L’intuizionismo nella filosofia romena: l’esperienzialismo mistico di Nae Ionescu

Nae Ionescu (Brăila 1890 – Bucarest 1940) è unanimemente riconosciuto il mentore della «giovane generazione» interbellica romena, che annovera intellettuali di vaglia quali Mircea Eliade, Emil Cioran, Constantin Noica, Mihail Sebastian, Mircea Vulcănescu. Allievo dello psicologo sperimentale Constantin Rădulescu-Motru (discepolo di Wilhelm Wundt e teorico del personalismo energetico), Ionescu frequenta a Gottinga i corsi di Felix Klein e David Hilbert, e tra l’autunno 1913 e l’inizio del 1914 il corso di teoria della conoscenza tenuto da Edmund Husserl. Consegue il dottorato di ricerca in filosofia presso l’Università di Monaco, discutendo una tesi su «La logistica come tentativo di una nuova fondazione della matematica» sotto la guida di Clemens Baeumker, professore di metafisica ed esperto conoscitore del pensiero patristico e scolastico. Alla fine della prima guerra mondiale, rientra in patria, dove inizia a collaborare con le riviste «Studii filosofice», organo della società filosofica romena, e «Ideea europeană», entrambe dirette da Rădulescu-Motru, e su interessamento dello stesso Rădulescu-Motru ottiene di diventare dapprima assistente e poi lettore presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bucarest. Nell’autunno 1919 inaugura la propria attività di docenza con una prolusione dal titolo Eρος σωτήρ. La funzione epistemologica dell’amore. Da questo momento, terrà regolarmente seminari e corsi di logica, psicologia, teoria della conoscenza e metafisica, parte dei quali verranno pubblicati postumi da alcuni ex-allievi. Nel 1925 supera l’esame di docenza e diviene conferențiar (carica accademica equivalente a quella del maître de conférence francese) confermato in storia della logica e metafisica. A causa dei contrasti con il suo mentore Rădulescu-Motru, consegue il titolo di professore associato [profesor agregat] in metafisica e storia della logica soltanto nel dicembre 1937. All’attività didattica affianca, a partire dalla metà degli anni Venti, una intensa attività giornalistica in ambito teologico, culturale e politico divenendo una delle personalità di spicco della scena pubblica romena tra le due guerre mondiali. Fautore di una concezione organicista e autoctonista dello Stato, sconterà con il carcere la sua opposizione a Carol II e – a partire dall’autunno del 1933 – l’endorsement alla Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu. In seguito all’instaurazione della dittatura regia nel febbraio del 1938 viene sospeso dall’attività didattica e trasferito nel campo di concentramento di Miercurea Ciuc (Transilvania orientale). Muore d’infarto nel 1940 dopo essere stato rimesso in libertà in ragione delle sue cagionevoli condizioni di salute [1].


Il
trăirism

Nae Ionescu viene considerato l’iniziatore e il principale esponente del trăirism, una corrente di pensiero, affermatasi in Romania tra le due guerre mondiali, nella quale confluiscono alcuni esiti della filosofia occidentale contemporanea, tra cui la fenomenologia di Husserl, il vitalismo nietzscheano, la Lebensphilosophie diltheyana (a partire dal concetto di Erleibnis, di cui il romeno trăire è l’equivalente), l’esistenzialismo e la filosofia dei valori di Max Scheler, dando però forma a una sintesi originale, caratterizzata da una forte connotazione mistico-religiosa [2]. L’importanza storica del trăirism risiede soprattutto nell’aver aperto le aule dell’università di Bucarest allo «spirito del tempo», svecchiando il panorama accademico romeno, ancora legato a filosofie, quella neo-kantiana e positivista, in voga dalla fine del secolo precedente e la cui egemonia cominciava allora a essere messa in discussione [3].
La tesi di fondo dell’esperienzialismo ioneschiano – tesi che fa la sua comparsa fin dalla prolusione inaugurale su La funzione epistemologica dell’amore (1919), e a cui il filosofo si mantenne fedele per tutta la durata del suo mandato di docenza (nell’ambito dei corsi di logica, di teoria della conoscenza, di metafisica e filosofia della religione) – è che la filosofia sia un atto vitale, che nasce da un’esigenza interiore, da un’inquietudine connaturata alla condizione umana. Ionescu parla di una rottura di equilibrio tra io e mondo esterno, di una lotta permanente in cui il soggetto cerca di pervenire a una visione d’insieme dell’universo, a una comprensione totale e armonica dell’esistenza. Nei primi anni Trenta, la soluzione di tale conflitto sembra imporre un’evasione dall’esistenza sensibile e contingente verso un’altra dimensione: il mondo delle essenze, delle forme, del generale. Il filosofo romeno ritiene che il passaggio dal dominio dell’attuale a quello del virtuale avvenga innanzitutto in forza del principio di causalità metafisica, per il quale tutto ciò che esiste è un simbolo del principio a cui deve la propria esistenza giacché tra causa ed effetto esiste una relazione organica come tra padre e figlio o tra l’artefice e la propria opera. [4].
Lungi dall’essere dunque un sapere anonimo, oggettivo e univoco, la filosofia esprime al contrario un punto di vista strettamente personale e soggettivo, prospettico.

