|
|
Odissea di una vita: «Fâșii de rușine», il convincente debutto narrativo di Cristian Fulaş
«Romanzo-parabola», così si potrebbe definire il romanzo Fâșii de rușine (Vinea-Gestalt Books, Bucarest 2015) che segna il debutto come prosatore (ma con passate incursioni nella poesia) di Cristian Fulaș (1978), un romanzo in parte autobiografico – come ha dichiarato l’autore stesso – che racconta, in prima persona – ma senza che venga mai pronunciato il nome della voce narrante – con estrema franchezza e lucidità e in un linguaggio diretto, serrato ed efficace l’odissea di un giovane intellettuale di Bucarest imprigionato nella sua condizione, drammatica e distruttiva, di alcolizzato e tossicodipendente.
Perché «romanzo-parabola»? Come l’evangelico figliol prodigo, ma in una versione «riveduta» e laica, siamo di fronte a un uomo che ha perso tutto, e non tanto quello quantificabile dal punto di vista materiale o professionale (era professore, e ora non ha né un lavoro, né una casa, neppure la carta d’identità), ma in primo luogo i ricordi e i legami familiari (una sorella cinica e insensibile, solo la madre, ignara e colpita da grave malattia, si salva da questo desolante quadro di famiglia), anzi c’è un vero proprio vuoto esistenziale che scatena in lui, durante il periodo di disintossicazione in un centro di recupero, un senso di vergogna, quegli sprazzi di vergogna – che hanno ispirato il titolo al libro – che si faranno sempre più per lui insostenibili, e che in quanto tali lo scuotono fino a fargli trovare la fiducia e alzare lo sguardo al di là della cortina che gli impedisce di vedere oltre la sua condizione di fallito, di persona senza un futuro. Un «figliolo», quindi, dissipatore di vita, che si è perso ma che si ritrova… perché qualcuno gli tende una mano. E questo qualcuno è nea Lică, persona più anziana e dalla forte personalità, un altro dei pazienti ricoverati nel centro di disintossicazione con cui la voce narrante fa conoscenza durante le sedute di terapia di gruppo e che, unico fra tutti, anche rispetto alla propria famiglia, che a un certo punto gli volta le spalle proprio nel momento in cui avrebbe maggiormente bisogno del loro aiuto, gli va in soccorso, offrendogli un posto e un lavoro dove poter stare e ricostruirsi una vita.
E ciò accade dopo lo choc di essere stato respinto dai propri familiari, evento che lo fa sprofondare nello sconforto e nella crisi più nera, con conseguente ricaduta nel vortice del vizio e della dipendenza dopo una fuga dal centro. Tutto ciò ha il suo culmine in un capitolo, il tredicesimo, centrale nell’intreccio del libro, che è reso dallo scrittore in modo geniale tramite una scrittura febbrile e travolgente nella quale la totale mancanza della punteggiatura (stilema anticipato brevemente alla fine del secondo capitolo) lungo quasi una decina di pagine trasmette con forza al lettore l’inarrestabile, dirompente flusso di pensieri, sorta di esplosione delirante di immagini e di ricordi ed espressione viva del malessere del protagonista, che viene scagliato quasi con disperazione sulla pagina e la cui forza scardina le stesse regole sintattico-grammaticali come se esse rappresentassero un ostacolo da abbattere momentaneamente sotto l’urgente impeto liberatorio dell’io.
Fâșii de rușine alla sua uscita è stato accolto molto positivamente dalla critica, raccogliendo parecchie recensioni elogiative, tra cui meritano di essere citate quelle apparse, per esempio, su «România Literară» [1] e «Observator cultural» [2]. Un debutto senz’altro convincente, e sorprendente in qualche modo poiché è raro vedere oggi un outsider come Cristian Fulaș, fuori dal grande giro e co-pubblicato da una piccola casa editrice di nicchia, conquistare l’attenzione e l’ammirazione della stampa letteraria più prestigiosa. Fra l’altro è notizia recente che il romanzo è stato insignito del premio letterario «Liviu Rebreanu» del 2015 per il debutto in prosa, un primo e meritato riconoscimento che dà valore e risalto alla scrittura di Cristian Fulaș.
