Renzo Rubinelli: «Aurel Cioran, il mio fratello rimasto a casa»

Il primo incontro con Aurel Cioran

(Aurel Cioran, casa natale, luglio 1987. Foto R. Rubinelli)

Incontrai la prima volta Aurel Cioran il 30 luglio 1987. Verso le quattro del pomeriggio suonai al suo campanello. Mi aprì un signore alto, anziano, con i capelli bianchi, ma dall’aspetto giovanile. Nonostante l’imbarazzo della strana situazione, notai subito la cosa che mi metteva a mio agio: una sua immediata e trasparente propensione alla mitezza. Nel mio stentato francese biascicai il motivo della visita: suo fratello Emil mi aveva incaricato di portargli due chili di caffè.
Salito qualche gradino, arrivammo in un soggiorno cucina luminoso dove c’era una coppia di suoi amici: lui era seduto a tavola e ci venne incontro, lei lavava i piatti. L’uomo era piccolo, magro, molto svelto, coi capelli dritti sparati in su e gli occhi grigi, un viso affilato da lince dei Carpazi; manifestò subito orgoglioso il suo sapere e la sua necessità: … parlava un fluente italiano. La donna, rotondetta, pacifica, silenziosa donava all’ambiente una morbidezza appropriata. Mi sentii a casa.
Iniziò così la mia relazione con Aurel Cioran, al quale in seguito dedicai la mia tesi di laurea Tempo e destino nel pensiero di E. M. Cioran. Trascorsi con loro un paio di giorni intensi, in cui mi sentii accudito e nutrito, e non solo di informazioni preziose su Cioran. La sintonia personale con Aurel, silenzioso ma sempre attento e molto presente, fu immediata, complice il carattere di Alexandru, l’amico, che occupando lui quasi tutta la scena, offrì a noi uno spazio riservato per un’intesa oltre le parole, che entrambi lasciammo volentieri a lui.


Il pensiero di Emil è la vita concreta di Aurel

A poco a poco maturò in me la convinzione che Aurel fosse la vera incarnazione dei pensieri di Cioran, che fosse lui il vissuto reale di sofferenza, distillato nei libri del fratello. Non solo per gli inenarrabili otto anni di vero carcere, quanto per un’inclinazione incerta, per un’adesione più labile alla vita, meno convinta e istintiva rispetto ad Emil, il quale, negando a parole, aderì di fatto all’esistenza con una propensione naturale del carattere.
La ritrosia, la timidezza di Aurel, mostravano a tratti i suoi momenti di assenza, confermata più tardi dalle lettere di Emil, che m’invitavano a scrivere al fratello per infondergli coraggio. Conservo una commovente lettera di Aurel del dicembre 1990 nella quale mi scrisse: “Sono stato internato due volte in un ospedale psichiatrico con una grande depressione, ma adesso mi sento bene. Per un periodo molto lungo non ho potuto fare niente: leggere, scrivere, ecc. Ma pensavo, pensavo, sempre a te, (sottolineatura sua) con tutta la mia simpatia e sono felice di comunicare con voi….”  con questo confuso passaggio dal tu al voi nella stessa riga.
Seguiva nella lettera un breve disilluso commento alla rivoluzione e al suo esito poco chiaro. Mi accennava inoltre alla sua nipote Georgia Marietta, che viveva in Italia e chiedeva con molta delicatezza, sempre se lo avessi ritenuto opportuno, di cercare un contatto con lei.
Due anni prima, nel 1988 gli comunicai di aver sostenuto con successo la mia tesi di laurea sul pensiero di Cioran, e di averla dedicata proprio a lui, Aurel Cioran. Mi rispose con un biglietto postale “Grazie, grazie, grazie, - Tempo e Destino”. Seguono parole in rumeno che non ho mai saputo decifrare. Le sue comunicazioni postali erano sempre brevi ma intense, fino all’ultima del 10 ott. 1995, in seguito all’invio della mia tesi, dopo la morte di Emil: “Fratello mio, vi ringrazio molto per il vostro scritto molto elaborato su mio fratello. Grazie, grazie, grazie! Vi abbraccio di tutto cuore Relu”.
Ci vedemmo in tutto tre volte, la prima nell’estate 1987, la seconda al Colloque Cioran di Bucarest-Sinaia nell’ottobre 1991 e la terza nell’estate 1995.