La filosofia ovvero il filosofare è un atto vitale, un atto di esperienza […] fare filosofia significa ridurre la realtà sensibile alle necessità della tua personalità, per come questa è formata, bhene o male […] deformare la realtà sensibile e cercare di accordarla con te stesso, proiettare la tua struttura spirituale sull’intero cosmo (Opere, II, p. 14) [5].

Nel corso di metafisica 1929-1930, Ionescu spiega come questa condizione di disequilibrio sia una prerogativa esclusiva dell’uomo, in termini che ricordano la coeva riflessione degli esistenzialisti:

[saremmo ancorati al mondo] se noi fossimo riconciliati con noi stessi, se noi esistessimo alla stregua di una pietra, di un albero, di un cavallo o di un bue. Ma una pietra, un albero, un cavallo, un bue rappresentano forme di esistenza perfettamente equilibrate, poiché in nessun caso escono fuori da sé (a noi non è concessa questa felicità, di essere buoi, alberi, pietre). (Opere II, p. 171).

In ragione dunque della sua «posizionalità», la filosofia non può costituirsi in un corpo di dottrine date una volta per tutte.
«Non tutti giungiamo agli stessi risultati; questi dipendono dal coefficiente personale» (Opere II, p. 15), che conferisce alla conoscenza il carattere dell’unicità e della irripetibilità. L’esperienza infatti varia da soggetto a soggetto, poiché esperire e valorizzare sono un tutt’uno. Alla luce di queste premesse, il concetto di verità necessita di essere ripensato. Per verità non s’intende qui la semplice conformità tra idea e realtà (quella che il filosofo chiama la verità gnoseologica), bensì «lo stato di completo equilibrio tra l’individuo e la vita dell’universo», ovvero «la condizione in cui lo spirito ha trovato il proprio centro di gravità nell’universo» (Ionescu 2020, p. 76).
L’assolutezza del sapere filosofico rinvia al carattere totalizzante dell’esperienza vissuta, la quale non va soggetta a quei «filtri di riduzione» che conferiscono al sapere scientifico astrattezza e schematicità. Prendendo le distanze dal costruttivismo kantiano, Ionescu rileva infatti come la conoscenza scientifica non sia che «un riverbero parziale della totalità degli stimoli provenienti dal mondo esterno» dal momento che

i sensi non procurano solo il materiale che poi le funzioni categoriali devono organizzare e inserire in un certo luogo e in un certo ambito, i sensi avendo una funzione molto più importante di quella che avevano nella critica kantiana. I sensi sono precisamente i tentacoli per mezzo dei quali noi entriamo in contatto con la realtà, nei termini di una conoscenza discorsiva, e tratteniamo di questa realtà ciò che ci fa comodo (Ionescu 2020, pp. 209-210).

Conoscere implica la schematizzazione dell’esperienza sensibile in vista di scopi che non sono propriamente conoscitivi. Ogni volta che stabiliamo un rapporto di causalità, ad esempio, operiamo una «amputazione, un taglio, una mutilazione della realtà» isolando e selezionando «diversi elementi correlati o coesistenti» (Ionescu 2020, p. 211), per cui quel che chiamiamo «causa» ed «effetto» non sono altro che gli indici rappresentativi di due categorie di fatti tra le quali esiste una certa correlazione.
Al contrario, in filosofia, la realtà viene esperita dal soggetto mercé una intuizione immediata, che si sottrae a ogni condizionamento. Ciò spiega perché ogni filosofo abbia la presunzione di affermare il proprio metodo come l’unico valido nella storia del pensiero.

Non sorprende anche voi, in verità, che ogni filosofo inizia sempre con un metodo, affermando che il metodo fino a quel momento non era buono, e lui ne ha uno con cui procede a colpo sicuro, a occhi chiusi sul filo della filosofia. Anche Aristotele, e persino Socrate hanno avuto [ognuno] un tale metodo; anche Platone, e gli scolastici hanno metodi affini; e Cartesio ha un metodo, Galilei un altro; Bacone, Kant, Spinoza, Leibniz, tutti con i loro metodi! Significa che ogni sistema ha il suo metodo? Significa, semplicemente, che ogni grande personalità pensante ha un modo particolare di orientarsi nell’esistenza – questo e nulla più (Opere II, p. 14).