Frammento da «Fâșii de rușine»
1
Tremo. Trema ogni fibra del mio corpo, ma soprattutto queste mani che non posso controllare. Sotto la testa sento qualcosa di bagnato, mi sposto un po’ più in là e tento di fermare il tremore. Palpo sotto il cuscino, trovo le sigarette, ogni gesto è incerto, mi sembra che tutto mi sfugga di mano. Trovo il pacchetto. Non ho da accendere. Tento di alzarmi, cado di lato, faccio fatica a rialzarmi. Sento una tremenda pressione sul naso, sembra quasi che stia per esplodere. Tento di rizzarmi in piedi, mi tremano le gambe. A stento raggiungo la scrivania, trovo un fiammifero, ritorno verso il letto. Paura. Cerco impaziente una sigaretta, fuori fa caldo, e in camera c’è troppa luce. Paura. Al terzo tentativo riesco ad accendere la capocchia del fiammifero, non centro l’estremità della sigaretta. Il naso mi fa male e vedo annebbiato. Paura. Aspiro una boccata di fumo dalla sigaretta, di colpo mi viene da vomitare e riesco a controllarmi, ma mi si mozza il respiro. Ho l’intera faccia come un vulcano. Bevo dell’acqua, mi viene da vomitare di nuovo. Afferro la bottiglia, mando giù una sorsata, tento di deglutire, non ci riesco. Alla fine va giù. L’alcol mi trapassa di colpo tutto il corpo, mi do una scossa e comincio a pensare. Ne tracanno un altro poco trattenendo il respiro.
Dove sono stato ieri sera? Quando sono arrivato qua? Avrò chiuso la porta? Dov’è il cellulare? Eh, dopo ci rifletto su, intanto provo a tornare un po’ in me. Ah, eccolo qua. Cinque chiamate perse. Magnifico. E chi sarà mai?
Mi alzo a fatica e arrivo fino all’ingresso. tremo tremo tremo tremo tremo tremo tremo.
Mi guardo allo specchio e faccio un passo indietro. Ho il naso rotto e gonfio e metà faccia è livida. L’occhio sinistro è tumefatto. Non mi ricordo cos’è successo, magari più tardi. Mi guardo meglio, anche la mano sinistra è a pezzi. Strano. Vado in bagno, esco tremando tutto. La scala scricchiola, come al solito. Mi sorreggo alla parete e poi alla ringhiera, mi trascino in camera. La bottiglia è ancora lì, mi ci avvento. Fumo senza sosta e continuo a bere, come se niente fosse accaduto dall’inizio dell’universo fino a oggi.
È estate e fa caldo. Troppo caldo. Penso che siano le otto inoltrate, la camera è già illuminata fino all’eccesso. In strada non si sente passare una macchina, la città è in ferie. Benissimo, che se ne stia in vacanza.
La via in cui abito ha ventidue case. È dalle parti della Stazione Nord, parallela a via Golescu. Di solito è deserta e tranquilla, le case sono protette da portoni chiusi a chiave. Su entrambi i marciapiedi le macchine sono parcheggiate contravvenendo al divieto, per cui i pedoni sono costretti a transitare per strada. All’angolo, seduta sulla sua seggiolina, c’è la solita vecchia zingara che conosce tutti quelli che abitano nella zona.
La casa in cui abito fu fatta costruire agli inizi del XX secolo da un facoltoso italiano, uno che aveva bottega in piazza Matache. Ha tre piani: un seminterrato, un pianoterra rialzato e una mansarda. L’aspetto esterno è orrendo, non ci sono dieci centimetri di intonaco che non siano in condizioni decenti. La lamiera del tetto è arrugginita, anche la vernice delle finestre di legno è svanita. L’inferriata e il cancello, minuscoli, sono ossidati. Il cortile è piccolo e invaso da erbacce.
Nel seminterrato ho una cucina con annessa la cantina, un’entrata, un bagno lillipuziano e una stanza in disuso in cui non c’è niente. Per accedere al pianterreno si sale per una scala a chiocciola, di legno, che a suo tempo doveva essere molto bella. Ora scricchiola tutta e da tempo avrebbe bisogno di una bella riverniciata. Il pianterreno dispone di due camere e di un atrio che serve anche da cucina. A ogni modo non ci cucino mai, ma è bene avere una cucina. E soprattutto un frigorifero. La camera sul retro non è abitata, c’è solo un sacco di cose gettate alla rinfusa le une sulle altre in mezzo alle quali devo scavare ogni giorno per trovare qualcosa. Sono atterrito dall’idea di mettere ordine lì, sicché tutto rimane così. La stanza in cui vivo mi offre un minimo di confort ed è molto luminosa. È alta tre metri e quaranta e ha tre enormi finestre, ciascuna di due metri circa. Un letto, una scrivania d’epoca, una libreria, un tavolino, un portatelevisore, due palme, una lampada e una poltrona. Per terra, un tappeto persiano azzurro che apparteneva ai miei e che ho conservato. È pieno di polvere ma è migliore del pavimento in legno. La mansarda non è abitabile e probabilmente non lo è mai stata. In essa ci sono le cose dell’ex proprietario della casa, che non è mai venuto a riprendersele. Un giorno le butterò via tutte.
