Pasolini poeta in dialetto friulano e il «genocidio» delle classi subalterne in Italia

Una particolare angolatura dell'analisi della scrittura pasoliniana la propone, nell'ambito del nostro Speciale Centenario Pasolini, il professor Antonio Catalfamo, autore dell'ampio saggio Pasolini «eretico solitario» e la lezione inascoltata di Gramsci (Edizioni Solfanelli, 2021, p. 232).


È stata altamente formativa per Pasolini l’esperienza vissuta in Friuli, terra natia della madre, dove da bambino egli trascorre le vacanze e dove si trasferisce nell’inverno 1942-1943, assieme alla famiglia, per sfuggire ai bombardamenti. Qui viene a contatto con il mondo contadino, ch’egli coglie nella sua naturalità incontaminata e nella sua ricchezza di valori. Nascono così nel 1942 le Poesie a Casarsa [1], pubblicate a proprie spese. Il dialetto è quello della riva destra del Tagliamento, non la «koiné regionale», rappresentata dal dialetto di Udine. Questa scelta non è casuale: Pasolini vuole usare una lingua effettivamente parlata, calata nella realtà concreta, non artificiale, non usurata dalla tradizione letteraria, bensì «vergine», fino a quel momento semplice «insieme di suoni», da trasferire in forma scritta con tutta la sua vitalità, che è quella del popolo contadino che la parla. Esiste, dunque, in questa raccolta un’unità tra «forma» e «contenuto»: la lingua effettivamente parlata è espressione della «purezza» e dell’«innocenza» del mondo contadino friulano, colto nella sua dimensione religiosa, che ha in sé un fondo di rigore morale, di valori sani e consolidati, ben diversa da quella della Chiesa ufficiale. È, inoltre, espressione della «creatività» non solo del popolo nel suo insieme, ma anche del singolo, che, nell’usarla, la rinnova continuamente, con invenzioni personali, apportando un contributo originale al lessico, alle sfumature della pronuncia, allo stesso tono, che risente dell’ironia singolare, della malinconia dell’individuo parlante. «Creatività» ulteriormente accentuata dal fatto che questo dialetto varia da paese a paese, da zona a zona, mescolandosi ad altri dialetti confinanti, come quello veneto.

Pasolini si sposta in bicicletta, passando da un’area linguistica all’altra, registrando le varianti. All’inizio si avvale del dizionario friulano-italiano del Pirona, progressivamente conquista quel dialetto della «piccola patria» anche nelle sue pieghe più nascoste. A ciò contribuiscono le sue «esplorazioni» in bicicletta, il suo approfondimento dei luoghi, intorno a Casarsa, a Versuta, che dista due chilometri, dove affitta una casa contadina, che assume la funzione di laboratorio linguistico, di luogo d’incontro con giovani studenti del luogo, desiderosi di cultura, il suo «metter radici» ancor più solide in Friuli dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, per sfuggire alla chiamata alle armi, l’esperienza della fondazione dell’Academiuta di lenga furlana, alla quale chiama a collaborare giovani studiosi di talento come la classicista Giovanna Bemporad, che tengono lezioni ai ragazzi che non possono recarsi a scuola, a causa della guerra, la pubblicazione di alcuni numeri degli Stroligut di cà da l’aga, un almanacco scritto nel dialetto della riva destra del Tagliamento (di cà da l’aga, per l’appunto). Enzo Siciliano ben sintetizza le linee di poetica che animano il giovane Pasolini autore delle Poesie a Casarsa: «Epica contadina, istintivamente cristiana:  ̶ creaturalità naturale, elogio della solidarietà comunitaria» [2].

Ma Pasolini supera ben presto questa dimensione di ingenuo cattolicesimo popolareggiante. Nel 1947, diviene insegnante di lettere alla scuola media di Valvasone, a due chilometri da Casarsa. Si accosta al marxismo e al Partito comunista italiano, nel 1949 viene eletto segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, è relatore in comizi e convegni, prende posizioni pubbliche sulla stampa locale, partecipa alle lotte. Avverte, allora, l’esigenza di esprimere «non più icastici motti di spirito paesani», bensì «grandi sentimenti» [3] collettivi, di «storicizzare» la sua esperienza di uomo, di poeta, di politico interprete dei bisogni delle masse popolari. Scrive, ancora, Enzo Siciliano: «Pasolini tendeva a vivificare una tradizione di cultura locale dove poveri contadini, segnati da secoli di soggezione, potessero riconoscersi, farsi uomini. L’attonita arcaicità d’espressione e di costumi che caratterizzano non solo il Friuli di cà da l’aga poteva, in qualche modo, venir redenta. Egli si sentiva votato a questa missione» [4].

