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L'incontro con l’antiprofeta. Cioran in Italia
Ho scoperto Cioran quando ero ancora uno studente liceale. Avevo trascorso un anno intero a leggere Nietzsche, che mi aveva aiutato a sopportare un grande dolore. Un giorno mi sono imbattuto casualmente in un aforisma del pensatore romeno e ne sono rimasto letteralmente folgorato. Era tratto da L’inconveniente di essere nati.Nel giro di poco tempo acquistai tutte le sue opere. La lettura dello scettico dei Carpazi è stata la migliore terapia che potessi scoprire, sì, perché la pratica della scrittura, ma anche la lettura, anche per lo stesso Cioran sono state pratiche auto-terapeutiche, anzi nel suo caso, come lui stesso afferma, hanno evitato il suicidio. Ma per comprendere ciò bisogna fare qualche passo indietro.
Agli inizi degli anni ’90, quando ormai Cioran aveva abbandonato la scrittura e si avvicinava verso l’abisso senza ritorno dell’Alzheimer, non furono pochi coloro i quali tacciarono lo scettico venuto dai Carpazi di pseudo-pessimismo morboso e di essere un geniale attore di recite funerarie. In prima linea fra i detrattori del Privatdenker vi era lo scrittore di origine russa noto con lo pseudonimo di Alain Bosquet, che immaginando di spedire una lettera a Cioran lo accusò di essere un impostore e di essere incoerente con il suo stesso pensiero: «Le prescrivo […] di impiccarsi. […] Cancelli la Sua esistenza, sia anche solo per rispetto nei confronti dei suoi scritti». In molti dei suoi editoriali e in particolare nella sua opera La mémoire ou l’oubli, Bosquet parlava di Cioran come di un filosofo reazionario che sarebbe stato presto archiviato dalla storia. Tale previsione si è rivelata del tutto priva di fondamento, anzi, nel primo ventennio del XXI secolo è stata registrata una crescita costante dell’interesse intorno alla figura del pensatore romeno, non solo in Italia e in Europa, ma anche nel resto del mondo.
Tuttavia, le critiche mosse a Cioran ci stimolano a prendere in esame e ad approfondire alcuni punti che risultato oscuri ai lettori che si avvicinano o superficialmente o con pregiudizio alle sue opere. Non sono pochi, infatti, a chiedersi perché con tale concezione della vita, il pensatore romeno non abbia messo fine anticipatamente ai suoi giorni. Prima di rispondere a questa domanda, occorre però fare qualche passo indietro e scavare fra i testi del filosofo.
Già nella sua prima opera, Pe culmile disperării, il suicidio è una delle tematiche centrali. Questo testo inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi Tra la vita e la morte, come ci rivela una lettera spedita a Petru Comarnescu del 21 aprile del 1933, ma poi prese il titolo di Al culmine della disperazione perché l’autore venne ispirato da alcuni articoli pubblicati sui quotidiani locali romeni in occasione di suicidi. Qui Cioran si scaglia contro la viltà di chi sostiene che il suicidio sia un’affermazione della vita. Come l’incapacità del vivere può essere tradotta, si chiede il pensatore romeno, se non nei termini di una spaventosa tragedia interiore. È assurdo, scrive Cioran, che si ricerchino ancora le motivazioni del gesto più estremo, in modo tale da voler stabilire gerarchie, trovare giustificazioni o, peggio ancora, per volerlo sminuire.
Si possono trovare validi motivi per farla finita anche per un amore inappagato, in quanto una relazione irrealizzabile può significare un annientamento del proprio essere, una totale perdita di senso. Anzi, le passioni impossibili conducono alla morte più rapidamente delle gravi malattie, perché se in quest’ultime, scrive Cioran, ci si consuma progressivamente, per le altre basta anche un solo istante. D’altronde, la prima volta che il filosofo ha rimuginato sull’idea di farla finita è stato all’età di sedici anni, quando passeggiando nel folto di una foresta di Sibiu si imbatté nella ragazza di cui era segretamente innamorato da due anni, in compagnia di un ragazzo ripugnante che veniva soprannominato «il pidocchio». Fu in quel momento che Cioran pensò di non poter sopportare il tradimento; ma, tornando alla sua prima opera, egli scrive: «La mia ammirazione va solo a due categorie di uomini: quelli che potrebbero impazzire in qualsiasi momento e quelli che in qualsiasi momento sarebbero capaci di suicidarsi». E, in conclusione, riferendosi a un interlocutore fittizio, egli afferma di non suicidarsi perché la morte ha lo stesso disgusto della vita.