(Aurel Cioran, chiesa di Răşinari, luglio 1987. Foto R. Rubinelli)

La prima visita ad Aurel, del 1987, quella dei due chili di caffè, è scandita sostanzialmente da due momenti: la visita a Răşinari, alla casa natale, alla tomba di famiglia e alle chiese dove il padre officiava, organizzata velocemente noleggiando un’auto all’Hotel, grazie soprattutto all’entusiasmo e allo spirito avventuriero dei tre anziani signori, Aurel e la coppia dei suoi ospiti e le lunghe soste a casa di Aurel, dove mi nutrivano gustosi, il formaggio di pecora più buono e più bianco insieme ai pomodori più dolci e più rossi che io abbia mai mangiato, bagnati dalla Tuica. Si chiacchierava molto. Non era facile mangiare a Sibiu. Solo all’Hotel si poteva, ma non fuori da rigidi orari, cui per nessuna ragione era concessa deroga. Mangiare a casa di Aurel quindi era molto di più di una loro cortesia, era per me una vera necessità.
Dopo la visita a Răşinari, poiché Alexandru per problemi di cuore non poteva salire a 1.500 metri, andai da solo a Păltiniş. Lì volevo incontrare Constrantin Noica e vistare Şanta, il luogo delle vacanze d’infanzia tanto caro a Cioran.
Dopo due giorni intensi ci salutammo. Aurel mi rimase talmente nel cuore, che lavorai alla mia tesi, con questa idea guida: il pensiero di Emil è la vita concreta di Aurel. La sofferenza testimoniata da Emil è il dolore vissuto di Aurel. Specularità a distanza di due fratelli che si volevano molto bene: l’uno (bavardeur, come Emil una volta si definì) divenne la parola che mancava all’altro, il taciturno.


Il secondo incontro al Colloque Cioran di Bucarest (1991)

Ci rivedemmo in occasione del Colloque Cioran a Bucarest. Si trattava di un incontro ufficiale, importante, organizzato dalla casa editrice Humanitas, ma anche dal ministro della cultura Andrei Pleşu. Aurel era l’ospite d’onore, la star, protetto, sempre circondato, suo malgrado. Ci scambiammo solo qualche battuta, tuttavia sentii subito il trasporto e l’affetto che ci univa, ma non volli avvicinarmi troppe volte a lui, sempre premurosamente accudito da tante persone. Allora il timido fui io. Lui mi lanciava degli sguardi, direi che ci capivamo, e questo mi bastava. A suo modo mi diceva: purtroppo non possiamo stare un po’ per conto nostro.
Ricordo che a Sinaia mi avvicinò per chiedermi di Marietta, sua nipote, che mi raccomandò e in qualche modo mi affidò, nella lettera dell’anno prima. Non ricordo se a quella data avessi già preso contatto con lei oppure ancora non l’avessi fatto. Quindi non ricordo se lo ragguagliai circa i miei incontri con Marietta o se, proprio stimolato, anzi reso colpevole, dalla domanda di Aurel su di lei, appena rientrato in Italia mi precipitai a conoscere Marietta, per assecondare questa sua volontà espressami da lui già da un anno. Ritengo verosimile questa seconda ipotesi, anche perché ho un ricordo pieno di ombre di quell’incontro con lui nel ’91, quasi mi fosse rimasta la sensazione di averlo deluso, per la mia timidezza ed incapacità ad avvicinarlo, liberandolo dalla barriera che lo circondava, ma anche per non aver ancora adempiuto alla sua richiesta di farmi vivo con la nipote.