Continuo a bere e a fumare, magari passa. Si fa invece più intenso il dolore al naso e all’occhio. Mi frugo nelle tasche. Niente. Cerco ancora. Una pastiglia, in un angolino. Un anticonvulsivo. Lo inghiotto con un sorso, forse in questa maniera il tremore sparirà. Accendo il televisore. Lo spengo, l’audio mi dà fastidio. Tutto sembra sottosopra, vorrei uscire e fare qualche passo, ma il tremore non si placa affatto e credo che mi vergognerei a uscire di casa sobrio. Ho un aspetto terribile, non ricordo quello che mi è successo e come ho fatto a rincasare. Faccio sforzi immani per ricordarmelo.
Sul cellulare vedo tutte le chiamate perse ricevute da mia sorella. Che vorrà ancora? Conosco a memoria la sua cantilena: Smettila di bere, non farti più, sta’ a casa e cercati un lavoro, qualsiasi, anche gratis tanto noi ci arrangeremo, ecc. Non ho voglia di sentirla adesso.
Mi alzo e mi avvicino alla finestra. La strada è vuota, neppure la zingara si è ancora sistemata all’angolo sulla sua seggiolina. Ha una strana abitudine: prima sistema la sua seggiolina poi sparisce per un po’; dopo di che ritorna con le sigarette e l’immancabile sacchetto di semi di girasole, si siede sulla seggiolina e da lì non si smuove più. […]. Cerco di vestirmi, la bottiglia è quasi finita e so che avrò ancora bisogno di qualcosa da bere. Prendo i pantaloni dalla sedia della scrivania, noto che sono sporchi di sangue ancora fresco. Vado nella camera attigua e ne estraggo degli altri dal mucchio informe. Ne ho minimo trenta paia, questo va bene. Li indosso, mi sciacquo un po’ la faccia per togliere ogni traccia di sangue. L’occhio è quasi chiuso, il naso invece non è così gonfio. Mi sembrava di avere da qualche parte un paio di occhiali da sole. Dove, non me lo ricordo più. Succhio le ultime gocce dalla bottiglia, comincio a sentirmi meglio. Il tremore sembra essersi placato, ma non del tutto, solo quel tanto per arrivare fino all’angolo.
Cerco i soldi nel posto che so, sotto il materasso a destra, dentro il primo tomo de I Moromeți che tengo lì da anni. È il mio libro preferito per una lettura di cinque minuti scelta a caso.
Esco dal cancello, mi imbatto nella zingara. La saluto, mi saluta.
«Ma stamattina da dove venivi così malconcio?»
«Non lo so, proprio non lo so.»
Scuote la testa in segno di disappunto, ma non aggiunge niente. Ha già visto di peggio nella sua vita.
Cammino rasente la staccionata, ci sono ancora cento metri fino al negozio all’angolo. Mi prenderò della birra, quella di sicuro mi tirerà su per il momento. Devo solo arrivarci e poi ritornare a casa. Entro nel negozio, è un tugurio nel seminterrato che si raggiunge scendendo tre scalini di cemento. Vado dritto alla vetrina frigorifero, prendo due confezioni di birra, le poso sul bancone. Vado fino alla macchinetta del caffè, infilo nella fessura una banconota da 1 leu, aspetto. Il caffè ha un buon profumo, ne ho voglia. Pago la birra e prendo anche due pacchetti di sigarette. La ragazza al bancone non dice niente, è abituata al fatto che non saluto e che in genere non apro bocca. Esco dal negozio, mi siedo su un angolo di cemento della finestra, poggio accanto a me sul marciapiede il sacchetto con dentro la birra e il bicchiere di caffè, apro un pacchetto di sigarette. Mi alzo, entro di nuovo nel negozio, prendo un accendino dal bancone e lascio lì i soldi, stesso film muto. Salgo gli scalini, mi siedo sulla panchina di cemento. Bevo il caffè, fumo, stappo una birra, guardo nel vuoto. La birra è fredda e mi fa bene. Tutto comincia ad avere senso, sento già sciogliermi la lingua bocca. Bevo rapidamente tutta la confezione, ne apro un’altra. Non ricordo ancora niente, decido di non pensarci più. Che devo fare oggi? Soldi ce n’ho? Sembra di sì, non mi devo incontrare con nessuno. Potrei andare fino in centro. Tremo ancora un po’, ogni tanto.
Mi alzo e mi avvio verso casa. Mi fermo, scambio due parole con la zingara. Entro, salgo le scale, mi siedo sulla sedia della scrivania, stappo una birra. Cerco una maglietta, mi cambio, ora ho un aspetto un pochino migliore. Cerco nell’agenda il numero di telefono di un amico, lo chiamo, non risponde. Probabilmente sta dormendo, sono le nove del mattino e fa molto caldo. Trovo gli occhiali da sole, sono grandi e coprono l’occhio tumefatto. Così va meglio, almeno nessuno per strada mi guarderà fissandomi.