Più avanti dirà di questo periodo, precisamente nella prefazione all’edizione francese di Al culmine della disperazione, che se non avesse tradotto su carta le proprie inquietudini, probabilmente avrebbe messo fine ai suoi giorni. In una copia della stessa opera in lingua tedesca regalata a Friedgard Thoma, ribadirà: «Se in gioventù non avessi prodotto questi lamenti, avrei abbandonato da tempo il palcoscenico». L’unica ragione per la quale il pensatore romeno non mise fine ai suoi giorni già al tempo dell’università fu perché trovò nell’esercizio della scrittura una vera e propria terapia. Egli arriva a ritenere forzata la dicitura di libro riferita a ogni suo scritto, poiché in realtà scrivere è soltanto una pratica auto-terapeutica, per questo anche contro le sue intenzioni non ha mai smesso: «Sono certo che se non fossi stato un imbrattacarte mi sarei ucciso da un pezzo. Scrivere è un enorme sollievo. E pubblicare anche».
Spostandoci alla prima opera in lingua francese, il Sommario di decomposizione, il suicidio viene descritto come una delle scoperte dell’essere umano, uno dei caratteri peculiari dell’homo sapiens; una soluzione inaccessibile alle bestie e agli angeli. È proprio dalla tentazione di farla finita, ribadirà in una delle sue ultime interviste nel 1992, che si distingue un uomo da un animale. Chi non ha mai concepito il proprio annullamento, meditando sulla corda o su una pallottola, è soltanto una carogna. Per di più, aggiunge Cioran a queste riflessioni, che se al momento della nascita fossimo consapevoli quanto lo siamo sul finire dell’adolescenza, è assai probabile che già a cinque anni il suicidio sarebbe un fenomeno abituale. La scelta di questa precisa età anagrafica non è casuale, fu infatti a soli cinque anni, durante un pomeriggio d’estate a Drăgășani, che Cioran conobbe la sua prima crisi di noia, una crisi che più tardi definirà un vero e proprio risveglio della coscienza. Per quei pochi uomini capaci di mettere in discussione l’obbligo d’esistere, il risveglio arriva però sempre troppo tardi. Per questo, scrive Cioran ne L’inconveniente di essere nati, non vale la pena suicidarsi. Oltre a ciò, sostiene il pensatore romeno, nemmeno l’illusoria esperienza del vuoto è capace di reintegrare in noi «la dolcezza prima della nascita», neanche il suicidio ha la capacità di risarcire gli uomini «dell’essere stati». Dunque, il suicidio è un atto inconcludente per il fatto che non è in grado di risolvere la tragedia del primo respiro.
Che il fatto di considerare la nascita una sciagura non porti argomenti a favore del suicidio è una conclusione che mette d’accordo i maggiori antinatalisti contemporanei, fra cui: Peter Wessel Zapffe, Thomas Ligotti e David Benatar. Anche se occorre specificare che spesso l’antinatalismo odierno assume una connotazione politica e ambientalista, a differenza delle pagine cioraniane dove riecheggia puramente l’eco dell’antica sentenza silenica del me phynai, ovvero l’urlo della sofferenza universale che sembra travolgere ogni essere del creato, tutto ciò che ha forma, persino il granito.
Ciò che, invece, risulta utile è «l’idea del suicidio», ovvero la certezza che ogni individuo può mettere fine alla sua esistenza. Ciò che rende tollerabile la vita è l’idea che se ne possa uscire in qualsiasi momento. Poter disporre dei propri giorni è l’unico atto veramente scevro di disperazione e l’unico ragionevole: «Nati in una prigione, con fardelli sulle spalle e sui pensieri, non arriveremmo al termine di un solo giorno se la possibilità di farla finita non ci incitasse a ricominciare il giorno dopo… I ceppi e l’aria irrespirabile di questo mondo ci tolgono tutto, tranne la libertà di ucciderci; e questa libertà ci infonde una forza e un orgoglio tali da trionfare sui pesi che ci opprimono. […] Ma, demoni fanfaroni, noi procrastiniamo la nostra fine: come potremmo rinunciare al dispiegarsi della nostra libertà, al gioco della nostra superbia?».
Come anticipato, uno dei principali motivi per il quale Cioran non mise fine ai suoi giorni è perché trovò nella scrittura una «profilassi al suicidio», ovvero una pratica quotidiana e terapeutica che con il passare del tempo, sottolinea Bernd Mattheus, assunse per il pensatore romeno lo stesso effetto della talking cure psicoanalitica. Secondo Simone Boué, al suo compagno in fondo non piaceva neanche scrivere, ma si trattava di un bisogno ineliminabile, per lui un libro non era nient’altro che «un suicide différé».
