tutti, manciate di terra e ombra, come dice bene il Libro, cenere diventeremo qualsiasi cosa abbiamo fatto, solo che qualcuno lassù ha deciso di martoriarmi, di tenermi in vita finché avrò pagato ogni errore, finché avrò capito quello che ho fatto e solo allora avrà pietà di me, mi chiuderà gli occhi e dirà, Vieni, ti ho perdonato, ma non so perché penso che voi vogliate torturarmi ancora un po’ e lui non può lottare contro di voi, non ha nessuna possibilità, nessuno sembra averne una per opporsi a voi, l’ho capito sempre osservandovi, nei vostri occhi riluce un po’ di pazzia, è qualcosa che vi tiene stretti a questa storia e io non riesco a capire che cosa sia, su, riportami fuori, questa ha finito di cambiarmi, portami a fumare e visto che ci sei comprami dei cruciverba e dei dolci, ho voglia di mangiare qualcosa di dolce e di stare all’aria aperta, me lo prendi un caffè, no?, non mi fa bene, mi dici, va bene, allora una bibita, dài, portami a passeggiare, fammi passeggiare morta qua attorno al cortile dell’ospedale, se non ti va di portarmi da un’altra parte o magari mi potresti portare a comprare un libro per me, mi son resa conto che, quando voi scrivete su quella lavagnetta per bambini, nella mia testa sento le parole, è praticamente l’unico udito che ho, prendimi un libro perché io legga e mi offri così l’opportunità di sentire ancora qualcosa a questo mondo, posso leggere qualsiasi cosa, possono essere anche delle fesserie, ma almeno c’è qualcuno che parla anche con me quando leggo, lo sai tu, la voce che legge, la voce che dice che cosa c’è nel libro affinché la mente capisca tutto, non me n’ero mai resa conto finora, ma ecco la soluzione, prendimi un libro, prendimene molti e mi sentirò di nuovo una persona, almeno per alcune ore al giorno parlerò con i libri, loro li ascolto, poi arriverete voi e mi scriverete qualcosa sulla lavagnetta e io vi sentirò, mi ricordo delle vostre voci, so come parlate, come respirate, e ogni volta che scrivete nella mia mente prende corpo, stranamente, una forma di voce, Come?, non chiedermi di spiegartelo, non saprei come spiegarti una cosa del genere, so solo che è così che succede e di questo almeno mi accontento, questa pazzia nella mia testa che dice quello che vedo scritto, la pazzia che rompe il silenzio e mi permette, almeno per alcuni secondi, di immaginarmi di essere come voi, che le lettere mi parlano, sai, come una specie di interpreti muti, sì, guardami con tutte le migliaia di domande nei tuoi occhi, ecco, prendimi quei bei libroni, posali sul comodino, non mi lasciare senza di loro e digli di non spegnere più la lampada di notte, così se mi sveglio almeno non sarà buio, lasciami anche le sigarette sul comodino, almeno le guardo, aiutami tu, con te posso parlare, ci sei stato anche tu là e sai com’è essere ammalati, sei stato a un passo dalla morte tanto quanto me, lo sappiamo tutti e due, sono stata io prendermi cura di te, dobbiamo ritornare in corsia e tu devi andare, lo so, te ne vai di nuovo, quando arriva, non lo sai, su, va’, io rimango con il mio silenzio e me la vedrò io, magari ci sarà qualcuno che mi porterà fuori a fumare qualche sigaretta, forse domani starò meglio, questo dici sempre tu, che domani starò meglio, non ti credo più, su, rimango con il mio silenzio e con il mio letto e con un libro e con il pensiero rivolto alla notte che verrà di nuovo, va’, lasciami da sola. 8-15 agosto 2016
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(marzo 2017, anno VII) |