Il terzo incontro, nel 1995

Poi venne l’incontro del 1995. Ero in Grecia in vacanza con amici. Ad un certo punto mi venne improvviso il bisogno, l’urgenza di rivederlo. Era una cosa che non avevo assolutamente programmato. Ero semplicemente in vacanza al mare. Giorno dopo giorno questa idea si fece sempre più strada in me vincendo le resistenze di inopportunità e di convenienza. I miei amici restarono un po’ sbalorditi, ma mi feci accompagnare all’aeroporto di Atene e presi un volo per Bucarest.
Giocò a favore della decisione anche la coincidenza di avere un’amica rumena, residente in Italia e temporaneamente a Bucarest con la famiglia. Erano diretti in auto a Vienna. Detto fatto, partimmo per Sibiu, lungo le strade della Romania. Il padre della mia amica, Voica Nicolaescu, infatti era un dentista, emigrato a Vienna, ai tempi di Ceauşescu. Aurel, avvertito per telefono, mi aspettava. Era con la moglie Eleonore. Ci ricevette molto cordialmente e i miei accompagnatori parlarono a lungo con lui di cose rumene. Mi sentivo  un po’ tagliato fuori, ma poiché loro sarebbero ripartiti subito per Vienna, Aurel sarebbe stato tutto per me. Lo trovai veramente in forma, molto più tonico che nel 1991. Era deciso, volitivo, pieno di vita. Volevo prendere una stanza all’Hotel: vietato! Impossibile. Provai ad insistere, davvero non mi sembrava il caso di stare in casa sua. Niente da fare. Mi offrì la sua stanza. Pensai che avrebbe dormito con sua moglie. No, il suo giaciglio era in cucina, sulla panca di legno, ricoperta solo di un leggero materassino di gomma piuma. Lo scoprii solo alla fine, perché alla mattina lui faceva trovare tutto in ordine. Ma quando dovetti alzarmi alle cinque per prendere il treno per Bucarest e lui volle accompagnarmi, anche in quell’occasione senza nessuna possibilità di oppormi alla sua scelta, vidi che si alzava da quella panca. Gli chiesi se avesse dormito lì, per il fatto di alzarsi presto e accompagnarmi alla stazione. Mi disse che aveva dormito così anche la sera precedente. Rimasi ammutolito, ma non era il caso di fare complimenti a quell’ora. Ci incamminammo, era una bella giornata, ma faceva molto fresco. Ricordo benissimo quella passeggiata e gli argomenti. Ero piuttosto indeciso sulla mia vita, coltivavo una mezza idea di lasciare il mio lavoro. Inoltre ero preoccupato perché ci sentivo sempre meno: il mio udito stava peggiorando sensibilmente. Ricordo che lui fu molto determinato nel consigliarmi di non lasciare il lavoro e di provare con tutti i mezzi di cui la moderna chirurgia disponeva, per risolvere il mio problema di udito. L’addio fu commovente. Sapevo che non l’avrei più rivisto e lo sapeva anche lui. Il tempo in questi casi non lascia molti spazi all’incertezza. Salutandomi sul marciapiede del binario, mi disse: “Pour la vie, il faut lutter”.
Mettere l’affetto davanti a ogni cosa è il mio modo di intrecciare relazioni. Non chiedo niente, solo affetto: questo, di per sé apre le porte, predispone, scioglie ogni resistenza ed ogni difesa. Il problema è che mi fermo lì; l’affettività, in una sorta di soluzione sintetica, di Aufhebung hegeliana, andrebbe “conservata e superata”, andando oltre, ma dove? Questo non mi era chiaro. E non avendo un dove andare, mi fermavo lì, ad un affettività un po’ ebete, fine a se stessa. Il mio breve soggiorno a Sibiu del ’95 è iniziato e finito all’insegna di uno sprone. All’inizio, quello del papà di Voica, la mia amica rumena, che congedandosi mi disse di “diventare grande”: ci rimasi molto male. E alla fine, sul binario, quello di Aurel, “Pour la vie, il faut lutter”: due segni inequivocabili di incoraggiamento ad agire.


