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L’intuizionismo nella filosofia romena: l’esperienzialismo mistico di Nae Ionescu (II)
Nae Ionescu (1890-1940) è stato l’iniziatore e il principale esponente del cosiddetto trăirism (esperienzialismo), una sintesi originale di alcuni degli sviluppi più significativi del pensiero occidentale del tempo, al cui centro sta l’idea che la filosofia sia un «atto vitale» diretto a realizzare un equilibrio tra il soggetto e la realtà. Dopo aver introdotto l’esperienzialismo ioneschiano nei suoi caratteri generali [1], nella seconda parte del presente articolo si prenderà in esame il rapporto costitutivo tra metafisica, esperienza vissuta e intuizione.
Metafisica e intuizione
Alla base della ricerca metafisica Nae Ionescu riconosce il tentativo di stabilire un equilibrio spirituale tra sé e la realtà esterna, di risolvere il conflitto tra io e mondo, riconducendo a unità tale dualismo attraverso il riconoscimento della posizione che l’io occupa all’interno del tutto. La metafisica individua non tanto una disciplina quanto piuttosto una via di conoscenza, volta a superare la condizione limitata in cui l’uomo è relegato in vista di una «realizzazione umana più piena e senza falla» (Ionescu 2020, p. 403). Per questo il pensatore romeno può ricondurre all’ambito della metafisica una varietà di tecniche di trascendenza che valicano ampiamente i limiti entro i quali la filosofia occidentale ha confinato tale esperienza. Accanto alla speculazione metafisica tradizionale, classica e medievale, è dato riconoscere, infatti, una tensione metafisica “primitiva” e pre-razionalista, che si è storicamente tradotta nelle pratiche dello spiritismo e dello sciamanismo. Oltre alla tradizione occidentale vi è poi la tradizione indiana, dove le tecniche di trascendimento o di annullamento del sé sono affidate spesso alla disciplina yoga, e quella persiana, nella quale l’istanza metafisica prende il corpo delle dottrine sufi. A varie latitudini, e nei più diversi contesti culturali, l’uomo ha da sempre avvertito l’esigenza di oltrepassare il mondo sensibile, il mondo attuale, per accedere alla dimensione delle essenze, il mondo virtuale.
Ionescu recupera dunque la concezione tradizionale di filosofia, intesa come un sapere soteriologico, e identifica il processo di reintegrazione dell’uomo nel tutto con termini connotati perlopiù da una forte coloritura religiosa (mântuire, ovvero “redenzione”, “salvezza”). Per esempio, il corso di metafisica tenuto nel semestre invernale 1925-1926 è espressamente dedicato al problema della salvezza nel Faust di Goethe. Faust offre la personificazione dell’uomo metafisico, dell’uomo cioè che si sforza di realizzare «l’unità della sua vita con quella del cosmo» (Ionescu 2020, p. 404). Nella vicenda di Faust è dato cogliere pertanto una allegoria della condizione umana, in cui il disequilibrio e il male (Mefistofele) rappresentano lo stimolo in virtù del quale l’uomo può tendere al bene, aspirando a migliorare sé stesso. Faust esprime le diverse attitudini dello spirito metafisico in una continua oscillazione tra polarità opposte: l’attivismo, la possibilità di redenzione attraverso l’azione, racchiusa nello spirito dell’Erdgeist, e l’atteggiamento contemplativo, raffigurato dal simbolo magico del macrocosmo, colto nella sua duplice accezione: conoscitiva ed esperienziale [2].
A Faust si contrappone il suo attendente Wagner, incarnazione dello scienziato moderno, che padroneggia con successo il metodo, riuscendo infine a produrre l’homunculus, ma non è in grado di andare oltre la superficie delle cose. Sotto il profilo epistemologico, infatti, la metafisica si contrappone alla scienza, dal momento che mentre il procedimento induttivo su cui il sapere scientifico si fonda manca di precisione e di necessità, in quanto «il suo criterio di validità consiste nel verificare non la struttura dell’oggetto stesso, bensì il modo in cui l’oggetto si comporta» (Opere II, p. 38), la metafisica consiste in una «esperienza della realtà» che di questa non si limita a studiare il funzionamento ma ne coglie l’essenza. La scienza ha carattere descrittivo e non esplicativo, laddove invece la metafisica conosce la realtà nella sua assolutezza, giacché della realtà essa penetra il principio: l’idea. Mentre la conoscenza scientifica procede, induttivamente, dall’esterno verso l’interno, raccogliendo una molteplicità di casi empirici che presentano tra loro una certa analogia sotto un’unica legge generale, la metafisica procede «dall’interno all’esterno», cogliendo immediatamente il principio generativo di ogni accadimento, la sua legge interna, che si colloca al di fuori dello spazio e del tempo.