Cioran confida a Paul Assall in un’intervista: «Ho sempre scritto per liberarmi da qualcosa. E quello che ho scritto non è precisamente né filosofia, né letteratura, ma una terapia personale di cui avevo bisogno. Non ho neanche scritto libri, sono semplicemente diventati dei libri! A eccezione, forse, di due o tre lavori, come ad esempio il saggio su Joseph de Maistre, Sul pensiero reazionario [o anche la Trasfigurazione della Romania, unica opera sistematica dell’autore e poi rinnegata]». Non solo la scrittura in sé, ma anche la pubblicazione costituisce un passaggio fondamentale, in quanto le ossessioni espresse vengono allontanante. Scrivere sul suicidio significa in qualche modo anche vincerlo, profanarlo; mettere su carta un’idea significa anche ucciderla. Cioran è consapevole delle sue contraddizioni, che non nasconde ma evidenzia, perché una volta che si è scelto di restare in vita ogni atto ha a che fare con la prostituzione, tutta l’esistenza assume il carattere di una passeggiata lungo un «marciapiede».
Quanto esposto finora ci permette di capire che, almeno per la maggior parte delle volte, Cioran non pensava a vere e proprie opere quando scriveva, ma appuntava sensazioni temporanee su dei quaderni per poi selezionare e allestire successivamente un libro. Questo spiegherebbe la presenza di diverse ripetizioni nei suoi testi e la riproposizione di frasi identiche nelle opere pubblicate che si trovano già nei Cahiers. Non è un caso, infatti, che questi ultimi non erano altro che trentaquattro quaderni identici (contrassegnati da un numero identificativo e una data) dai quali il filosofo traeva le sue opere. Fra i numerosi esempi che potrebbero esseri riportati, è singolare il caso del seguente aforisma: «Dopo una malattia grave, in certi Paesi asiatici, nel Laos ad esempio, succede che si cambia nome. Che visione all’origine di un tale costume! In realtà, si dovrebbe cambiare nome dopo ogni esperienza importante» (Squartamento, 1979). Sei anni prima ne L’inconveniente di essere nati, egli scriveva: «Dopo certe esperienze si dovrebbe cambiare nome, dato che non si è più gli stessi». Facendo un ulteriore passo indietro e aprendo le pagine de Il funesto demiurgo (1969), troviamo invece scritto: «Dopo certe notti si dovrebbe cambiare nome, dato che non si è più nemmeno gli stessi». È evidente che in tutti e tre i casi siamo di fronte allo stesso concetto, riformulato soltanto attraverso diverse sfumature linguistiche.
Il primo a utilizzare questa pratica auto-terapeutica della scrittura fu, secondo Cioran, Cicerone. L’oratore romano, ritiratosi in campagna dopo la morte della figlia, cominciò a indirizzare lettere di consolazione a sé stesso per sopportare il dolore. Il pensatore romeno si rammarica che questa pratica non sia divenuta corrente, d’altronde se lo fosse diventata – spiega ironicamente Cioran – l’uomo avrebbe trovato un rimedio ai suoi mali e, di conseguenza, non ci sarebbe stato più spazio per le religioni. Questo effetto corroborante e vivificante prodotto dalla scrittura non ha soltanto coinvolto Cioran in quanto autore, ma anche parte dei suoi lettori. Si registrano testimonianze di persone che hanno subito una vera e propria catarsi filosofica grazie alla lettura delle opere del pensatore romeno, è il caso di una ragazza libanese che sotto i bombardamenti di Beirut leggeva Cioran perché, in quella situazione disastrosa, ne trovava tonico lo humor,e ancora di una ragazza giapponese, ormai convita di volersi uccidere, che cambiò idea e diede inizio a uno scambio epistolare con il suo ‘salvatore’, dopo averne letto le opere. Fondamentale in quest’ottica, anche la testimonianza di Mattheus, che racconta: «Qualche tempo fa ho incontrato qui a Parigi il poeta austriaco Ernst Jandl, dopo una sua lezione. Mi ha detto: leggo i suoi libri [di Cioran] ogni volta che sono depresso».
La necessità di ‘crearsi’ autonomamente una terapia deriva dal fatto di non ritenere valide le cure «ufficiali». Se da giovane Cioran si era interessato particolarmente alla psicoanalisi, tanto da scrivere articoli su argomenti relativi alla materia, col tempo egli svilupperà un’avversione progressiva in un’ottica anti-freudiana. Più si legge Freud, scrive il filosofo romeno, più ci si convince di avere a che fare con il fondatore di una nuova setta, un proclamatore di nuovi articoli di fede, un profeta intollerante mascherato da uomo di scienza. In particolare, Cioran si scaglia contro la facilità delle ipotesi della psicoanalisi che viene spinta fino al delirio, un campo dove le spiegazioni più appaiono assurde più seducono l’ascoltatore. Anche se questa non è la sede per approfondire ulteriormente la questione.