Pasolini, nel corso del suo lungo cammino di scrittore, non abbandona mai la poesia in dialetto friulano. Dopo Poesie a Casarsa, riunisce la sua produzione poetica in friulano, risalente agli anni che vanno dal 1941 al 1953, ne La meglio gioventù [5], e poi, nel 1975, ripropone il complesso delle sue poesie dialettali scritte fino a quel momento, con varianti e nuove interpretazioni, ne La nuova gioventù [6]. Il Friuli idillico, dominato dalla gioia di vivere dei contadini poveri, animati da un forte religiosità consolatoria, sparisce progressivamente, sostituito da una visione ben diversa dello stesso mondo geografico e umano. I versi si popolano di contadini sfruttati, pagati poche lire da padroni che li derubano di tutto, costretti a emigrare verso le città più popolate della regione o anche oltre, fino all’espatrio [7], sospinti nelle braccia impietose della morte, non solo a causa del lavoro disumano, ma anche delle guerre, ch’essi subiscono, dal primo conflitto mondiale e dalla strage di Caporetto all’invasione dei nazisti, che compiono rastrellamenti indiscriminati, deportano i prigionieri in Germania, procedono a esecuzioni spietate e sommarie [8]. La presenza di Dio non basta più a consolare, è una presenza distante, che non interviene negli avvenimenti a difesa degli umili e dei poveri [9]. Pasolini si è impadronito evidentemente della visione classista della realtà, attraverso il marxismo e, soprattutto, attraverso la lettura dei Quaderni del carcere di Gramsci.

Emblematica di questo stato di sfruttamento estremo, totale, dell’uomo sull’uomo è la poesia Biel zuvinín (Bel giovanino) [10], nella quale un bel giovanotto proletario dapprima è costretto a vendere al padrone, per cento lire, «chel legri cuorisín» («quell’allegro cuoricino» [11]), successivamente alla signora «chej […] rissòs di oru» («quei […] riccetti d’oro» [12]), in cambio di un posto di lavoro. In conclusione, il «biel zuvinín» si ritrova a Trieste, disoccupato, ove gli chiedono addirittura di comprare la sua salute per poter lavorare. Egli accetta: «ciapa la me salút / i ài pur di mangià» («prenditi la mia salute, / devo pure mangiare» [13]). La poesia termina così «Sunàit, puoris ciampanis, / sunàit il Matutín / che oramai al è veciu / chel biel zuvinín» («Suonate, povere campane, / suonate il Mattutino, / che ormai è vecchio il bel giovanino» [14]).

Nell’inverno del 1949, Pasolini è costretto a scappare dal Friuli, «come in un romanzo» [15], assieme alla madre, perché coinvolto in uno scandalo, provocato da presunti rapporti omosessuali con minorenni. Si rifugia a Roma. Rimane affascinato dal sottoproletariato che popola le periferie urbane, ma continua a pensare al suo Friuli e a scrivere versi nel dialetto della «piccola patria». Il poeta accentua il suo distacco dal «punto di vista elegiaco» [16] delle Poesie a Casarsa, giungendo a un «atteggiamento negativo fino alla repulsione» [17]. Il mutamento di posizione è determinato dai cambiamenti che nel frattempo si sono registrati sul piano economico-sociale, con l’affermarsi di un modello di sviluppo fondato sulla logica consumistica, che coinvolge anche il popolo, allontanandolo dai valori sani della società contadina e spingendolo a fare propri modi di vita e di pensiero che appartengono alla borghesia dominante. Naturalmente è questo un processo che si consolida negli anni. Pasolini lo segue nel suo evolversi, giungendo al momento culminante della sua analisi nel volume La nuova gioventù, pubblicato poco prima della morte, nel 1975, nel quale, accanto ai versi delle raccolte precedenti, riveduti e corretti, se ne trovano nuovi, dominati, per l’appunto, dalla condanna della società consumistica, ormai matura negli anni Settanta,  dell’«omologazione culturale» che ha investito i ceti popolari, divenuti succubi dei modelli ideali e comportamentali della borghesia, con una particolare accentuazione nelle giovani generazioni, nell’ambito delle quali è impossibile distinguere un ragazzo di sinistra da uno di destra. È questa la «provocazione» che Pasolini lancia nei versi più recenti de La nuova gioventù. Scrive, a tal proposito, Enzo Golino: «Il suo progetto educativo deve muoversi lungo binari diversi, la sua utopia sociale risulta ormai sventrata da quello Sviluppo senza Progresso di cui è diventato il più feroce accusatore in una “guerra di corsa” contro le istituzioni che hanno provocato il disastro» [18].