La metafisica presuppone un atto noetico, l’intuizione, che consiste nell’«esperire non la semplice realtà, ma le sorgenti di questa» (Opere II, p. 43), il suo punto di scaturigine. Nel secondo monologo del Faust, Goethe rende esplicita la differenza tra conoscenza ed esperienza, ed è in questa sede che il filosofo romeno ha modo di precisare lo statuto metafisico dell’intuizione. Nella prima parte Faust si presenta come colui che, creato a immagine di Dio, era giunto a scrutare nello specchio della verità eterna e assoluta; nella seconda, parla di sé come di qualcuno che è più di un cherubino, e che ha osato misurarsi con i poteri creativi della divinità. Ionescu approfondisce il riferimento all’angelologia e i diversi gradi della gerarchia in cui le essenze celesti sono ordinate: angeli, arcangeli, cherubini e serafini [3]. Gli arcangeli guardano ma non comprendono, contemplano Dio, vivono in lui, ma non riescono a penetrarne il mistero. I cherubini, al contrario, hanno «la possibilità della conoscenza intuitiva», «direttamente intuitiva» in virtù della quale «conosco nel momento stesso in cui vivo». I serafini, gerarchicamente sovraordinati ai cherubini, sperimentano poi qualcosa di ancora diverso dalla mera conoscenza: l’esperienza diretta (trăire directă) di Dio. Il serafino «fa parte integrante della divinità, crea nello stesso momento in cui conosce e conosce nello stesso momento in cui crea» (Ionescu 2020, pp. 392-393). È questo il supremo grado della conoscenza, il grado della conoscenza creatrice.
Conoscenza logica ed esperienza
Esperire e conoscere stanno a indicare due prassi gnoseologiche differenziate, di cui intuizione e concetto rappresentano rispettivamente gli strumenti deputati. «Con la logica conosco, con l’intuizione esperisco» (Opere II, p. 77). Nell’ambito del Corso di metafisica (1928-1929) Ionescu inquadra la struttura e il funzionamento dell’intuizione alla luce della distinzione tra conoscenza (cunoaștere) e comprensione (înțelegere). La conoscenza si ottiene attraverso un’operazione di definizione, comparazione o di opposizione. Come tale essa è sempre approssimativa e relativa. La comprensione differisce dalla conoscenza in quanto essa consiste nell’esperienza dell’evento, vissuto dal di dentro. La comprensione implica anche «la possibilità di ricostruire» l’idea, ricreandola in sé. «La comprensione, di conseguenza, ha molti più punti di contatto con l’intuizione; la ragione non ha punti di contatto con l’intuizione» (Opere II, p. 60).
Dietro la contrapposizione tra conoscenza e comprensione, ragione e intuizione, il filosofo romeno riconosce due atteggiamenti antitetici nei confronti della realtà: quello cristiano orientale e quello cristiano occidentale. Se per il cristiano orientale l’universo è un’esistenza di cui fa esperienza, per l’occidentale l’universo è un’esistenza di cui ha conoscenza. Nell’occidente cattolico e protestante la forma privilegiata di sapere e valorizzazione dell’esistenza è di tipo logico-concettuale e si esprime attraverso il giudizio predicativo il quale, in virtù della copula (è), scompone l’oggetto, la realtà, che è in sé una e indivisibile, rendendola così suscettibile di essere manipolata. Mentre in oriente prevale l’atteggiamento contemplativo, in occidente, la ragione sussume la realtà sotto concetti, dispiegando in questo modo la propria volontà di dominio sul mondo, volontà di dominio che raggiunge il proprio apice nello scientismo.
