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Né con Dio, né senza Dio. Cioran, il mistico
Il cielo grigio senza nuvola
costeggia l’aria grigia senza fine
di coloro che non sono né per Dio né per i suoi nemici.
In lotta con il divino
«È religioso chi può dispensarsi dalla fede, ma non da Dio»[1]. Così Cioran, prima di congedarsi definitivamente dall’idioma romeno, quasi a prefigurare la personale lotta col divino che lo porterà a battere le contrade più impervie alle diverse latitudini dell’Assoluto. Diversamente dall’amico Mircea Eliade, il cui procedere enciclopedico finisce per fare della religione un oggetto d’erudizione, da studiare ed approfondire in tutte le sue varie manifestazioni, Cioran drammatizza il rapporto con il divino, alla stregua di un combattimento corpo a corpo, senza esclusione di colpi, come un Giacobbe contro l’Angelo. La furia demolitrice che dispensa nello sterminare le contraffazioni statuarie incontrate lungo il cammino rivela un’esigenza iconoclasta di purificazione, contro la supponenza dei teologi, addetti stampa di Dio.
«Fino a quando ci sarà ancora un dio in piedi, il compito dell’uomo non sarà finito»[2], recita uno dei suoi ultimi aforismi. Il distacco esibito dallo storico delle idee religiose, colui che abbraccia con la stessa disinvoltura sciamanesimo e la più raffinata meditazione buddista, lascerebbe quantomeno perplessi quegli spiriti inquieti che, ad ogni costo, perseguono la salvezza: «Chi possiede una sensibilità religiosa non passa la propria vita a enumerare gli dei, a fare il loro inventario… Ho sempre visto nella storia delle religioni la negazione stessa della religione»[3].È pur vero che la ricerca di Eliade non è altro che l’espressione più alta d’una piaga culturale che ha contaminato, da Hegel in poi, tutto l’Occidente: l’insano impulso di voler compendiare, in una conoscenza universale, tutta la storia delle idee che ci hanno preceduto. Vana pretesa che, esaltando l’erudito, finisce per soffocare il mistico che riposa in ognuno di noi. Dopo averli soppesati e maneggiati tutti, quale Dio preferire, infine?
I vari capitoli del Sacro finiscono per equivalersi agli occhi del dotto, che li ha vivisezionati uno per uno: «Non s’immagina in preghiera uno specialista della Storia delle religioni»[4], incalza Cioran. La polemica personale non gli impedisce, tuttavia, di riconoscere una verità epocale quanto inconfutabile: la posizione intellettuale di Eliade anticipa e riassume quello di ogni occidentale dei giorni nostri. Giunti al capolinea della storia, volgiamo un ultimo sguardo alle illusioni che furono e colmarono d’ebbrezza divina i nostri antenati, ben sapendo che l’incanto non ritornerà più, e quel mondo, in cui l’estasi si confondeva col sogno, è svanito per sempre.
«Noi siamo tutti, Eliade in testa, degli ex credenti, siamo tutti degli spiriti religiosi senza religione»[5].
Voyeurismo claustrale
Ogni crisi esistenziale proviene da una tentazione religiosa o quantomeno vi conduce, e ciò accadde anche al giovane Cioran. Figlio di Emilian, pope ortodosso, e di Elvira, presidente di un’associazione confessionale femminile, al pari di Nietzsche, Cioran crebbe in una famiglia permeata da un forte sentimento religioso. Anche il fratello minore Aurel, ad un certo punto, manifestò la volontà di prendere i voti in un ordine monastico, ma venne distolto appena in tempo dalle animate argomentazioni nietzscheane, profuse dal maggiore Emil [6].
Tuttavia, fu frequentando un corso sul misticismo tenuto da Nae Ionsescu, che Cioran incomincerà ad interessarsi in maniera non tradizionale al fenomeno, rendendosi presto conto che ad attrarlo non è tanto la religione in sé, quanto piuttosto il suo aspettoeccessivo, febbrile, manifestatosi nelle vite dei santi e dei mistici.
In questo periodo compulsa le biografie e gli scritti delle sue eroine, si perché – è bene chiarirlo subito – la sua predilezione, almeno inizialmente, va alla mistica sponsale, specificamente femminile: sintesi unica e irripetibile di sensualità e ascesi, eros ed estasi, melange aromatico di orgasmi ed incensi, di malattia e beatitudine, caduta ed elevazione. In quella inclinazione malsana per lo squilibrio salutare, in cui la religione sconfina spesso nel delirio, occorre ricercare la morbosa attenzione che l’esteta agiografo, Cioran, riserva alle indiscrezioni dei conventi [7]. Le peripezie del cuore delle sante nascondono senz’altro più misteri delle contorsioni trinitarie dei teologi. Insediarsi nelle loro zone d’ombra, carpirne le confessioni, sorvegliarne i mancamenti… È immaginabile un’aspirazione più grande, una voluttà più irresistibile per un disperato che, nauseato dalla vita, è in procinto di farla finita con il mondo, gli altri e se stesso? Grazie alla mediazione femminile, la tentazione mistica fa breccia nell’anima insonne di Cioran, facendo di lui un «discepolo delle sante»…
«Vi fu un tempo in cui il solo pronunciare il nome d’una santa mi colmava di delizie, in cui invidiavo i cronisti dei conventi, gli intimi di tante ineffabili isterie, di tante illuminazioni e pallori. Stimavo che essere il segretario d’una santa costituisse la più alta carriera riservata ad un mortale. E immaginavo il ruolo di confessore vicino alle beate infiammate, tutti i dettagli, tutti i segreti che un Pierre d’Alvastra ci nascose su santa Brigitta, Henri de Halle su Mechtilde di Magdeburgo, Raimondo di Capua su Caterina da Siena, il frate Arnoldo su Angela da Foligno, Jean de Marienwerder su Dorothée de Montau, Brentano su Catherine Emmerich… Mi sembrava che una Diodata degli Ademari o una Diana d’Andolo si elevassero al cielo per il solo prestigio del loro nome: esse mi donavano il gusto sensuale d’un altro mondo»[8].
L’infatuazione del giovane Cioran privilegerà, nel suo personale harem claustrale, la figura di Teresa d’Avila, tanto da consumare – sino allo sfinimento – il libro sulla sua vita. Vuoi per un’inclinazione innata al paradosso o per il gusto insopprimibile della provocazione, sta di fatto che, per un certo periodo, Cioran non mancherà di citarla nelle conversazioni salottiere e nelle occasioni mondane. Se la sua prediletta, in seguito ad un’apparizione di Gesù, uscì di corsa, ballando freneticamente in mezzo al convento, richiamando con un tamburo le sorelle, per esprimere loro tutta la sua gioia, lui, per spirito di emulazione, sognerà di trovarsi in preda ad un delirio simile e, invasato da Dio, di passeggiare nudo per strada [9].