Emblematica di tale mutamento di posizione è la sezione che chiude La nuova gioventù, intitolata Tetro entusiasmo, che contiene poesie che iniziano in friulano e terminano in italiano, composte nel periodo 1973-1974. In una poesia rivolta Agli studenti greci Pasolini sostiene la tesi, a lui tanto cara da riproporla ripetutamente, che il fascismo, durante la sua dittatura ventennale, non è riuscito a cambiare il popolo, che è rimasto, dal punto di vista del modo di pensare, di sentire, di agire e di vestire, quello che era stato per secoli. La società consumistica, invece, ha prodotto una «rivoluzione antropologica», l’«omologazione culturale» delle masse proletarie (soprattutto, ma non solo, nella loro componente giovanile) ai modelli capitalistici e borghesi [19]. Scrive, a tal proposito, Alberto Asor Rosa, uno degli interpreti più acuti dell’opera di Pasolini e della forza critica in essa contenuta: «La “mutazione antropologica di massa”, indotta da un certo tipo di consumismo, ha intaccato le radici di un modo di vita millenario, e va quindi considerata un genocidio alla maniera nazista, sebbene democraticamente consumata, in Italia si va affermando un vero e proprio tecnofascismo, che è il fascismo prodotto dalla rivoluzione tecnologica, la quale però dalla cultura progressista  ̶  supremo degli equivoci!  ̶  è considerata intrinsecamente “antifascista”. Le principali vittime di questa trasformazione sono i poveri e i giovani, perché per loro, come non c’è passato, così non ci sarà più futuro» [20].

È singolare questo rappresentare il mutamento genetico della società italiana da contadina a industriale e consumistica attraverso il dialetto friulano. Questo dimostra che gli anni dell’infanzia e della giovinezza trascorsi da Pasolini in quelle terre lo hanno segnato profondamente per tutta la vita e che egli, nel contempo, considera l’esperienza sconvolgente che ha interessato il popolo friulano emblematica di quella più ampia che ha investito il mondo subalterno italiano nel suo complesso, non solo contadino, ma anche proletario e sottoproletario.




Antonio Catalfamo
(n. 3, marzo 2022, anno XII)





NOTE

1. Pier Paolo Pasolini, Poesie a Casarsa, Libreria Antiquaria Mario Landi, Bologna, 1942.
2. Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano, 1978; ma si cita sin d’ora dall’edizione BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), 1981, p. 98.
3. Ivi, p. 100.
4. Ivi, p. 101.
5. Pier Paolo Pasolini, La meglio gioventù, Sansoni, Firenze, 1954.
6. Id., La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975.
7. Id., La miej zoventút (La meglio gioventù), ivi, pp. 152-153.
8. Id., El testament Coràn (Il testamento Coràn), ivi, pp. 117-120.  
9. Id., La miej zoventút (La meglio gioventù), ivi, p. 152.
10. Id., Biel zuvinín (Bel giovanino), ivi, pp. 129-130.
11.Ivi, p. 129.
12. Ibidem.
13. Ivi, p. 130.
14. Ibidem.
15. Pier Paolo Pasolini, Al lettore nuovo, in Poesie, Garzanti, Milano, 1970; ma si cita dall’edizione 1999, p. 9.
16. Enzo Golino, Pasolini. Il sogno di una cosa. Pedagogia, Eros, Letteratura dal mito del popolo alla società di massa, Il Mulino, Bologna, 1985; ma si cita sin d’ora dall’edizione Bompiani, Milano, 1992, p. 116.
17. Ibidem.
18. Ibidem.
19. Pier Paolo Pasolini, Agli studenti greci, in un fiato, in La nuova gioventù, cit., pp. 231-233.
20. Alberto Asor Rosa, Verso l’apocalisse (l’ultimo Pasolini), ora in Novecento primo, secondo e terzo, Sansoni, Milano, 2004, pp. 490-491.