Talvolta si crede, ma talvolta “on exite”

(Stanza di Aurel Cioran a Sibiu, agosto 1995. Foto R. Rubinelli)

Riprendo il racconto cronologico: congedati i genitori di Voica, Aurel, nonostante le mie insistenze contrarie, mi diede la sua stanza. Mi riposai un po’. Più tardi udii delle voci femminili. Mi alzai e andai a salutare la moglie di Aurel che tornava da Bucarest assieme ad una giovane coppia, più una ragazza. Gli ospiti se ne andarono e mi riposai ancora un po’. Quando mi alzai trovai Aurel e sua moglie intenti a guardare una telenovela in italiano “Edera” con sottotitoli. Lei diceva: Berlusconi, Berlusconi, e lo ha ripetuto più volte. Feci una passeggiata fino a Piaţa Mare, sempre incantevole, per di più con il cielo al tramonto, l’aria limpida, i colori vivi: giallo, rosa, azzurro, bianco. Tornai a casa, cenammo e andai a dormire. Lessi molto il Monte Carmelo di Saint Juan de la Croix. Straordinario! Mi sembrava che parlasse proprio a me. Lessi attentamente le sottolineature di Relu e il Prologo. Mi alzai alle otto e insieme uscimmo. Lui fece spese per la giornata. Io non riuscii a cambiare i soldi. Colsi l’occasione di trattenermi solo con lui per chiedergli se fosse contento di non aver fatto il prete. Mi rispose alla sua maniera: “la vie est bouleversée”. Non potevo aspettarmi di più da come lo conoscevo. Lui ha accettato tutto. Allora gli parlai di me, della fede ritrovata all’improvviso, senza cercarla. E gli chiesi se ritenesse che suo fratello fosse morto con o senza Dio. La sua reazione non fu molto positiva, infatti la domanda era mal posta e un po’ impertinente, ma rispose che non sapeva, che la questione era delicata: talvolta si crede, ma talvolta “on exite”. Lasciai cadere la cosa senza spingermi oltre.
Tornati a casa partimmo con sua moglie per andare a prendere Alexandru e sua moglie, la coppia di amici che era con lui otto anni prima, quando arrivai la prima volta. Inutile dire che l’incontro fu commovente. Non erano molto cambiati: lei tranquilla, calda, felice di vedermi. Lui un po’ più magro, sempre più felino e felpato. Quando lo vidi spuntare, mentre scendeva due gradini di casa, faceva attenzione a dove mettere i piedi e teneva il corpo un po’ all’indietro. Un portamento buffo, da felino un po’ spelacchiato. Guidavo io. Partimmo per Cisnădioara, dove la moglie di Aurel aveva una casetta di campagna, per trascorrere lì tutta la giornata. Clima molto cordiale, favorito anche dalla presenza di Alexandru, come sempre molto simpatico e chiacchierone, e soprattutto molto sveglio di testa. Si rideva. Si parlò di donne, di politica, di Berlusconi, di quando porterò la mia fidanzata per la loro benedizione, ecc. Poi quando loro riposavano, andai a fare una bellissima passeggiata in cima ad una collina da dove potevo vedere uno splendido panorama a 360 gradi. L’aria tersa faceva splendere i colori. Le colline intorno erano veramente incantevoli.
Tornato giù, trovai Aurel sveglio. Mi disse che dormiva pochissimo, ma non prendeva più nessun farmaco per dormire. Se si svegliava faceva qualcos’altro. Leggeva o ascoltava musica (Bach, Brahms, Chopin, Vivaldi). Stava rileggendo Les Possedées di Dostoevsky, in francese. Il titolo rumeno, Demoni è attivo, come in italiano. Il titolo francese invece è passivo: Possedées. Mi disse che è un libro straordinario per la profondità delle problematiche che animavano quella generazione in Russia: una crisi perfettamente descritta da Dostoevsky: “C’è tutto ciò che di più importante riguarda l’uomo e l’esistenza”. Poi fece uno strano discorso sull’importanza di certi incontri che cambiano le opinioni e anche la vita. Non capivo a cosa pensava e allora dissi banalmente che è sempre più difficile fare incontri interessanti. Si spiegò: aveva in mente Codreanu e il suo incontro con lui. Si capì che quell’incontro fu il punto focale della sua vita. Mi feci tutto orecchie. Poco prima gli avevo confidato che stavo diventando sordo. Lui sosteneva che non era possibile, che dovevo fare qualcosa. Mi raccontò subito di quando uno specialista gli disse che non si poteva fare niente per certe mosche volanti che lui vedeva. Era contento di questa risposta definitiva e poco dopo le mosche sparirono.