Qui risiede la principale differenza tra filosofia e scienza. Mentre la filosofia, pur avanzando una pretesa veritativa assoluta, non può oltrepassare i limiti della soggettività, la scienza si configura come un sapere intersoggettivamente valido ma pur sempre relativo.

La conoscenza filosofica è valida per un uomo, ma per sempre. la conoscenza scientifica vale per tutti, ma di volta in volta. La conoscenza scientifica ha, perciò, un valore oggettivo, ma non assoluto. La conoscenza filosofica ha un valore assoluto, ma è soggettiva (Opere III,p. 10).

La scienza è un sapere cumulativo, che accresce incessantemente il proprio patrimonio di conoscenze, mercé un progresso costante e lineare, nel corso del quale lo scienziato assume ogni volta come compito della propria ricerca le questioni che chi lo ha preceduto ha lasciato irrisolte. La filosofia, al contrario,

è un’attività individuale, non collettiva, come la scienza […], non è un sapere che si passa di mano in mano, dall’uno all’altro; è qualcosa che si crea dal principio: ciascuno di noi inizia l’opera di chiarificazione con sé stesso, quasi come se non fosse esistito nessun altro prima di lui. In filosofia, l’uomo è sempre solo, non ha collaboratori, non ha aiuti. Nessuno di quelli che ci stanno attorno possono fare qualcosa per noi (Opere III, p. 10).

Ciò esclude, a rigore, che si possa concepire una storia della filosofia, intesa «come processo di evoluzione organica e progressiva del pensiero umano», e spiega perché quel che conta quando si fa filosofia non sia tanto l’originalità, quanto piuttosto l’originarietà, il fatto, cioè, di «pensare direttamente, da sé, in proprio» [Vulcănescu 2003, p. 46].
La filosofia consiste in una valorizzazione soggettiva dell’esistenza umana – fermo restando comunque che ogni individuo è organicamente inserito nella propria comunità di destino e la soluzione che egli dà al quesito dell’esistenza dipenderà, più o meno consapevolmente, dall’appartenenza a un orizzonte di valori condiviso. Per questo non solo non è possibile conoscere per intero quanto è stato scritto in filosofia, ma nemmeno è desiderabile farlo, giacché lo scritto in nessun caso può valere come dato acquisito, ma al limite sempre e solo come uno stimolo per il pensiero. In piena coerenza con questo assunto Ionescu non ha licenziato alcuna opera filosofica e ha praticato l’insegnamento come una pedagogia negativa, un invito a pensare in proprio, alla maniera di Socrate, persuaso com’era che la filosofia «non si possa insegnare». A questo proposito, vale la pena citare il monito che il Professore rivolgeva ai suoi allievi all’inizio del corso di metafisica dedicato al problema della salvezza nel Faust di Goethe:

Voi, che iniziate ora gli studi di filosofia, vi prego di ascoltare da me una cosa che vi servirà: non pensiate che la questione del primato abbia alcun valore in filosofia. Non abbiate paura di dire una cosa, pensando che l’abbia detta anche qualcun altro. Una cosa è importante se l’hai effettivamente pensata tu stesso; che l’abbiano già detta altri venti prima di te è indifferente. Perché, in fin dei conti, il beneficio che hai dalla filosofia è proprio la gioia che provi quando pensi di aver creato in quest’ordine spirituale. Che ci sia un altro con il ‘brevetto’ in tasca, può essere, ma che t’importa, perché ti dà fastidio questa cosa? Dal momento che puoi usare quella cosa, e non solo la cosa come risultato, ma, per la tua stessa gioia, usare il procedimento stesso di risoluzione di un determinato risultato, ti importa assai poco di essere, o no, originale. È ovviamente diverso quando hai preso qualcosa da un libro e hai enunciato una certa verità. Ovviamente, se hai preso quella verità e l’hai detta semplicemente come l’hai presa dal libro, non sei né più intelligente, né vali più né meno di prima. Ma se prendi i risultati pensati da un altro, scoperti da un altro e li disponi in un ordine naturale, cioè se li armonizzi, i risultati sono come se fossero tuoi (Ionescu 2020, p. 316).