In effetti, o la fede è questo radicamento nell’invisibile e nell’inverosimile che solleva il mondo, o non è nulla. Ad ogni modo, il frutto di questa liaison dangereuse non tarderà a maturare. Se a Cioran è preclusa la stravaganza a sfondo mistico-religioso, gli rimane pur sempre quella letteraria… E scandalo fu.
Nel 1937, non senza qualche peripezia editoriale, Cioran pubblicò in Romania un libretto dal titolo “Lacrime e santi”. Per il contenuto blasfemo e irreligioso, sin dal suo apparire suscitò un’ondata quasi unanime di indignazione. Eliade stesso ne stigmatizzerà i «paradossi e le invettive», il tono melanconico, i «passaggi esasperanti», in grado di gettare nell’imbarazzo anche i suoi ammiratori più entusiasti. Insomma: un libro indifendibile, che spinge a compatire l’Autore, «…ed è tutto»[10]. Le reazioni negative travolsero anche i genitori, impegnati a vario titolo nelle comunità confessionali locali. La madre, pur dimostrando come pochi altri, di coglierne lo spirito – «si percepisce in te una lacerazione interiore; da un lato la blasfemia, dall’altro la nostalgia» – sottolineò tuttavia l’inopportunità di pubblicarlo prima della loro morte, esponendoli così al pubblico ludibrio. Ma Cioran è già a Parigi e l’eco di queste polemiche lo raggiungerà solo per via epistolare.
Lacrime e santi, dunque. Il libro segna il culmine d’una disperazione esistenziale che, ad un certo punto, assunse una piega religiosa. Un periodo in cui Cioran, scavando nella propria solitudine, alterna intense letture dei mistici ad… estasi. Ne sperimenterà cinque o sei in tutto, ricorderà in seguito, «come ricompensa dell’insonnia»[11]. Saranno incandescenze senza fede, ebbrezze nichiliste à la Kirillov, per intenderci. Nel libro, al di là delle provocazioni sacrileghe – vi s’immagina, tra l’altro, Dio tra le braccia d’una meretrice e vi si agogna la peste, come una benedizione, pur di strappare il bacio peccaminoso d’una santa! – Cioran mette a nudo alcuni aspetti chiave della fenomenologia religiosa, che riprenderà nelle opere successive.
Innanzitutto la mistica è intesa come una sottospecie dell’erotica, o meglio: «ogni forma d’estasi soppianta la sessualità»[12]. In sostanza, a cambiare è solo l’oggetto del desiderio, mentre la pulsione che lo anima rimane la stessa. Il transfert della libido sessuale dalla creatura umana – reale ma proibita – al Creatore – ideale ma consentito – è un aspetto particolarmente pregnante della mistica sentimentale, dove l’elemento passionale risulta prevalente.
Tutto il linguaggio delle sante è costellato di immagini erotiche e sensuali. In questo senso i nomi delle stanze che segnano le tappe del Castello Interiore di Teresa d’Avila sono emblematiche: l’unione, il fidanzamento, il matrimonio spirituale. Cioran, a proposito, rievoca il passo in cui Teresa confessa un desiderio ardente di vedere il colore degli occhi del Signore e le proporzioni del suo corpo:
«Impurità della santità femminile! Portare fino in cielo l’indiscrezione del proprio sesso, tutto ciò serve a consolare e a ripagare tutti quelli – e ancor meglio quelle – che sono restati al di qua dell’avventura divina… Tra santa Teresa e le altre donne non ci sarebbe dunque che una differenza nella capacità di delirare, una questione d’intensità e di direzione dei capricci. L’amore – umano o divino – livella gli esseri: amare una sgualdrina o Dio presuppone uno stesso movimento: nei due casi, voi seguite un impulso da creatura»[13].
L’astinenza sessuale prolungata costringeva le sventurate ad inventarsi un partner immaginario – Gesù, un Angelo, la Madonna – con il quale si abbandonavano a veri e propri amplessi spirituali. «Quanto più viene negato il sensuale, tanto più sensuale è il Dio al quale viene sacrificato il sensuale», scrive con acume antropologico Feuerbach [14]. Dilatazione dei sensi, accessi di piacere procurati da dardi roventi che penetrano nelle carni, seguiti da appagamenti e deliqui. Bernini, segnatamente nella S. Teresa in estasi e nella Beata Ludovica Albertoni, ci ha lasciato un’inequivocabile ed insuperabile figurazione della natura «sublunare» di quei rapimenti.
«I santi furono dei gran perversi, così come le sante, magnifiche voluttuose. Gli uni e le altre – pazzi d’una sola idea – trasformarono la croce in vizio».[15]
Che fossero delle squilibrate, su questo non v’è dubbio; tuttavia, a loro scusante, occorre rimarcare che appartenevano ad un tempo e ad una cultura in cui «la salute è assimilata ad una disgrazia»[16]. Non bisogna dimenticare, che con l’avvento del cristianesimo il culto della sofferenza è entrato di diritto nella pratica religiosa. L’imitazione della passione, il simbolismo del sangue, l’adorazione della croce – supplizio dei più atroci e ignominiosi – le stigmate dei santi, sono sintomatici d’un rapporto, quanto meno sospetto, con il corpo e le emozioni che lo attraversano. Se il dolore patito da Cristo diventa il modello assoluto con cui i credenti devono misurarsi; se il rituale ossessivo diventa una pratica imposta ex lege, non bisogna stupirsi se una tal società, in preda ad una vera e propria nevrosi collettiva, considererà poi l’isteria e la perversione masochista dei santi, un esempio di vitalità sovrannaturale, un segno di benedizione divina. La malattia garantisce ai più dotati una carriera, un posto nel Pantheon dei dottori della Chiesa. Insomma un futuro… aureolato.
Già nel secolo dei lumi, si era posta l’attenzione sul fatto che i turbamenti adolescenziali fossero riconducibili alla pubertà e al naturale sviluppo fisiologico dell’organismo, piuttosto che ad una crisi vocazionale di matrice religiosa, come pretendevano gli apologeti. L’oggetto del turbamento era semplicemente l’unione sessuale con un partner della stessa specie e non l’unione mistica con un Dio dall’impalpabile natura e dalla ancor più incerta esistenza. Da diabolica profittatrice, la Chiesa si mostrò abile, fin dall’inizio, ad iniettare in quelle feritoie del cuore il virus ideologico della propria dottrina. Demonizzando i desideri carnali e sublimandoli verso più eterei amplessi, li distolse dal loro alveo naturale, assicurandosi in questo modo il reclutamento della trista manodopera, anoressica e devitalizzata, che ha formato nei secoli il proprio esercito evangelizzatore.