Raccolgo lo zaino da terra, ci infilo alcune birre, uscirò a camminare per il centro. Ci metto anche un libro, Il senso di Smilla per la neve. Forse mi annoierò e leggerò un po’. In estate leggere è il miglior antidoto contro la noia. E dove vado? Eh, vedrò una volta arrivato lì. Devo trovare qualcuno con cui scambiare due chiacchiere.
Esco, chiudo la porta, metto la chiave nella cassetta postale. Non è sicuro che la porti dietro, magari la perdo di nuovo in giro. Prendo a sinistra, non voglio incontrarmi di nuovo con la zingara. L’ho già vista a sufficienza oggi. Cammino lentamente sulla strada deserta, non c’è anima viva. Poi svolto a sinistra, fatti venti metri arrivo in piazza. Attraverso, imbocco via Știrbei, c’è ombra e si sta bene. All’altezza della sede dell’Anticorruzione stappo una birra, il gendarme all’entrata mi guarda con lo sguardo spento di chi non ha niente da fare da dodici ore. Non c’è traffico. Fra i rami degli alberi non si vede neanche una nuvola. Cammino tranquillo, non devo correre da nessuno parte. Fumo e bevo la mia birra, per me questa città è una città sbronza. Una birreria pubblica, immensa e luminosa. Di colpo giro a destra, passo accanto alla sede della Nunziatura apostolica in Romania, scendo verso il parco. Qui è bello e fa fresco, ci starò un po’. Il parco è nei pressi, entro e attraverso quella cosa strana in pietra all’ingresso, né vialetto né portico, mi dirigo verso la Fonte di Eminescu. Mi siedo su una panchina e mi faccio una birra, guardo i cani che gironzolano e che combinano un casino perché vengono lasciati correre liberi. Già, è ingiusto che si pretenda che se ne stiano buoni perfino quando scorrazzano per i vialetti. Finisco la birra, cerco un cestino e ci getto la confezione e me ne vado. Passo in mezzo ai condomìni vicino a Sala Palatului, attraverso i giardinetti con la chiesa. In Viale Vittoria il traffico è caotico, attraverso dove posso e mi infilo lungo le stradine dell’Università. Saluto tutti i venditori di libri usati con le loro bancarelle addossate al muro, li conosco da una vita. Sono persone che sono invecchiate come i muri e la corrente che soffia lì, in generale dei poveracci. Mi fermo, scambio due parole con il Professore. È un personaggio. Ha i capelli grigi, va vestito in completo, è una vera miniera in fatto di libri. Mi chiede in prestito dei soldi, oggi non ha tirato su granché. Glieli do, passo io verso sera per riaverli indietro. Attraverso il sottopasso, guardo le vetrine piene di varie cose, esco giusto di fronte al Museo di Bucarest. L’edificio è piccolo e bello, mi è sempre piaciuto. Mi dirigo verso un bar all’aperto che conosco, lì si sta in pace. È a due passi, ci arrivo subito. Non c’è nessuno, fatta eccezione per un paio di cambiavalute abusivi che si stanno prendendo il caffè. Non c’ho niente da spartire con loro, vado dritto dentro il bar e mi prendo una birra e un caffè. I ragazzi qui mi salutano gentili, sono un loro vecchio cliente e ogni tanto gli offro da bere. Resto dentro, uno dei ragazzi mi porta il telecomando perché guardi alla tv quello che voglio. Bevo e guardo il bar vuoto, regna un piacevole sentimento di pace a quest’ora. La città si è appena svegliata, non succede niente. Guardo un documentario sulla guerra, come sempre. Mi piace questa pace, ha qualcosa di diverso. Sono un tipo mattiniero, e ne godo sempre. Sono le piccole gioie della vita e una di queste, impagabile, è la pace di una bettola.
Il bar comincia ad animarsi. È un posto conosciuto da tutti gli ubriaconi della città, l’unica bettola accessibile del centro. Appartiene a un ganzo e ha un nome quasi mitico per alcuni, Argentin. Ci si beve roba a un prezzo accessibile e di cattiva qualità, e la fauna che la popola è all’altezza. Verso mezzogiorno il calore è insopportabile, ma i tavolini si riempiono e la birra scorre a fiumi. Si bevono boccali di birra da mezzo litro e vino mischiato al selz, si chiacchiera, è il mondo bello e affascinante di chi beve la mattina e non lavora mai. Tutti quelli che vengono qua hanno le proprie fonti di denaro, sempre di dubbia provenienza. E tutti, tranne qualche eccezione, sono ubriachi dalla mattina alla sera. Strano, ma risse quasi non ce ne sono e quando scoppiano vengono subito sedate dai ragazzi che stanno lì.