«L’esperienzialismo, al contrario, è una forma di intuizionismo avulso da qualsiasi attività predicativa dell’intelletto. La comprensione autentica della realtà è il frutto di una intuizione, che realizza l’unità, la fusione di soggetto e oggetto, annullando la distanza che li separa. Nell’ambito di questa gnoseologia “mistica”, l’amore si accredita, al di sopra del concetto, come uno strumento privilegiato di conoscenza». (Ionescu 2020, p. 54)
La comprensione si attua, dunque, socraticamente, come un parto della soggettività, la quale è chiamata a generare nel proprio ordine spirituale, di modo che, quand’anche le stesse idee fossero state pensate o scoperte prima da un altro, si tratterebbe comunque di armonizzarle col proprio pensiero, disponendole in un ordine naturale, come fiori sbocciati da una pianta di cui ci si sia presi a lungo cura e non come fiori posticci, o magari finti, che aggiungiamo a essa dall’esterno (Ionescu 2020, p. 319).
«Un’idea […] è mia, nel momento in cui l’ho compresa; cioè, nel momento in cui l’ho inserita perfettamente nel mio sistema di conoscenza, di valorizzazione dell’esistenza, che fa parte integrante di me stesso. Ma perché l’idea di un altro diventi parte integrante di me, deve essere sottoposta a un processo di elaborazione a tal punto lungo che in verità non resta quasi nulla di quello che questa idea significava in testa a colui che l’ha avuta la prima volta». (Opere II, p. 59)
L’anti-intellettualismo ioneschiano trova la propria giustificazione nel riconoscimento di una differenza sostanziale tra ragione ed esperienza e nell’affermazione del primato gnoseologico dell’intuizione sul concetto. Concetto e intuizione appaiono come due dispositivi conoscitivi alternativi riconducibili ad altrettanti approcci epistemologici:
«da una parte quanti affermano che vi sia la possibilità di fare esperienza dell’esistenza che oltrepassa l’individuo e dall’altra quanti ritengono che questa possibilità di prendere contatto con ciò che è fuori di me non possa avvenire se non attraverso la conoscenza – intendendo per conoscenza, la conoscenza logica, la conoscenza concettuale […]. Da una parte, il metodo esperienziale della realtà, il nostro superamento sulla linea dell’esperienza; dall’altra il problema della conoscenza, cioè del nostro superamento mediante l’incorporazione della realtà esistente fuori di noi, entro un determinato sistema concettuale».
In un caso si tratta di collocarsi alla sorgente dell’esistenza, nell’altro di rispecchiare l’esistenza nella coscienza. L’esperienzialismo segue la via ek-statica del trascendimento di sé per andare incontro alla realtà, la conoscenza logico-concettuale corrisponde invece a una sorta di immanentismo gnoseologico, che si esplica attraverso l’assimilazione della realtà esterna da parte del soggetto, sotto forma di concetti e schemi.
Nel Corso di storia della logica (1934-1935) Ionescu mostra come intuizione e ragionamento costituiscano due modalità conoscitive irriducibili ma pur sempre complementari l’una all’altra: «il ragionamento comunica in forma mediata, cioè attraverso una concatenazione di giudizi, una verità immediata, cioè un’intuizione» (Opere IV, p. 277). Attraverso un serrato confronto con la logica di Pascal, il pensatore di Brăila rileva che alla base di ogni ragionamento sta un originario «vedere» da cui dipendono le conclusioni, vere o false, a cui il ragionamento meccanicamente conduce. «In un ragionamento, il momento dell’intuire, del vedere, è fondamentalmente costitutivo» (Opere IV, p. 281). Il ragionamento appare dunque come la struttura logica del filosofare, la sua componente tecnica o formale: un procedimento impersonale e astratto, in quanto prescinde dal dato di realtà, che si rende accessibile unicamente in virtù di una intuizione, e dal soggetto che lo esperisce attraverso questo stesso intuire.