Se Cristo è stato assunto in cielo attraverso la sofferenza del supplizio, i suoi imitatori, per non essergli da meno, s’ingegneranno a trovare nuovi peccati, così da infliggersi le punizioni esemplari che meritano, in un crescendo masochistico che si conclude solo con la morte per denutrizione o inedia, sempre ad maiorem gloriam Dei. In questo modo i santi e i mistici danno prova di una forza inusitata, sovrumana certo, ma per eccesso di insanità. Sfondano la patologia, la cavalcano sino in fondo, per scalare il cielo e detronizzare Dio. La vitalità segue in loro una via perversa, che si afferma sulla rovina della fisiologia. Vi è un’esasperazione, un’esacerbazione del corpo, esposto com’è a continue torture e privazioni, che ricorda l’estenuazione pornografica delle prostitute. Una medesima pugnalata alla vita, perpetrata nell’un caso per difetto, nell’altro per sovrabbondanza di voluttà. Non a caso, Cioran azzarderà un accostamento ardito – che suona come una confessione – tra chiostro e postribolo: «Nell’ossessione dell’assoluto è presente un gusto di autodistruzione. Da cui qui l’ossessione del convento e del bordello. “Celle” e donne da una parte e dall’altra. Il disgusto di vivere cresce altrettanto bene all’ombra delle sante che delle puttane»[17].
Ogni infatuazione, ogni desiderio, per quanto bruciante sia, incontra prima o poi la propria verità, la delusione che ne stempera l’ardore. Anche per Cioran le «fantasie monacali» dopo un po’ segnarono il passo. Volente o nolente, nella propria evoluzione culturale, ognuno si trova a ripercorrere le tappe della filogenesi della civiltà cui appartiene, che dall’animismo primitivo, passando per il politeismo e il monoteismo, conduce infine alla visione scientifica del mondo. Vi fu un tempo in cui la «coquetterie»del convento, la moda di convertirsi par pudeur ad una certa età, suonava ancora come un dovere, come un elegante congedo dalla vita. Ad ogni modo, con la fine del grand siècle, la seduzione claustrale cessò d’intrigare le anime più sensibili, afflitte ormai da un’indifferenza scettica che solo la sferzata rivoluzionaria riuscirà, in qualche caso, a rinvigorire. Disertare il convento diventò, col tempo, una questione di decenza… Già, perché, come proclamò a gran voce Nietzsche, «Il nostro tempo sa…Ciò che prima era solo patologico, oggi è divenuto indecente – esser cristiani oggi è indecente»[18].
Un simile smarrimento dovette provare lo stesso Cioran, nel contemplare i duemila anni di contaminazione cristiana: «L’idea che un giorno – come tutti – ho potuto essere sinceramente cristiano, fosse anche solo per un secondo, mi getta nella perplessità»[19]. Prendere atto che oramai il cristianesimo ha i «secoli contati» e, dopotutto, «sbadigliamo davanti alla croce», era diventata per lui una questione imprescindibile d’onestà intellettuale. Ragion per cui, un giorno, divorziò anche dalle sue predilette:
«Ho vissuto per anni all’ombra delle sante, non credendo che poeta, saggio o folle potesse mai eguagliarle. Ho dispensato nel mio fervore per esse tutta la mia capacità di adorare, la vitalità nei desideri, l’ardore nei sogni. E poi…ho cessato di amarle»[20].
Oggi che la religione cristiana è ridotta ad un fenomeno di costume e di costumi; oggi che la salute del corpo ha soppiantato la salvezza dell’anima, finalmente abbiamo compreso l’origine tutt’altro che divina di quegli spasmi. Una volta sbaraccato l’allestimento semantico che serviva da scenografia alla messa in opera d’uno psicodramma interiore, in cui Dio stesso, per esigenze di copione, era chiamato a recitarvi la sua parte, non rimane che la nuda realtà psicopatologica di certe esistenze, incapaci di accettare la vita così com’è, senza supplementi d’essere, alibi evangelici o fughe claustrali. Desacralizzando e socializzando i monacali deliri, la psicologia ci ha liberato da secoli di nevrastenia indotta.
Nessun inferno, nessun paradiso quindi, che non rimandi ad uno scompenso delle nostre viscere, ad un appello del basso ventre. E Dio? Nient’altro che un pretesto teatrale dei nostri scoramenti.
«È la fortuna di noi moderni d’aver localizzato l’inferno in noi: se avessimo conservato la sua antica figura, la paura, sostenuta da duemila anni di minacce, ci avrebbe pietrificati. Niente più spaventi che non siano trasposti soggettivamente: la psicologia è la nostra salvezza, nostra scappatoia. Un tempo, si riteneva che questo mondo fosse uscito dallo sbadiglio del diavolo; oggi non è più che un errore dei sensi, un pregiudizio della mente, un vizio del sentimento. Sappiamo come comportarci davanti alla visione del Giudizio universale di santa Ildegarda o di fronte a quella dell’inferno di santa Teresa: il sublime – dell’orrore come dell’elevazione – è classificato da un qualunque trattato di malattie mentali. E se i nostri mali ci sono noti, non per questo siamo esenti da visioni, ma non vi crediamo più. Versati nella chimica dei misteri, noi spieghiamo tutto, finanche le nostre lacrime. Qualcosa rimane nondimeno inesplicabile: se l’anima è così poca cosa, donde proviene il nostro sentimento della solitudine? Quale spazio occupa? E come può sostituisce, in un attimo, l’immensa realtà svanita?»[21]
Quando il mondo delude e ci rifiuta, o quando, al contrario, siamo noi a liquidarlo, occorre inventarsi un universo invisibile di ricambio, surrogato del reale. A forza di scavare nel profondo di se stessi e gridare invano, ad un certo punto sopravviene un’eco che rincuora, un interlocutore ideale, che infine bilancia il nostro solipsismo e riscalda la fredda solitudine in cui siamo caduti. Cos’è in fondo Dio, se non questa «riserva di forza» che dimora nel sottofondo dell’anima, questa trovata dialogica cui attingiamo quando tutte le evidenze sembrano cospirare contro di noi? Giorno dopo giorno, prende forma un mondo in cui le privazioni, i dolori, le ingiustizie che patiamo, acquistano un senso e sono magicamente trasfigurate, riscattate. È la solitudine a spingerci verso Dio, a crearlo, ad animarlo. Senza questo sdoppiamento interiore, questo setting quotidiano tra terra e cielo, che anticipa la psicanalisi, la pietà per la nostra condizione probabilmente ci divorerebbe, fino alla consunzione. Giunto al suo limite, il gemito di disperazione, in luogo di ricadere su di sè, s’innalza verso l’alto, mutandosi in preghiera. È questa l’origine antropologica della religione, «il sospiro della creatura oppressa» di cui parla Marx.