Mi sono accomodato anch’io fuori. Sono seduto al tavolino con quasi le stesse persone con cui mi incontro ogni giorno. David, Jidanu, Piticu, Monșer, Alex. Persone con una loro storia alle spalle, messe insieme ispirerebbero trame per una dozzina di romanzi. David è stato judoka, una ventina di anni fa è stato campione europeo. Dopo varie peripezie è arrivato in Germania. Lì ha avuto una scazzottata con un cinese in un supermercato, quello gli era passato davanti in una fila. Gli ha mollato un cartone, il tipo è caduto sbattendo la testa contro il registratore di cassa ed è morto all’ospedale il giorno dopo. Per questa bravata David è stato condannato e si è fatto cinque anni anche in Romania. Vive con quello che può, mettendosi in ogni tipo di affari uno più losco dell’altro. Ha un’amante più vecchia di lui di dieci anni e se ne va a spasso con un’altra babbiona di circa sessanta che ama alla follia. Tutti bevono senza sosta. Alle loro vite si è aggiunto un cane boxer di nome Ursu. Piticu fa il finanziere, un ragazzo in gamba, ma alcolizzato come di rado si incontrano sulla faccia della terra. Ha casa, moglie e figlio, ma il novanta per cento del tempo lo passa spolpo da un bar all’altro, perdendosi in chiacchiere. Alex è stato operaio per tutta la vita, viene dal Nord e convive con varie donne. Nessuno sa esattamente di che campa. È con queste persone che mi incontro ogni giorno, qua e là. Alle volte stiamo insieme per giornate intere, variante postmoderna di certi perdigiorno simili ai Prìncipi del romanzo di Mateiu Caragiale. Oggi ce ne stiamo qui, con cinquanta gradi all’ombra, perdendoci in ciance davanti a qualche bottiglia di vino mischiato con selz e ghiaccio. È chiaro che non faremo nient’altro per tutto il giorno, se non andare, prendendocela comoda, da una bettola all’altra. Offriamo a turno al bar, è una norma non scritta vigente tra noi. Ci trattiamo con rispetto nella misura del possibile e ci diamo sempre una mano con quel che possiamo.
Oggi tema di discussione è stato, com’era logico, il mio naso. Non riesco a ricordare che cosa mi sia successo. Davide è del parere che attorno alle due ero bello cotto disteso su una panchina di via Sfintii Voievozi. Insieme a lui e a Micki. Che cosa sia accaduto dopo non lo sa più perché se n’era andato. Cercheremo di saperne di più da Micki, sempre che lui si ricordi ancora qualcosa.
Piticu ci propone di spostarci in un posto più fresco, è diventato insopportabile stare lì da Argentin. Facciamo un paio di conti e ci fiondiamo da Pepa, altro posto del centro conosciuto solo da noi. Attraversiamo il sottopasso di via Bratianu e arriviamo in Sfântu Gheorghe. Dietro, affacciata sui binari del tram n. 5, c’è una vecchia osteria malconcia che si chiama da Pepa, dal nome della proprietaria. L’osteria sopravvive non si sa come dai tempi di Ceaușescu, ed era frequentata come mensa dai dipendenti della Renel che si trovava lì vicino. È il posto più lercio del centro in cui bere qualcosa, il pavimento in cemento è a mosaico e c’è un bagno dove nessuno che sia minimamente sobrio potrebbe entrare. È un posto incredibilmente a buon prezzo, come quello all’angolo in Ferentari. La proprietaria vende a ciclo continuo vodka, birra e vino di pessima qualità da dietro un bancone bisunto. Qui la fauna è ancor più strana di quella da Argentin, qui si danno appuntamento gli accattoni e i senzatetto della zona. Il personaggio più celebre è Paulian, un ex architetto che mendica da bere tutto il giorno. È un tipo divertente e conosce simpatici aneddoti su Bucarest, per cui tutti gli offrono da bere. In determinati giorni si può incontrare anche Moni, un vecchio sporco e grasso che si dice avvocato e beve senza sosta, tanto che da tempo è diventato una leggenda in centro. Quindi, in compagnia di questi altri due, ci sediamo a un tavolino da Pepa. Ordiniamo salsicce ai ferri e casse di birra, la festa si accende. Moni ci racconta, mentre beve avidamente, di quando faceva affari da milioni di euro con gli americani della Inter, Paulian ci snocciola come gli hanno fregato il progetto per la Casa del Popolo. Sono storie che ci hanno già propinato, ma ogni volta si arricchiscono di nuovi particolari che accaparrano la nostra attenzione. È il territorio mitico degli alcolizzati del centro e tutti sappiamo che, alla fin fine, questa gente deve mascherare il proprio fallimento con qualcosa.