A quanti lo accusavano di mancare di originalità, a motivo dei numerosi riferimenti a filosofi europei, tedeschi e francesi, che egli utilizzava nell’ambito dei suoi corsi, spesso senza citarli, risponde nella prefazione alla Rosa dei venti (1937), l’unico volume pubblicato in vita (una raccolta di articoli di giornale apparsi tra il 1926 e il 1933 a cura di Mircea Eliade):

cos’è questa ‘mancanza di originalità’ per un uomo che vive [trăiește] tutti i suoi pensieri? Mi si perdoni l’esempio, ma mancò di originalità Pascal allorquando – senza conoscere ‘Gli Elementi’ di Euclide – lui stesso costruì dal principio questi ‘Elementi’? Oppure manca forse di originalità il mio atto di coscienza quando ho visto la luna in cielo, dal momento che questa luna è già stata vista anche da altri? Cos’è questa ‘originalità’, mi domando – brevetto di sfruttamento, o freschezza di vita? (Ionescu 1990, pp. VII-VIII) [6].

In termini di teoria della conoscenza, l’esperienzialismo ioneschiano assume l’esistenza della realtà esterna come un «bruto fatto indicato dal buon senso» (Opere II, p. 213), che precede la conoscenza stessa e ne definisce la condizione di possibilità ontologica. Questa posizione implica il rifiuto del coscienzialismo o costruttivismo kantiano e del solipsismo di matrice idealista. L’esperienzialismo si configura piuttosto come un realismo in cui la realtà è definita come: «tutto ciò che può diventare oggetto di pensiero, ma che può esistere indipendentemente dal fatto che io lo pensi» (Opere I, p. 189). Lo stesso deve dirsi dell’«io», che taluni vorrebbero ridurre a una pura struttura formale, una funzione regolativa di una molteplicità di impressioni sensibili. L’esistenza dell’io è, secondo il filosofo romeno, che si muove sulle impronte di Agostino, il contenuto di un’intuizione diretta, di un sentirsi vivere che esperiamo quotidianamente.

«Io affermo, semplicemente, che esperisco il fatto della mia esistenza e non mi sbaglio quando affermo di esistere; a questa intuizione originaria che io ho della mia esistenza non può condurmi alcun argomento» (Opere II, p. 215).

Mentre Cartesio pretende di dimostrare l’esistenza del cogito a partire dal pensiero, Agostino sperimenta l’esistenza del sé immediatamente, come una evidenza di fatto [7].

È una differenza fondamentale: con S. Agostino siamo nel dominio dell’evidenza oggettiva, con Descartes siamo nel dominio dell’evidenza soggettiva. Nel primo caso, l’esistenza si impone a me, al soggetto, come qualcosa che esiste al di fuori di me; nel secondo caso, l’esistenza si impone a me in virtù di una percezione interna, quella dell’atto del pensare. L’evidenza oggettiva è più legittima, perché dal pensiero non si può dedurre, logicamente, l’esistenza e appunto ciò pretende Descartes con il suo argomento, di dedurre l’esistenza logicamente dalla percezione soggettiva del pensare (Opere II, p. 75).

Emerge da questa riflessione il carattere primitivo dell’intuizione, che Ionescu pone alla base del processo conoscitivo: «Il punto di partenza nel problema della teoria della conoscenza non è un atto di conoscenza [act de cunoștință], bensì uno di esperienza vissuta [unul de trăire]» (Opere II, p. 215). Rapportata al dominio della logica o della matematica, la primalità dell’intuizione corrisponde a quella dell’assioma o del postulato, di verità, cioè, che nella loro auto-evidenza risultano indimostrabili.


Igor Tavilla
(n. 10, ottobre 2021, anno XI)





Avvertenza: i riferimenti bibliografici estesi saranno inclusi in calce alla terza parte (dicembre 2021) del presente articolo.