«Quando si giunge al limite del monologo, ai confini della solitudine, s’inventa – in mancanza di un altro interlocutore – Dio, pretesto supremo del dialogo. Fintanto che Lo nominate, la vostra demenza è ben mascherata, e… tutto vi è permesso. Il vero credente si distingue a malapena dal pazzo; ma la sua follia è legale, ammessa; finirebbe internato se le sue aberrazioni fossero depurate da ogni fede. Ma Dio le copre, le rende legittime».[22]
I santi ed i mistici dilatano questa dimensione immaginaria fino all’inverosimile, arroccandosi all’interno del loro Castello interiore, tanto da renderlo una fortezza inespugnabile. Foggiano il loro Dio, lo trastullano, lo vezzeggiano, lo piegano alle loro idiosincrasie, alle loro manie. Colonizzano il cielo: «Dio appartiene loro: provate a sottrarglielo, sarebbe vano: essi stessi non conoscono il processo grazie al quale se ne sono impadroniti. Un bel giorno credettero»[23]. Ad ogni modo, se il fedele qualunque, a seconda delle circostanze, alterna opportunisticamente fede e scetticismo, il mistico e il santo abitano costantemente in quel retro-mondo allucinatorio, costruito a loro immagine e somiglianza. Con una differenza fondamentale, tuttavia: il santo, non avendo regolato i conti con il mondo, tenta ancora di recitarvi un ruolo, di scuoterlo a suon di prodigi, provocazioni e invettive; la mistica – «avventura verticale», scorciatoia verso il cielo – rompe definitivamente con la Storia, per perdersi anima e corpo nella dimensione dell’eterno: «Tu non devi più parlare con gli uomini ma con gli angeli», rivela il Signore a Teresa d’Avila. Lasciamo Teresa ai suoi angeli, ora è tempo di rivolgersi alla santità...
Contro San Paolo
Sul tipo Saul, al secolo Paolo di Tarso. Le testimonianze lo descrivono come un uomo dall’aspetto sgradevole, e quindi dalla sensibilità sovraeccitata. Refrattario alla religione dei padri, perennemente insoddisfatto di sè e del mondo, Paolo è un rabbino mancato, che rovescia sull’ebraismo le proprie tare fisiologiche. Per vendicarsene, si appoggia alla congrega cristiana, inventando di sana pianta una nuova alleanza col vecchio Dio, con tanto di morale modellata su misura. Afflitto probabilmente da qualche forma d’impotenza, si dichiara insensibile alle voluttà carnali. Non contento, con una sfrontatezza senza limiti, osa innalzare la propria misoginia a modello etico: «È cosa buona per l’uomo non toccare donna». L’eccezione matrimoniale è ammessa «per concessione, non per comando» poiché, dichiara modestamente, «Vorrei che tutti fossero come me…ma se non sanno vivere nella continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere». Alla gramma ebraica – «la lettera che uccide», che istiga a peccare – contrappone la legge dello Spirito, il suo naturalmente…
Zelante fariseo, persecutore dei protocristiani prima, s’intrufola successivamente nei ranghi del nemico e, da sospetto convertito della nuova fede, inizia a lavorare di concetto, per snaturarla dalle fondamenta. Risentito apostata dell’ebraismo, Paolo impregna il cristianesimo del suo astio antigiudaico. Un’operazione di sdoganamento in piena regola, che rende l’oscura setta semitica esportabile ai quattro angoli dell’impero, facendone una religione a vocazione universale, aperta a tutti i diseredati della terra. Non occorre più circoncidersi, basta credere, per il resto garantisce lui… Infatti, come ogni settario che si rispetti, può contare sull’investitura divina - ergo inverificabile - che lo pone in linea diretta con l’Assoluto.
Cittadino romano tra gli ebrei, cristiano tra i romani, ebreo tra i greci, quest’instancabile transfuga delle province imperiali scorazza di preferenza nei bassifondi delle città, tra il popolino, più incline ad ingoiare i suoi indigeribili dogmi. Gli stomaci filosofici più sottili lo rigettano come un corpo estraneo. Ad Atene, dopo aver preso la parola in nome del Theos Agnostos, cerca di convincere gli astanti che il suo dio, una volta morto, è resuscitato nella carne. Al risuonare della parola anastasis, naturalmente viene sommerso dalle risate e trattato alla stregua di un demente, d’un ciarlatano (spermologos). Il fiasco colossale dell’Areòpago lo segnerà per sempre, tanto che da allora l’appellativo stultitia accompagnerà il Cristianesimo come un marchio di fabbrica[24]. Lui, insieme allo «scandalo degli ebrei», ne farà addirittura un motivo di vanto…
Polemizza, inveisce, condanna, semina discordie nelle sinagoghe, organizza ecclesie clandestine, indottrina nuovi adepti, con un fervore ed un carisma tali da meritare pienamente l’appellativo di Lenin del Cristianesimo, coniatogli per l’occasione da Antonio Gramsci. Percorrendo l’Asia Minore da untore dello spirito, Paolo sparse impunemente la peste del suo nuovo dio, fresco di conio, ammorbando dapprima gli ambienti più popolari e incolti, per proseguire poi la sua opera nefasta in quelli aristocratici e raffinati, così da gettare le basi per l’egemonia dei secoli a venire. Del resto, se l’insania cristiana è uscita dagli oscuri margini d’una confraternita ebraica, per diventare la religione dominante in occidente, lo dobbiamo in massima parte alle convulsioni di questo epilettoide caduto da cavallo… e ciò significherà pur qualcosa. Da ultimo, in pieno delirio di onnipotenza, ebbe la sfrontatezza di affermare che non sarebbe morto prima della parusia di Cristo. Ovviamente la natura si è affrettata a smentirlo, tuttavia il virus del suo verbo aveva già contagiato parecchie menti, tanto da propagarsi e giungere fino a noi.
Cioran, per regolare i conti col Cristianesimo, ha bisogno di un nemico all’altezza, di qualcuno in grado di concentrare in sé quanto di peggio questa sacrale menzogna ci ha lasciato in eredità, qualcuno in grado di scatenare l’odio represso fomentato nel corso dei secoli. «Quando non so più con chi prendermela, apro le Epistole, e subito mi rassicuro», confessa nella Tentation d’exister [25].