A un certo punto David mi fa discretamente cenno con la mano e usciamo. Troviamo un posto lontano da occhi indiscreti, un androne, tira fuori due canne appena rollate, le accendiamo, stiamo addossati al muro e ce le fumiamo.
«C’hai qualcosa?»
«No, più tardi andiamo a prenderne, ne ho messo da parte a sufficienza.»
Finiamo le canne, ne rolliamo un’altra con gli ultimi rimasugli rimasti, fumiamo, torniamo all’osteria un po’ fatti. I ragazzi sanno quello che facciamo, ci hanno solo chiesto di farlo con discrezione. Non gli va di vederci mentre lo facciamo e li capiamo. Siamo amici e sarebbe brutto litigare fra noi, quindi puntualmente ci assentiamo per un po’ e facciamo quel che dobbiamo fare. Ma il fuoco resta acceso, a partire da un certo punto io e David usciamo spesso, ritorniamo, cominciamo leggermente a sconnettere.
È in questo modo che da qualche anno a questa parte passiamo le giornate. Beviamo e ci facciamo, racimolando i soldi dove capita. Niente di più bello. Niente ci fa paura, col tempo ne abbiamo viste di tutti i colori. Sappiamo bene che un giorno potrebbe finire male eppure continuiamo lo stesso. Ci facciamo di tutto, meno però di eroina. David se la iniettava e ne sa qualcosa, ora ne sta ben alla larga. Ha smesso da qualche anno e ha continuato con sostanze meno pesanti, ma non si spara più in vena. Si è disintossicato da solo a casa; stava con un coltello appoggiato sulla sponda del letto e beveva vodka continuamente. Passate due settimane è uscito di casa guarito. Sa che un giorno ci ricascherà, ma tenta di rimandare quel giorno quanto può. Sa altrettanto bene che, come dice lui, quel giorno sarà l’inizio della sua fine. Racconta con voce grave e carica di pathos tutti i casini che ha passato, sembra quasi che stia recitando. Quanto più è fatto, tanto più è bravo nei suoi racconti. Quando è cotto, recita poesie, all’infinito, condendole di rime oscene. La sua preferita si intitola Il cinghiale dalle zanne d’argento. La sa a memoria e con l’andar del tempo ne ha create altre cinque varianti porno.
A un certo punto, nel bel mezzo della festa, suona il cellulare. Rispondo, è Mortu. Ci invita nel suo cortile per una grigliata, chiama lui altre persone. Gli dico che veniamo, che cosa dobbiamo portare? Niente, dice, Riappendo. Prenderemo noi qualcosa per strada…
Finiamo quello che è rimasto sul tavolino e chiamiamo un taxi. Uno di un colore da schifo, come dice Piticu. Lasciamo che salga lui davanti, è alto due metri e non ci sta sul sedile posteriore di una Logan. Noi ci stringiamo dietro con le birre in mano. Il tassista va a tutto gas per le stradine dietro all’ospedale Colțea, sbuca in Carol e poi passa con l’arancione su viale Elisabeta. Guardo dal finestrino, mi piace alla follia questa città. Passiamo di fianco all’Università, poi raggiungiamo il parco di Cișmigiu, viriamo a destra verso l’Ospedale di Stomatologia. Alex racconta ricamandoci sopra una storia di donne avuta la notte prima. Il tassista si ferma alla rotonda di Pârvan e ci disincagliamo a fatica per uscire dall’auto. Entriamo nel primo market e prendiamo una cassa di birre e delle bottiglie di vino a caso, per non presentarci a mani vuote.
Nel cortile c’è baldoria, musica e fumo. Sta calando la sera, la città bolle. Probabilmente ci sarà una quarantina di gradi all’ombra. Ci accoglie Mortu, ubriaco come al solito. È un personaggio buffo: alto, famelico, con gli occhi sprofondati nelle orbite e una dentatura impeccabile. Porta una decine di catenine d’argento al collo e altrettanti anelli alle dita, è uno dei più vecchi marpioni ancora in vita. Conosce tutti ed è di manica larga. Girano tante voci sul suo conto, ma nessuno sa esattamente in che tipo di affari sia invischiato. Ha un autista e una casa, sembra che gli vada sempre liscia. Vive con una tizia che ha soffiato a un altro amico che la trattava male. Si capiscono con lo sguardo e nessuno li ha mai visti arrabbiati o litigare. Alla festicciola organizzata ad hoc ci sono altre due persone, Plopu e Dragoș, è a ranghi ridotti questa volta. Plopu è una sorta di guardia del corpo della casa. Dragoș è cognato di Mortu e vive con quel che può standogli appresso. In generale gli sbriga le commissioni e con questo si assicura da vivere. Ci invitano a sederci e a bere, David va subito al barbecue perché a lui piace far da mangiare. Chiacchieriamo, stupidaggini, l’unico motivo è far passare il tempo e che si faccia più fresco. Siamo stati tutti invitati, è festa e Mortu dà da bere fino allo sfinimento. Mi chiama da parte e mi porta in casa.