Discorrendo sulla Guardia di Ferro

Tornammo a Codreanu. Disse che era un uomo straordinario. Mi raccontò del suo assassinio  assieme a 10 o più compagni. Fu strangolato, simulando un’evasione, e sepolto dentro una prigione, coperto di materiale chimico per far scomparire i cadaveri. Una placca di cemento e poi piantati gli alberi. Il racconto in sé non è sorprendente, ma si capisce l’importanza che questi avvenimenti hanno avuto per lui. Mi dichiarò di essere stato militante della Guardia di Ferro. Disse che non si può spiegare la complessità politica di quel momento con definizioni semplicistiche. Si capiva che era ancora legato a quei ricordi. Pensai, senza dirlo, che la Guardia di Ferro fu per lui un po’ come i Boy Scout furono per me: un’organizzazione molto strutturata che allestiva campi estivi per la gioventù, fornendo una divisa (camicia verde) e un ideale (nazionalista). Alexandru, intervenendo in suo sostegno, si preoccupava di dire che non era solo destra, ma anche sinistra (perché popolare). Chiesi conto dei rituali. Dissero che non c’era magia, né Dracula. Era solo una buona organizzazione patriottica giovanile. Si capiva che non raccontavano tutto e mi stupì che alla loro età provassero ancora della passione per questi lontanissimi avvenimenti. Chiesi ad Aurel cosa ne pensava suo fratello di questo suo “engagement” nella Guardia di Ferro. Non gradì la domanda alla quale non rispose, rispondendomi che non chiese il permesso a suo fratello. Precisai allora la domanda: Emil Cioran, Constantin Noica, Mircea Eliade ecc. cosa facevano intanto? Rispose l’altro: loro erano la vetta dell’intellettualità rumena, non s’immischiavano nelle organizzazioni, ma contribuivano ad un clima culturale favorevole alla Guardia di Ferro.
Domanda sui rapporti fra Nae Ionescu e la Guardia di Ferro. Risposta di Alexandru: due percorsi paralleli e convergenti alla fine. Codreanu non fu allievo di Ionescu e non si poteva dire dell’uno, braccio, e dell’altro, mente. Aurel non gradì che le donne sentissero parlare di queste cose, o così mi parve. Infatti mi sembra che all’inizio avesse detto: “parliamo un po’ finché siamo tranquilli”. Poi Alexandru mi spiegò la chiamata al potere del generale Antonescu e il succedersi degli avvenimenti dopo la morte di Codreanu. Prima, Aurel, iniziando a parlare di Codreanu aveva raccontato di una lettera pubblica del Capitano a Iorga, dove rispondeva ad un attacco di Iorga, terminando con parole di questo tipo: se io finirò appeso con la testa in giù, tu sarai lo stesso uno … (un’offesa, una parola da non ripetere). Per questo fu arrestato e ucciso.