Per sfidarlo lo rincorre attraverso i secoli, gli dà la caccia, lo stana, mettendone a nudo i torbidi moventi psicologici, le tare mascherate da virtù, la fratellanza ostentata che dissimula un fanatismo viscerale, una smania sobillatrice. Il risultato è un ritratto superbamente diffamatore, intriso di rabbia disingannata e destinato a far giustizia contro venti secoli di mistificazione.
«Non gli riproveremo mai abbastanza d’aver fatto del cristianesimo una religione inelegante, di avervi introdotto le tradizioni più detestabili dell’Antico Testamento: l’intolleranza, la brutalità, il provincialismo. Con quale indiscrezione s’immischia di cose che non lo riguardano, di cui non ci capisce un’acca! Le sue considerazioni sulla verginità, l’astinenza e il matrimonio sono semplicemente nauseanti. Responsabile dei nostri pregiudizi in materia di religione e di morale, egli ha fissato le norme della stupidità e moltiplicato le restrizioni che paralizzano ancora i nostri istinti».[26]
Che una teologia bercera e sanguinaria come quella paolina, propugnatrice del sacrificio espiatorio di Cristo a riscatto del peccato originale di Adamo, abbia potuto affossare le coeve filosofie elleniste, supera la normale capacità di intendimento degli eventi storici, e la dice lunga sulla propensione al peggio della nostra specie. È sufficiente sfogliare nell’ordine: le Epistole di Epicureo, quelle di Seneca o i Ricordi di Marco Aurelio, e poi gli scritti paolini, per avere una misura di quanto la cultura occidentale abbia perso in termini di saggezza, conoscenza, e perché no, di vita, nell’adottare un monoteismo raffazzonato ed intransigente, refrattario ad ogni ragionevole evidenza. «Senza il cristianesimo, i popoli meridionali sarebbero stati condannati alla felicità» [27], incalza Cioran.
Della discesa aberrante verso l’ebetudine, di cui esibiamo ancora le piaghe, Paolo di Tarso fu l’esaltato ideologo: ragione in più per ingiuriarlo! La spossatezza di un impero esausto giocò indubbiamente a suo favore. Ebbe buon gioco nell’insinuarsi tra i simulacri d’un culto ormai al capolinea. Un politeismo tollerante e acquiescente nei confronti delle divinità straniere, si apriva senza riserve all’idolatria esotica d’importazione.
«Una civiltà marcescente scende a patti col suo male, ama il virus che la consuma, non si rispetta più, lascia circolare un san Paolo… Per ciò stesso, si confessa vinta, tarlata, finita. L’odore di carogna attira ed eccita gli apostoli, affossatori cupidi e loquaci. Un mondo di magnificenza e di luce cedette davanti all’aggressività di questi «nemici delle Muse», di questi forsennati che, ancora oggi, ci ispirano un panico misto ad avversione. Il paganesimo li trattò con ironia, arma inoffensiva, troppo nobile per ridurre un’orda restia alle sfumature. Il delicato che ragiona non può misurarsi con il beota che prega. Irrigidito nelle altitudini del disprezzo e del sorriso, soccomberà al primo assalto, poiché il dinamismo, privilegio della feccia, proviene sempre dal basso…»
Compendio e summa della saggezza greco-romana, lo stoicismo fu l’ultimo baluardo filosofico che l’antichità seppe opporre alla deriva barbarica d’origine semitica. Rivolgendosi di preferenza alle élite patrizie, agli spiriti colti e raffinati, propose loro un’etica della libertà che conduce al dominio delle passioni, al distacco, nella buona come nella cattiva sorte, all’accondiscendenza nei confronti del fato e della morte, nella serena accettazione di far parte di un ordine cosmico, che tutto ingloba e rigenera. Una filosofia del disincanto, tuttavia, è disarmata contro il fervente che predica e inveisce sulla base di rivelazioni piuttosto che di argomentazioni. Tutt’al più lo compatisce, lo irride, senza prenderlo sul serio. L’errore strategico, se così si può chiamare, fu quello di considerare tutto il mondo all’altezza della propria filosofia, mentre, come ricorda da qualche parte Renan, «alla maggioranza la filosofia non basta, le occorre la santità». Così, con la diffusione del cristianesimo, l’apostolo itinerante, il monaco importuno e bacchettone spodesta il saggio stoico, impersonandone in un certo senso la «versione convulsiva», degenere, e pertanto «più accessibile alle masse».
«Il crepuscolo greco-romano era tuttavia degno d’un altro nemico, di un’altra promessa, di un’altra religione. Come ammettere l’ombra di un progresso, quando si pensa che le favole cristiane poterono tranquillamente soffocare lo stoicismo! Se questo fosse riuscito a propagarsi, ad impadronirsi del mondo, l’uomo sarebbe giunto a compimento, o quasi. La rassegnazione, divenuta obbligatoria, ci avrebbe insegnato a sopportare le nostre sventure con dignità, a far tacere la nostra voce, ad affrontare con freddezza il nostro nulla … Sopraffatto da tutte le parti, lo stoicismo, fedele ai suoi principi, ebbe l’eleganza di morire senza dibattersi. Una religione s’instaura sulle rovine d’una saggezza: i maneggi che quella impiega non si addicono affatto a questa. Gli uomini preferiranno sempre disperare in ginocchio piuttosto che in piedi … Non si prega in nome di Marco Aurelio: poiché egli non s’indirizzava che a sé stesso, non ebbe discepoli né settari: al contrario, si continuano ad edificare templi dove si recitano a sazietà certe Epistole. Fintanto che sarà così, perseguiterò con tutto il mio astio colui che così abilmente seppe interessarci ai suoi tormenti».[28]
Al di là di Dio
Il divorzio dalla mistica femminile non significherà tuttavia, per Cioran, l’abbandono della mistica tout court. La passione per la mistica renana, e per la figura di Meister Eckhart in particolare, lo accompagnerà ancora per molto tempo.
Considerato uno dei vertici della mistica speculativa, Eckhart è tra i pochi pensatori, nati nella terra del tramonto, a costituire un ponte ideale verso l’Oriente, a dimostrazione che la meditazione essenziale non conosce frontiere. Nel suo pensiero, l’esasperazione dialettica dei concetti sfocia volentieri nel paradosso, così da porre la coscienza di fronte ad un vicolo cieco, obbligandola a dilatare la percezione della realtà oltre la dualità ordinaria di soggetto/oggetto, al di là di ogni immagine, storicamente condizionata. Lungo la strada aperta dallo Pseudo Dionigi Areopagita, Eckhart intraprende il cammino che porta alla progressiva demolizione della teologia classica e al suo definitivo superamento.