«Vien qua che ti devo mostrare una cosa.»
In camera sua, su un tavolino, c’è un busto in marmo bianco. Lavorato finemente, molto bello. Mi fa notare la firma incisa alla perfezione alla base.
«L’ho preso come pegno per un prestito. Se non viene rispettato, divento ricco. Quanto credi che può valere?»
«Non lo so, ma posso interessarmene.»
Usciamo senza dire altro. È superfluo. I ragazzi hanno tirato fuori i backgammon, due scatole finemente lavorate in legno. Organizziamo un campionato scommettendo un leu. Chi perde, gioca contro tutti. Siamo tutti bravi a backgammon. Giochiamo con passione e gli insulti si sentono fino in strada. […]
Mortu ci annuncia che andiamo città tra qualche ora. Faccio un cenno a David, sgattaioliamo fuori e dopo un po’ arriviamo a casa mia. Cerco in bagno una boccetta e l’occorrente, dopo cinque minuti abbiamo già finito. Infiliamo nello zaino provviste. Ritorniamo in strada. Il sole del pomeriggio è micidiale, ho come la sensazione di camminare sospeso in aria. L’anestetico fa subito il suo effetto, non parliamo più e procediamo come teleguidati. Ci sediamo per cinque minuti su un muretto; stiamo immobili, guardiamo nel vuoto, ognuno con la propria visione. Vedo come la strada ha un’angolazione strana, il tram comincia a volare. Passa in fretta, comincio a riprendermi.
«Senti, David, questa strada si trova molto in alto?»
«Non lo so, me lo stavo chiedendo anch’io.»
«Dài, andiamo, la gente ci sta aspettando.» Un poco alla volta e ci passa. Percorriamo la strada, osserviamo le case come se le stessimo vedendo per la prima volta in vita nostra. Schiviamo le persone prendendola molto alla larga, camminando in mezzo alla strada. Ci fermiamo davanti al cancello, prendiamo una bella boccata d’aria, mandiamo giù un sorso di birra, entriamo, tutto sembra che vada bene adesso. Gli effetti dell’alcol di colpo sono passati, sento che potrei far bisboccia per tre giorni. I ragazzi sono pronti e ci aspettano, saliamo in macchina e ci avviamo verso la città. Non ho la minima idea di dove stiamo andando.
In Piazza ho una rivelazione. Vedo la fermata del tram e mi sono ricordato. Avevo tentato di scendere dal tram ed ero caduto sbattendo la faccia sul cordolo. È per questo che avevo l’occhio livido e il naso rotto. Bene, almeno ora so il come e il perché. Racconto ai ragazzi il tuffo che avevo eseguito, tutti si mettono a ridere.
Entriamo in un ristorante, ora va tutto bene. Non ho più l’ossessione di ieri notte, mi ricordo tutto. Ordiniamo da mangiare e da bere, questa volta la baldoria si preannuncia molto lunga. Non conosco condizione migliore di questa.
2.
Notte. Un silenzio di tomba, non si muove una foglia. È chiaro, mi sono addormentato vestito. Sono totalmente stordito, tiro fuori l’occorrente e me ne faccio ancora un po’. Mi sento meglio, esco in corridoio e mi prendo una birra. Dalla camera accanto si sente russare. Apro la porta, sul letto stravaccati ci sono David e Piticu. Chiudo, non li sveglio ancora. Che dormano ancora un pochino, probabilmente è ancora molto presto. Sul cellulare ci sono un sacco di chiamate perse. Come al solito. Chiamerò la mattina per capire che è successo. Per il momento me ne sto con una birra in mano e ascolto la notte. La notte è la mia migliore amica, da sempre. È l’unico momento in cui mi sento sicuro. Di giorno mi sento in pericolo. Il giorno nasconde cose imprevedibili, la notte invece è sempre sicura e calma e solitaria.
*
Si è fatto giorno già da un pezzo. I ragazzi si sono svegliati e sono andati a casa loro. Prendo il cellulare, mi siedo con calma alla scrivania e premo il pulsante chiamata.
«Buongiorno. Mi avete chiamato.»
«Ciao, ho provato a chiamarti ieri per tutto il giorno. Ti ricordi ancora quello che abbiamo discusso la settimana scorsa?»
«Non tanto a essere sincero. Era qualcosa d’importante?»
«Si tratta di tua madre. È malata. È ricoverata all’ospedale all’estero, ha avuto un ictus. Come te lo sei potuto dimenticare?»