«Anche un uomo puro di cuore può compiere il male! I motivi per i quali si è deciso possono anche essere puri, tuttavia, compie il male. Non ha ragione Pascal. Perché si è sbagliato? Ha sbagliato il ragionamento? No. Non ha visto bene. Quando ha detto: vere più non vere, allora ha visto bene. Quando afferma: mi decido al male per un motivo, perciò anche il motivo è male – qui non ha visto bene. Non c’è alcun motivo razionale perché tu ti decida per l’uno o per l’altro. Vede bene, non vede bene. Se guardi la parete e dici che è verde, non hai visto bene». (Opere IV, 281)
Il «vedere» sta a indicare «l’intuire una realtà esistente» (Opere IV, 281). Tuttavia, l’intuizione, a partire dalla quale il filosofo valorizza e interpreta l’esistenza avrà cogenza per lui soltanto e per nessun altro. Nell’esempio citato, ciò autorizza Ionescu a smentire Pascal, accusandolo di non aver «visto bene». Il confronto dialettico tra approcci filosofici opposti non può che limitarsi, da ultimo, alla reciproca contestazione delle premesse su cui i rispettivi sistemi si fondano. L’intuizione si presenta perciò come una scelta assiomatica irriducibile, che rende ragione della molteplicità e della diametrale diversità dei sistemi filosofici in contesa tra loro.
Intuizione e misticismo
Come si è detto, l’intuizione rappresenta lo strumento privilegiato della conoscenza metafisica, di quella conoscenza cioè che penetra la realtà, comprendendone il principio che si cela dietro le sue apparenze mutevoli. In continuità con la tradizione platonico-aristotelica, Ionescu pensa l’intuizione come la forma immediata e suprema del sapere, in quanto capace di cogliere la realtà nella sua essenza puramente intelligibile. Come in Platone la dianoia, la ragione discorsiva, è propedeutica alla noesis, l’intuizione immediata, e il sapere logico-dialettico (matematica) è gerarchicamente subordinato alla filosofia; come in Aristotele il sillogismo non conduce alla verità, appresa in virtù di una intuizione intellettuale, ma da essa procede per via dimostrativa, così Ionescu riconosce il primato gnoseologico dell’intuizione sul ragionamento.
Al di là della loro eterogeneità qualitativa tra ragionamento e intuizione vi è comunque una correlazione, che contempla diverse proporzioni tra i due aspetti, per quanto un puro ragionare, inteso come semplice concatenazione meccanica di proposizioni, non possa mai darsi. «Può esistere un ragionamento senza traccia di meccanismo. Non può mai esserci ragionamento senza traccia di intuizione» (Opere IV, p. 282).
La diversa misura con la quale ragionamento e intuizione si combinano tra loro concorre a individuare in tutto tre tipologie teoretiche: due forme pure, rispettivamente la raziocinante pura e l’intuitiva pura, e una forma ibrida, in cui nel processo raziocinativo «si infiltrano determinati momenti di natura mistico-intuitiva, esperienziale» (Opere II, p. 85). È questo il caso di Descartes, che incarna un tipo «misto», laddove invece Pascal individuerebbe il tipo mistico e Spinoza il paradigma logico. «Il tipo misto, indica, perciò, un tipo in cui la conoscenza evidente tramite concetti e la trasmissione della conoscenza evidente, per mezzo di ragionamenti, si intersecano e facendo appello all’intuizione mistica» (Opere II, p. 86).
Occorre a questo punto esplicitare il nesso tra intuizione ed esperienza mistica, accreditato nelle righe appena citate in virtù della torsione semantica che Ionescu imprime al termine «intuitivo», facendo di esso un diretto sinonimo di «mistico». L’esperienza diretta di cui l’intuizione è veicolo non si consuma nel puro «vedere», ma è preceduta e sorretta da un vissuto emotivo [trăirea emoțională] che accompagna il processo di transizione dall’ignoranza alla conoscenza. Tale esperienza di confine è l’amore, di cui Ionescu non esita ad affermare la primordialità nel processo conoscitivo, in ossequio a una tradizione facente capo ad Agostino, ma a cui appartengono, tra gli altri, anche Nicola Cusano e Vinzenz von Aggsbach, i quali, contraddicendo la lezione tomista secondo cui l’atto di intellezione è anteposto a quello di volontà, ritengono che l’amore preceda la conoscenza e la renda possibile.