Dal suo inusuale punto di vista, l’equazione Dio = Sommo Ente = Essere per eccellenza, è considerata la più grande blasfemia mai pronunciata. Ponendolo al vertice della piramide degli esseri, quale artefice e garante di tutto ciò che è; sovraccaricandolo d’attributi - altrettante trasposizioni, su scala infinita, di mancanze umane – la teologia ha fatto di Dio un oggetto. Nulla a che fare con il divino quindi, trattandosi piuttosto d’una caricatura, una contraffazione umanoide spacciata come tale. Tante sono le idee, le immagini di Dio che l’uomo si è figurato nel corso dei secoli, tuttavia, se rimane ancorato ad esse, sarà sempre prigioniero di forme storiche e antropomorfiche del divino. Eckhart rompe con tutta la tradizione che lo precede, elaborando una mistica speculativa, che a tratti si con fonde con la pura filosofia: «padre del paradosso in materia di religione, fu il primo ad aver dato una piega da dramma intellettuale alle relazioni tra uomo e Dio»[29], scrive Cioran. La sua opera di spoliazione si esercita contemporaneamente lungo due direttrici strettamente correlate: quella interiore dell’anima e quella esteriore delle apparenze[30]. Attraverso il distacco (abgeschiedenheit) da ogni rappresentazione sensibile e intellettuale, lo spirito si affranca dalla signoria delle immagini, dalla divinità in primo luogo e da tutte le creature in secondo. Chiosa puntualmente Cioran:
«Perseguire, cercare l’immagine, dimostra che si è rimasti al di qua dell’assoluto e che si è inadatti alla visione pura. Ciò si capisce, dato che questa visione non è tanto senza oggetto quanto al di là di ogni oggetto. Si potrebbe anzi dire che ciò che essa ci permette di vedere è l’assenza senza confini di tutto ciò che può essere visto, la nudità come tale, il vuoto come pienezza o, meglio quell’ «abisso della sovraessenza» celebrato da Ruysbroek». [31]
Sovraessenziale, nel linguaggio dei mistici, indica appunto ciò che di per sé non si identifica con alcunché di determinato, non poggia su alcuna sostanza particolare, poiché, in un certo senso, le pervade tutte. Di Dio, pertanto, occorre dire che non è, ovvero che non fa parte del dominio degli enti. In quanto non-ente, Dio viene a coincidere piuttosto con il ni-ente, ossia, paradossalmente, con il nulla. Non a caso, in un suo sermone Eckhart sostiene: «Quando l’anima giunge nell’Uno e vi penetra con un totale rigetto di se stessa, trova Dio come nulla»[32]. Se ogni sostanza apparente è in realtà una forma vuota, in quanto i suoi attributi sono il risultato momentaneo di un’interconnessione causale con il tutto, allora ogni alterità è dissolta, e con essa l’Io psicologico, che di quei contenuti è il ricettacolo. Si approda così a quel fondo vuoto dell’anima (Grund der Seel), a quello stadio di nudità ontologica e povertà spirituale, in cui l’anima «niente vuole, niente sa, niente ha»[33]. È lo sprofondamento in quella pienezza senza contenuto che costituisce la Deità(Gottheit). La differenza è tutta qui: Dio è solo un oggetto o un concetto, la Deità è una condizione. Occorre superare Dio, liberarsene, per riconquistare la Deità, nostro status originario, natura Buddha di ogni essere, come dicono altrove, che ci appartiene da sempre e che un giorno abbiamo alienato in Dio.
«"La Deità e Dio" afferma Meister Eckhart "sono altrettanto separati quanto il cielo e la terra. Il cielo è a migliaia di leghe più in alto. Così la Deità in rapporto a Dio. Dio diviene e passa".
Limitarsi a Dio significa, come ha notato un commentatore, restare «ai margini dell’eternità», rendersi inadatti a penetrare nell’eternità stessa, alla quale si giunge soltanto elevandosi alla Deità». [34]
Le tradizioni mitiche delle varie culture conservano ancora la traccia di questa «differenza ontologica» tra Dio e Deità, nel timore, da parte degli dei, di essere scavalcati dalla conoscenza umana. In proposito, già in Lacrime e santi, Cioran nota come «Dio ha sfruttato tutti i nostri complessi d’inferiorità, a cominciare da quello che ci impedisce di crederci degli dei» [35].
A questo punto non rimane che elevare al cielo la paradossale invocazione di Eckhart, ripresa da Nietzsche e fatta propria da Cioran: «Prego Dio che mi liberi da Dio». Dall’urgente impossibilità di pregare, scaturisce l’invocazione a Nessuno, il cui contenuto nega e sopravanza l’interlocutore cui si rivolge. Una rosa che fiorisce senza perché, mai contemplata né raccolta da alcun Dio: è l’immagine di un’anti-preghiera che sembra demolire le condizioni e le ragioni stesse del proprio manifestarsi [36]. Evocando il Nulla, «versione più pura di Dio» [37], ci si affranca dalla teologia verso un orizzonte più ampio e sgombro da cupi pregiudizi, dove è consentito, anche ad un non-credente, pregare. Cioran appunta nei suoi Cahiers: «Formula della mia vita: la preghiera di un ateo»[38].
Nel Précis aveva già dato voce ad un’antipreghiera ribelle, prometeica, con la quale si esentava dalle bassezze della genuflessione, divincolandosi dall’abbraccio mortale di qualsivoglia fede che, a ben guardare, è sempre una megalomania dissimulata, un nano che sale sulle spalle d’un gigante, per dilatare il proprio minuscolo Io in eterno. Credere equivale a mendicare un supplemento d’essere, un’appendice illimitata alle felicità, amare ed effimere, di questa vita. Significa in altre parole «eludere l’irreparabile»[39]. Tuttavia, non si può barare sull’evanescenza del nostro essere, senza scivolare, al contempo, in una malafede interiore che, a lungo andare, assume tutti i crismi d’una schizofrenia conclamata, sebbene, per il fatto di essere generalizzata e consacrata, finisce per passare inosservata. «Colui che non consente al proprio nulla è un malato di mente. La volontà di durare, sospinta così lontano, mi spaventa. Oppongo il mio rifiuto alla seduzione malsana di un Io indefinito. Voglio sprofondare nella mia mortalità. Voglio restare normale»[40]. Fieramente arroccato nella propria mortalità/normalità, attraverso un lirismo affascinante ed ispirato, che merita d’essere interamente riportato, Cioran licenzia Dio dalla propria anima.