«Non lo so, semplicemente me lo sono dimenticato. È grave?»
«Sì, è completamente paralizzata.»
Il mondo mi cade addosso. Tento di non urlare, ma la comprensione della realtà mi mette in salvo facendomi ammutolire. Riesco a farfugliare un:
«Che si può fare?»
«Niente. Tua sorella si trova lì. Ci ha pregato di prenderci cura di te, solo adesso ti abbiamo trovato. Possiamo venire da te?»
«Certo. Venite.»
Riattacco. All’improvviso comincio a tremare, non riesco a credere che per una settimana non ne abbia saputo niente. Non ho idea di quel che potrei fare, non voglio neppure telefonare a mia sorella perché stavolta ha ragione. […] Stappo una birra e me ne sto, muto, a guardare nel vuoto. Sento un dolore enorme e bianco come mi sale in corpo, sto da schifo. Penso di telefonare a David, per parlargli, ma all’improvviso sento che non è la miglior cosa al mondo da fare. Mi metto a urlare, urla disperate e senza senso. Urlo per cinque minuti filati, fino a perdere la voce. […]
Sento il rumore di una macchina che si ferma davanti al cancello, poi lo sbattere delle portiere. Due. Il cancello cigola come sempre, dei passi pesanti poi sulle scale. I genitori di mio cognato entrano tranquilli come fanno sempre, loro hanno un altro modo di essere diversi dal resto del mondo. Si siedono, uno sulla sedia, l’altro sul divano. Mi guardano con occhi pieni di compassione e sofferenza. Hanno un figlio che ha quasi la mia stessa età, probabilmente non gradiscono quello che stanno vedendo.
«Ma guardati anche tu come ti sei conciato, quando hai mangiato l’ultima volta?»
«Che hai fatto alla faccia?»
«Niente, sono caduto. Ditemi che cos’è successo.
«Tua madre è caduta per terra in bagno. L’ha trovata il suo vicino dopo due giorni. È all’ospedale, paralizzata. I ragazzi sono già là, sono arrivati il giorno dopo. Per il momento non si sa cosa accadrà.»
Vedo di nuovo bianco. Non riesco a parlare.
«Tua sorella ci ha dato il numero di telefono di un medico che è stato suo professore. Ci ha pregato di parlare con lui e farti ricoverare, se anche tu lo vuoi. Siamo venuti a prenderti, il dottore ti sta aspettando. Non devi aver paura, tutto andrà bene e avremo cura che non ti manchi niente.»
Non riesco a capire quello che mi stanno dicendo. Li guardo e ho come la sensazione di vedere attraverso i loro corpi. Scendo in bagno e vomito, mi scolo quasi mezza bottiglia di cognac, mi sento meglio.
«Sappiamo che è difficile per te, ma devi fare qualcosa. Forse capirai anche tu che non puoi più andare avanti così…»
Non riesco a pensare. Voglio scappare via, fino in capo al mondo. Non capisco cosa accadrà se mi fermerò, ma ho una paura disumana. Mi sento come un animale braccato. So che non posso rifiutarmi, ma non riesco a immaginare nessun futuro con me sobrio. Prendo una birra, la stappo, bevo e non dico niente. Niente dietro di me e niente davanti. Ho vissuto inutilmente?
I signori Popescu stanno davanti a me, immobili. Sulle loro facce vedo la stessa infinita pietà e l’attesa.
«Va bene, vengo… Non c’è altro da fare…»
«Hai dei vestiti puliti? Una tuta, qualcosa?»
«Dovrei averceli, non so, ora cerco.»
Vado nell’altra camera e frugo. Ho delle tute, ne infilo un paio in uno zaino. Ci metto anche della biancheria intima, calzini, delle ciabatte. Non sono mai stato ricoverato in ospedale, ma suppongo che ci si porti questo quando uno ci va. Ci metto anche due-tre libri, anche se non sono sicuro che li leggerò. Esco dalla camera a passo solenne, come in un funerale. Mi viene alla mente il primo verso dell’Iliade, il secondo non riesco a ricordarmelo. Dico il primo nel pensiero, lo ripeto come fosse un inno funebre. Salgo in macchina, guardo la casa come se la stessi vedendo per l’ultima volta. Sono un morto e queste persone mi stanno accompagnando verso l’ultimo cammino. Mi rendo conto di non provare nessun sentimento di furia, perché mai ripeto questo verso? Neppure io lo so.
[…]
Words move, music moves
Only in time; but that which is only living
Can only die.
[…]
[1] http://www.romlit.ro/nsemnare_la_un_debut
[2] http://www.observatorcultural.ro/BIFURCATII.-Cristian-Fulas-un-debut-surprinzator*articleID_32222-articles_details.html
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 12, dicembre 2015, anno V)
|
|