Ionescu studia dunque il misticismo come una via di conoscenza metafisica ed esperienziale, che persegue, tramite l’amore, l’identificazione del soggetto con l’oggetto. «Questa identificazione è, al tempo stesso, un esperire, transformatio amoris, esperienza vissuta dell’oggetto che sta dinnanzi a me» (Opere II, p. 96). La mistica non è perciò conoscenza astratta, ma esperienza vissuta della realtà, cioè «conoscenza mediante l’esperienza vissuta» (Opere II, p. 112). In questo senso, Ionescu può affermare che l’esperienza mistica non è un’attività teoretica, bensì pratica, in cui il soggetto passa dal sapere all’essere, si assimila alla realtà intuita, formando con essa un tutt’uno, per cui lo sguardo con cui egli penetra la realtà (il latino «intuire», composto di «in» e «tueor», significa appunto «guardar dentro, penetrare con lo sguardo») è la stessa realtà che contempla se stessa.
Nell’ambito della prolusione inaugurale sulla funzione epistemologica dell’amore, vengono esaminate la tradizione metafisica indiana, quella greca e infine quella cristiana, riconoscendo, seppur con notevoli differenze, alla base di ciascuna di esse l’amore come movente della conoscenza umana e principium agens nel processo il cui fine è l’integrazione dell’uomo nel tutto. Sulla scorta della lezione platonica, il Nostro definisce l’amore come «la tendenza a passare da una conoscenza relativa a una assoluta» (Ionescu 2020, p. 420), «da uno stadio di conoscenza imperfetto a uno perfetto» (Ionescu 2020, p. 421), e, in continuità con una tradizione che risale al platonismo e torna in auge nella filosofia del Rinascimento (Ficino e Bruno), riconosce in esso una forza capace di condurre l’uomo a riconciliarsi con la realtà attraverso una dialettica estatica e unitiva.
Resta vero il fatto che sebbene l’esperienza diretta della realtà sia un metodo irrazionale di conoscenza, i risultati a cui il soggetto giunge tramite l’intuizione debbono, per essere condivisi con gli altri, trovare espressione nel linguaggio ordinario, il quale si articola in base a strutture logico-concettuali. Con ciò non significa però che il linguaggio possa esaurire in sé il contenuto dell’esperienza, che resta accessibile unicamente per via diretta. È questo il caso, in particolare, ma non solo, dell’esperienza religiosa, dove il tentativo di definire positivamente gli attributi di Dio, l’oggetto proprio dell’atto religioso, deve fare i conti con il carattere indeterminato del linguaggio, il quale «non esprime propriamente, direttamente, ma esprime per analogia» (Ionescu 2020, p. 256). Il contenuto dell’intuizione non si lascia tradurre se non in una forma allusiva e simbolica. Il linguaggio, e così anche il ragionamento, può soltanto accompagnarci sulla soglia dell’esperienza, mai potrà sostituirsi a essa, il comprendere non potendo significare altro che vivere originariamente in sé, di fatto creandola ex novo, l’esperienza di cui gli altri sono tutt’al più muti testimoni. Sotto questo riguardo Ionescu ricorda Kierkegaard, il quale usava parlare di comunicazione indiretta della verità, giacché la verità, quando per verità si intenda quella esistenziale e non quella logico-nozionale, consiste nell’appropriazione che il soggetto fa di essa, e dunque non può essere oggetto di un apprendimento meccanico, ma esige di essere rivissuta in prima persona da ogni singolo individuo. Il più alto insegnamento che un uomo possa ricevere da un altro consiste in fondo nello stimolo a coltivare il proprio personale rapporto con la verità.
Igor Tavilla
(n. 11, novembre 2021, anno XI)
L’intuizionismo nella filosofia romena: l’esperienzialismo mistico di Nae Ionescu (I)
Avvertenza: i riferimenti bibliografici estesi saranno inclusi in calce alla terza parte (dicembre 2021) del presente articolo.
NOTE
[1] Si rimanda al contributo apparso nel n. 10 ottobre 2021, anno XI di questa stessa rivista (http://www.orizzonticulturali.it/it_studi_Igor-Tavilla-3.html).
[2] Si veda a tale proposito Mihai 2011a.
[3]Cfr. De coelesti hierarchia, VI, 2.
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