«Signore, datemi la facoltà di non pregare mai, risparmiatemi l’insanità di ogni adorazione, allontanate da me questa tentazione d’amore che mi consegnerebbe per sempre a Voi. Che il vuoto si estenda tra il mio cuore e il cielo! Non desidero affatto che i miei deserti siano popolati dalla vostra presenza, che le mie notti siano tiranneggiate dalla vostra luce, che le mie Siberie si sciolgano sotto il vostro sole. Più solo di Voi, voglio che le mie mani rimangano pure, a differenza delle vostre, insozzate per sempre, impastando la terra e mischiandosi agli avvenimenti del mondo. Alla vostra stupida onnipotenza non chiedo che il rispetto della mia solitudine e dei miei tormenti. Non so che farmene delle vostre parole; e temo la follia che me le farebbe ascoltare. Dispensatemi il miracoloso raccoglimento che precedette il primo istante, la pace che voi non poteste tollerare e che vi spinse ad aprire una breccia nel nulla per allestirvi questa fiera del tempo, e per condannarmi così all’universo, - all’umiliazione e alla vergogna di essere». [41]
Questa preghiera, «posteriore a Dio ed alla fede»[42], corrisponde ad un inabissamento nella «noche oscura» dell’anima, in cui si sperimenta sino in fondo il senso vertiginoso del negativo che, come un vortice, risucchia nel suo gorgo ogni parvenza d’essere. Per il mistico, ad ogni modo, il «Tutto è niente» non è che il preludio all’assorbimento estatico nel Tutto che, di lì a poco, diverrà miracolosamente esistente. Avendo condiviso della mistica cristiana solo la pars destruens, a Cioran sarà sempre precluso il salto verso l’annientamento illuminante[43], in cui la tenebra si fa improvvisamente luce. Folgorato dal Nulla, il suo cammino spirituale si arenerà alle soglie dell’Assoluto. Sebbene conservi intatta la propria ammirazione per i vari Eckhart, Silesius, Böhme, De la Cruz, il disinganno lo allontanerà a poco a poco anche dai mistici d’Occidente, per traghettare la propria inquietudine verso altri lidi.
Alle correnti più avanzate della mistica cristiana Cioran rimprovera, in ultima analisi, di conservare ancora le tracce d’un Dio personale, d’un Dio padre, la cui figura è fragorosamente smentita dalla realtà. L’impotenza retorica d’un tale ideale, balzò agli occhi di Cioran durante la lettura di un’omelia, in occasione d’una cerimonia funebre. Fu allora che gli ritornarono alla mente le parole di Renan: «Noi viviamo del profumo d’un vaso vuoto»;vale a dire che il cristianesimo non corrisponde più a niente [44].
Disgustato dal mondo e annoiato da Dio stesso, Cioran vagheggia la costituzione di conventi ideali, dove rimuginare le proprie perplessità e seppellirvi le amarezze,
«altrettanto espropriati, altrettanto vuoti delle nostre anime, per perdervisi senza l’assistenza dei cieli, in una purezza di ideali assenti, dei chiostri fatti su misura per angeli disingannati che, nella loro caduta, a forza di illusioni vinte, rimarrebbero ancora immacolati. Aspirare ad una moda di ritiri verso un’eternità senza fede, una presa d’abito nel nulla, un Ordine affrancato dai misteri, e in cui alcun «fratello» avesse qualcosa da reclamare, disdegnando la propria come l’altrui salvezza, un Ordine dell’impossibile salvezza…»[45]
Forse quell’eremo spoglio e disadorno Cioran l’aveva trovato nella minuscola mansarda al quinto piano di rue de l’Odeon, dove, nel silenzio monacale delle sue veglie notturne, affilava i suoi acuminati aforismi – «preghiere degenerate in massime», «brandelli di teologia…Nichilismo da figlio di prete» [46].
Pur riconoscendo, alla fine d’una vita, di esser stato «divorato dalla nostalgia del paradiso, senza aver conosciuto un solo accesso di fede autentica»[47], il suo percorso, apparentemente senza sbocco, non appare vano. Ripercorrendo le sue ruminazioni sulla condizione umana di fronte al divino, qualcosa di essenziale alla fine sembra emergere, una sorta di terza via, al di là delle logore categorie del teismo e dell’ateismo, in cui forse l’umanità a venire potrà ritrovarsi. Coagulata in una meditazione che più di ogni altra ha il sapore d’un testamento, quella di Cioran si rivela una delle più alte riflessioni sul tema, in grado di aprire scenari insperati sul futuro della religione.
«Non vorrei vivere in un mondo svuotato d’ogni sentimento religioso. Non penso alla fede, ma a quella vibrazione interiore, che, indipendente da qualsivoglia credenza, vi proietta in Dio, e qualche volta al di sopra».[48]
Massimo Carloni
(n. 2, febbraio 2012, anno II)
* La versione francese Ni pour Dieu, ni contre Dieu: un mystique qui ne croit à rien è pubblicata in Approches critiques (XI), Cahiers Emil Cioran, Textes réunis par Eugène Van Itterbeek, Editura Universităţii «Lucian Blaga», Sibiu, Éditions Les Sept Dormants, Leuven, 2010, pp. 155-178.
NOTE
1. Emil Cioran, Le Crépuscule des pensées, in Œuvres, Paris, Gallimard, coll. «Quarto», 1995, p. 442. Tutti i riferimenti alle opere di Cioran sono tratti dall’edizione Œuvres, salvo dove diversamente riportato. Tutte le traduzioni dal francese sono dell’Autore.
2.E. M. Cioran, Aveux et anathemes, p. 1724.
3. Intervista con Gabriel Liiceanu, Les continents de l’insomnie, in Gabriel Liiceanu, Itinéraires d’una vie: E.M. Cioran, Éditions Michalon, Paris 1995, p. 129.
4. E. M. Cioran, Mircea Eliade, in Exercices d’admiration, p. 1591.
5.Ibidem. In De l’inconvénient d’être né, p. 1315, ribadisce: “Non è affatto facile parlare di Dio quando non si è né credenti né atei: ed è senza dubbio il dramma di noi tutti, teologi compresi, di non poter essere più né l’uno né l’altro.”
6. Cioran rievocherà l’episodio, sottolineando l’accanimento demoniaco sciorinato nell’occasione, assolutamente crudele e ingiustificato con il senno di poi. Forse, nella scelta del fratello vedeva una proiezione di sé, il suo côté mystique con il quale coabiterà per tutta la vita. “In seguito, mi sono sentito in un certo senso responsabile del destino di mio fratello, che fu tragico” Cit. in Les continents de l’insomnie, p. 132. Aurel Cioran infatti subirà una detenzione carceraria sotto il regime comunista di Ceausescu.
7. “Non è certo un segno di benedizione essere stato ossessionato dall’esistenza dei santi. Si mescola in questa ossessione un gusto di malattie e un’avidità di depravazione. Non ci si inquieta per la santità se non si è delusi dai paradossi terrestri; se ne cercano altri, d’un tenore più bizzarro, imbevuti di profumi e di verità ignote;si spera in follie introvabili nei fremiti quotidiani, in follie cariche di esotismo celeste…” cit. in E. M. Cioran, Précis de décomposition, p. 693.