NOTE

[1] Oltre alla monumentale biografia di Dora Mezdrea (cfr. Mezdrea 2015), segnaliamo la recente edizione italiana della biografia di Tatiana Niculescu (cfr. Niculescu 2021), utile per chi voglia avvicinarsi alla figura del pensatore romeno. Per una presentazione dell’opera filosofica di Nae Ionescu si rimanda a Mihai 2011b e Surdu 2019. Uno studio critico del «mito» alimentato attorno alla sua figura e al suo pensiero politico è infine rappresentato da Voicu 2009 (prima edizione: 2000).
[2] Il romeno trăire,dal verbo a trăi, vivere,indica al contempo il «fatto di vivere», l’esistenza umana (sost. trai, con un ampio campo semantico che include stile di vita, tenore di vita, condotta morale ecc.), e nella fattispecie l’esperienza «vissuta», per mezzo della quale è possibile giungere alla conoscenza della realtà. Il concetto di trăirism riguarda unicamente la sfera del vissuto umano, pertanto non va inteso come vitalismo di stampo biologico.
[3] Un primo tentativo di affrontare sistematicamente il pensiero di Nae Ionescu, rimasto tuttavia allo stato di semplice abbozzo, si deve agli sforzi profusi, già tra la seconda metà degli anni Venti e i primi anni Trenta, dal discepolo Mircea Vulcănescu (Vulcănescu 2003). La scomparsa prematura del filosofo di Brăila e l’avvento della dittatura comunista hanno di fatto ostacolato, fino al 1989, una valutazione distaccata e un dibattito sereno intorno alla dimensione propriamente speculativa del suo pensiero. Solo dal 1990 in poi l’autore è tornato a essere letto e discusso, grazie alla pubblicazione, in alcuni casi alla ristampa, dei corsi universitari, cui ha fatto seguito l’edizione delle opere complete a cura di Dora Mezdrea e Marin Diaconu. Nei loro lavori, Alexandru Surdu (1995), Eugen Simion (2009), George Voicu (20092) e Marta Petreu (Petreu 2011, 2013) discutono l’importanza dell’autore nel panorama della filosofia romena contemporanea e gli aspetti più controversi del suo pensiero; Gelu Sabău (2007), in particolare, ha denunciato i sofismi e i paralogismi teologico-politici sui quali Ionescu fonda la propria concezione organicista e antidemocratica di Stato. Tuttavia, è certamente la metafisica il terreno più sondato dagli interpreti, come ad esempio negli studi di Isabela Vasiliu-Scraba (2000) e Viorel Cernica (2002); per una disamina sulla questione dell’essere e del suo rapporto con l’esistenza si vedano Mihai 2012b e Popescu 2014; circa l’adozione del protocollo fenomenologico husserliano e del suo corredo concettuale (intenzionalità, epoché intuizione, modificazione di neutralità, etc.) da parte del filosofo romeno si veda ancora Cernica 2020; sempre nell’ambito della metafisica ioneschiana, Popa 2020 pone l’enfasi sul carattere dinamico dell’essere e Buican 2013 sulla nozione di tempo, inteso come «topos» in cui fenomeni si manifestano; con riguardo alla filosofia della religione si vedano gli studi di Constantin Mihai (2013a, 2013b, 2012a), mentre un confronto tra Ionescu e Kierkegaard sul tema dell’autenticità è stato tentato da Bârliba 2017.
[4] A tale riguardo, il Nostro si è certamente ispirato a Max Scheler, laddove quest’ultimo afferma che «nell’atto religioso si vede e si sente una presenza di Dio nella creatura, analogamente al modo in cui l’artista può essere sentito e visto nell’opera d’arte» (Scheler 2009, p. 443). Sull’influenza esercitata da Scheler sul pensiero di Nae Ionescu cfr. George 1992, pp. 11-17; Müller 1993, p. 82; Bordaș 2010, pp. 42-45; Ionescu 2020, pp. 44-45.
[5] Traspaiono qui motivi riconducibili alla «biologia dell’impulso conoscitivo» di nietzschiana memoria, specialmente se si tiene presente quanto Nietzsche afferma a tale proposito: che «‘pensare’ è imporre forme», e che «le percezioni dei nostri sensi sono già il risultato di questa assimilazione e di questo livellamento» che è «lo stesso che, per l’ameba, assimilare la materia di cui si appropria». Il motivo della conoscenza come apparato «per astrarre e semplificare – non orientato verso la conoscenza, ma verso il dominio sulle cose» risuona anche nelle pagine dedicate dal filosofo romeno a definire i caratteri della conoscenza scientifica. Cfr. Nietzsche 1995, p. 278 e p. 279.
[6] Circa i prestiti non dichiarati contestati al filosofo, su cui si era pronunciato per primo Zevedei Barbu (Barbu 1943), l’approccio giustizialista, che ha vorrebbe Ionescu un «plagiario e compilatore di filosofi occidentali» (Petreu 1994; 2005), già contestato da vari autori (p. es. Vasiliu-Scraba 1995), sembrerebbe cedere il passo oggi a una valutazione più circostanziata e attenta dei corsi del professore, dalla quale si evince come i riferimenti impliciti a questo o a quell’autore non pregiudichino affatto l’autenticità del punto di vista affermato dal filosofo romeno (Bordaș 2009).
[7] Il riferimento è ai Soliloquia agostiniani (II, 1) probabilmente citati da Ionescu in via indiretta, avendo egli presente l’opera di Léon Blanchet, Les antécédentes historiques du «Je pense, donc je suis» (1920)