Ciò invece su cui è importante relazionare oggi è una panoramica sullo stato della ricerca su Emil Cioran in Italia. Con una risposta estremamente sintetica potrei affermare che abbiamo imboccato la strada giusta e abbiamo percorso già tanti chilometri. Però, andiamo a distinguere nel dettaglio le diverse sezioni: opere, carteggi, interviste e critica.
Opere
La maggior parte delle opere di Cioran sono state pubblicate in Italia grazie a Roberto Calasso, padre delle edizioni Adelphi, nonché acuto pensatore, e di Mario Andrea Rigoni, docente emerito presso l’Università di Padova che aveva conosciuto il pensatore romeno a Parigi. Come sappiamo, Cioran ha scritto in romeno fino al 1946-1947 circa, per poi esiliare nell’idioma francese, quindi occorre distinguere fra opere romene e francesi. Delle opere francesi abbiamo praticamente tutto, dal Sommario a Confessioni e anatemi, mentre per le opere romene la situazione è più problematica. Abbiamo piccole perle grazie a Voland, come i due Breviari dei vinti e Divagazioni, ma delle cinque opere vere e proprie abbiamo tre grandi assenti e una incompleta.
I tre grandi assenti sono in ordine cronologico: Il libro delle lusinghe, l’opera rinnegata La trasfigurazione della Romania e Il crepuscolo dei pensieri; mentre l’opera incompleta è Lacrime e santi, incompleta poiché rieditata proprio per volere dell’autore e tagliata di alcune parti più scabrose. C’è da fare, dunque, un grosso lavoro in questo senso, sono assenti dal catalogo italiano anche le produzioni giovanili degli articoli, apparse altrove con i titoli di Solitudine e destino e Apologia della barbarie.
Carteggi e interviste
Forse da questo punto di vista l’Italia è il paese ha fatto di più, in Italia troviamo tantissimi carteggi, ne cito soltanto alcuni: quello con G. Bălan, che a mio avviso è fra i più belli, quello con il fratello, le lettere giovanili in Romania, quello con Eliade, quello con Thoma, donna che è stata molto importante negli ultimi anni di vita di Cioran e tanti altri ancora.
Per quanto riguarda le interviste abbiamo due punti cardine: Un apolide metafisico, anche questa raccolta è un classico Adelphi, e Ultimatum all’esistenza, una raccolta monumentale, forse sarò di parte poiché dentro c’è anche il mio lavoro, ma che è uno spaccato integrale sull’esistenza parigina di Cioran. Una raccolta progettata da Antonio Di Gennaro e che per ora si trova solo in Italia.
Critica
Negli ultimi anni stanno aumentando gli studi su Emil Cioran, in Italia e in Romania, precisamente presso le università L’Orientale di Napoli e Tibiscus di Timişoara è nato un vero e proprio progetto di ricerca che ogni anno porta a Napoli tanti studiosi da diverse parti del mondo, grazie soprattutto a docenti come Giovanni Rotiroti e Irma Carannante. Inoltre, la casa editrice Criterion, nata da poco, guidata da Mattia Luigi Pozzi, ha già pubblicato tanto materiale interessante e altro sarà pubblicato per quanto riguarda la letteratura secondaria. Per orientarsi nei saggi scientifici, ma anche negli scritti divulgativi, consiglio di consultare il database Cioran in italiano della rivista «Orizzonti culturali italo-romeni».
Per quanto riguarda le biografie integrali sull’autore, che possono fare da bussola per muoversi nel suo pensiero, cito: Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia (Nulla Die), da me scritta, e ancora un’altra interessante ricostruzione della vita del pensatore romeno importata dalla Germania, e a cui sono legato e alla quale ho scritto la prefazione, Cioran. Ritratto di uno scettico estremo di Bernd Mattheus (Lemma Press).
Nel ringraziare il portale brasiliano Emil Cioran, in particolare Rodrigo Menezes, concludo il mio intervento sullo scettico dei Carpazi con l’auspicio che non solo in Italia e in Europa, ma anche negli altri continenti come in America Latina gli studi su Cioran possano allargarsi e avere la giusta attenzione internazionale.
Vincenzo Fiore
(n. 11, novembre 2021, anno XI)
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