8. Ibid, pp. 693-694.
9. E. M. Cioran, Syllogismes de l’amertume, p. 786.
10. Cit. in Constantin Tacou, Eliade, Cioran: vies parallèles, in Magazine littéraire n. 324, 1994, p. 43.
11. Entretiens avec Léo Gillet, in Cioran, Entretiens, Paris, Gallimard coll. Arcades, 1995, p. 89.
12. Emil Cioran, Des larmes et des saints, pp. 292. Ancora più avanti: “L’ossessione divina espelle l’amore terrestre. Non si può amare appassionatamente una donna e Dio allo stesso tempo. La mescolanza di due erotiche irriducibili crea un’oscillazione interminabile. Una donna può salvarci da Dio, come del resto Dio può salvarci da tutte le donne.”Ivi, p.312.
13. Précis de décomposition, pp. 695-696.
14. Ludwig Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, Ponte alle Grazie, Firenze 1994, p. 87.
15. Précis de décomposition,p.697. A proposito del piacere raggiunto nei momenti d’estasi, Angela da Foligno parla di “un vizio che non osa nominare” al quale cerca rimedio attraverso applicazioni di carboni ardenti sulla vagina.
16. E. M. Cioran, La tentation d’exister, p. 922.
17. Des larmes et des saints, pp. 306.
18. Friedrich Nietzsche, L’Anticristo, in Opere 1882 – 1895, Newton Compton, p. 794.
19. Précis de décomposition, pp. 700.
20. Ivi, pp. 694.
21. Précis de décomposition, pp. 698-699.
22. Ibid, p. 659.
23. Ibid, p. 703
24. L’espressione radix stultitiae è usata nella prima metà del 400 d.C. da Rutilio Namaziano nei confronti dell’Ebraismo, quale ceppo d’origine del Cristianesimo, stoltezza par excellence. Autore di De reditu suo, ultimo capolavoro poetico della latinità, Rutilio Namaziano, d’origine gallica, dopo un’onorata carriera nell’amministrazione prefettizia a Roma, incalzato dalle invasioni visigote e vandale, decide di ritornare a Tolosa. Il resoconto di questo viaggio tormentato è pervaso dal rimpianto per una civiltà al tramonto, che portò legge e cultura tra le popolazioni di mezza Europa, trasformando orde selvagge in onesti cittadini. Attraversando il paese in rovina, i suoi occhi assistono impotenti all’agonia di un impero strangolato da due flagelli ugualmente terribili, uno lo minaccia dall’esterno, l’altro lo erode dall’interno: i barbari e il cristianesimo. Il primo distrugge le istituzioni politiche ed amministrative, mette a ferro e fuoco le città e devasta le campagne; il secondo, pervertendo i desideri naturali del corpo, imputridisce le anime, inebetendole a suon di superstizioni.
25. La tentation d’exister, p. 930.
26. Ivi, p. 928
27. Bréviaire des vaincus, p. 525.
28. Ivi, pp. 931-932.
29. La tentation d’exister, p. 916.
30. Il termine greco aphairesis, proprio della teologia negativa, indica il toglier via l’accidentale e l’accessorio che è tipico dello scultore di statue.
31. E. M. Cioran, Contro l’immagine, in Fascinazione della cenere Scritti sparsi (1954-1991), il notes magico, a cura e trad. di Mario Andrea Rigoni, p. 66. In Lacrime e santi aveva già scritto: “Nessuno quanto Meister Eckhart ha spinto tanto lontano il desiderio di annientare i propri istinti di creatura. La sua in aderenza totale alla creazione lo conduce a quell’Abgeschiedenheit, a quel distacco, condizione primaria dell’approssimarsi a Dio. Tra vita ed eternità, egli sacrifica senza esitare la prima, verificando in teoria ed in pratica la disparità dolorosa di questi due termini.” Cit. p. 322.
32. Cit.. in Marco Vannini, Mistica e filosofia, p. 45. Nello stesso sermone Surrexit autem Saulus, rievocando Agostino Eckhart scrive: “Quando Paolo vide il nulla, allora vide Dio.”.
33. Vedi sermone Beati pauperes spiritu.
34. Cioran, Contro l’immagine, pp. 67-68.
35. Cioran, Des larmes et des saints, p. 295. Cinquant’ anni dopo in Aveux et anathèmes, Cioran ritornerà sull’argomento, precisando: “Nella mitologia vedica chiunque si eleva attraverso la conoscenza scuote il conforto del cielo. Gli dei, sempre in allerta, vivono nel terrore d’essere surclassati. Il Padrone della Genesi faceva altro? Non spiava forse l’uomo proprio perché lo temeva? Poiché vedeva in lui un concorrente? In queste condizioni, si comprende il desiderio dei grandi mistici di fuggire Dio, i suoi limiti e le sue miserie, per eternizzarsi nella Deità”, Op.cit. p. 1675.
36. I rimandi, ovviamente, sono al mistico Angelus Silesius e alla sua “rosa senza perché”, e all’immensa lirica Psalm o Die Niemandrose di Paul Celan, illustre poeta e primo traduttore in tedesco del Précis di Cioran: “ Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango,/Nessuno insuffla la vita alla nostra polvere./Nessuno./Che tu sia lodato, Nessuno. /È per amor tuo che vogliamo fiorire./Incontro a te. / Noi un Nulla fummo,/siamo, resteremo fiorendo:/la rosa del Nulla,/la rosa di Nessuno”. Cit. in Paul Celan, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, A. Mondatori, Milano 1998.
37. Cioran, Caillois, in Exercices d’admiration, p. 1595.
38. Cahiers, p. 159.
39. Précis de décomposition, p. 657.
40. Ivi, p. 660.
41. Ibidem.
42. Le mauvais démiurge, p. 1259.
43. Caillois, in Exercices d’admiration, p. 1595.
44. Cahiers, p. 750. Il ricordo di Cioran si scosta di poco dal testo autentico di Renan: “Noi viviamo dell’ombra di un profumo di un vaso vuoto; dopo di noi, si vivrà dell’ombra di un’ombra…” Réponse de M. Ernest Renan au discours de M. Victor Cherbuliez à l’Académie française, le 25 mai 1882, in http://www.academie-francaise.fr/immortels/discours_reponses/renan2.html
45. Précis de décomposition, p. 722.
46. Cahiers, p. 487.
47. Aveux et anathèmes, p. 1724.
48. Cioran, Écartèlement, p. 1448 .
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