Tra silenzio e parola

Precedentemente, per essere gentile con Eleonore dissi, ma anche lo pensai, che io e Aurel siamo taciturni e allora lei parla per tutti e due e crea un’atmosfera. In più dissi che in certe parole di lei, sentivo che era lui a mandarmele a dire. Non pensavo esattamente questo. Volevo dire che lui, per esempio, dice a lei che io devo essere trattato come un “fratello” perché sono un “fratello” (la prima cosa che lui mi scrisse nella dedica a La caida en el tempo); e se lei mi viene a dire che io sono “fratre”, io percepisco subito che non è farina del suo sacco, ma viene da lui. Trasformai però il concetto in qualcosa di positivo per lei, dandole questo ruolo di intermediazione fra due taciturni che si vogliono bene. Lo guardai e mi sembrò che non avesse gradito. Capii cosa pensava. E infatti lui lo disse. Disse che non servono le parole, che ci si capisce anche meglio con gli sguardi. Fui felice di quello che disse e ne capii l’importanza. Allora mi sentii in dovere di correggere, senza fare marcia indietro con lei. Dissi che è esatto quello che ha detto lui, ma che comunque le signore servono a creare un atmosfera. Mi salvai bene, facendo capire a lui che sapevo che lei è un’altra cosa e non la sua interprete e a lei trasmisi l’apprezzamento della sua gentilezza. Durante il discorso era emerso che fra i due c’era stata una discussione circa il fatto che lei mi faceva delle domande sulla famiglia, l’amore ecc. e Aurel la sgridava sostenendo che sono cose personali. Lei si sentiva vincente e disse che era contenta di avermele fatte e di sapere così qualcosa di me. Dopo la discussione su Codreanu arrivarono altri amici, quelli che erano già venuti in casa di Aurel a Sibiu. In più c’erano un francese e un ungherese.
Quando arrivò la moglie di Aurel si fecero le presentazioni, l’ungherese disse il suo nome e lei chiese “Hongroi?” e l’altro “Oui” e lei “alors tu es le bienvenu ici!” con sguardo molto significativo. Lui capì. Fu un momento un po’ teso, ma simpatico. Prima a tavola si era parlato anche della questione ungherese in Transilvania ed io avevo fatto il paragone con il Sudtirol. Dissero che gli ungheresi vogliono sempre di più e l’Ungheria interviene nella questione. Io dissi che così è stato anche con il Sudtirol, ma noi abbiamo dato tutto e per fortuna l’Austria non preme. Quando arrivarono gli amici stavamo parlando della situazione politica italiana. Ne avevamo già accennato, ma solo dopo aver parlato di Codreanu e della politica rumena degli anni ’30-’40. Alexandru mi chiese se il partito fascista fosse sempre uguale o se fosse tutt’altro. Allora gli spiegai tutto e in particolare la mossa furba di Berlusconi che permise ai fascisti di uscire dall’isolamento. Prima parlammo dell’invasione di ebrei, tre milioni, della Moldavia; ebrei che venivano dalla Galizia in Polonia, e che occupavano il territorio con una strategia molto fine: prima venivano delle avanguardie che mettevano su degli alberghi, poi venivano gli altri ospiti negli alberghi e un po’ alla volta la Moldavia fu occupata. I Moldavi non facevano resistenza e la Guardia di Ferro voleva sollecitare la resistenza dei Moldavi. Tutto questo discorso era partito dal fatto che loro dicevano che ciò che si diceva di male della Guardia di Ferro era propaganda giudea. Questi due vecchietti, così gentili e amabili con me, purtroppo non erano mai più usciti ed erano ancora prigionieri del peggior clima culturale della storia contemporanea, quello interbellico nazionalista e antisemita.


Dragoste: amore? “È più che amore. È più spirituale”

(Renzo Rubinelli con Aurel Cioran, agosto 1995. Foto Rubinelli)

Quando arrivammo alla casa di campagna andai a prendere l’acqua dal pozzo con Aurel. C’era un secchio di metallo attaccato ad una catena che scendeva nel pozzo e facendo girare una ruota si tirava su. Appoggiai un attimo per terra il secchio e Aurel si arrabbiò: “No per terra!” mi disse un po’ stizzito. Questo mi fece pensare a qualcosa di ortodosso e cioraniano ad un tempo: la gravità della contaminazione della purezza della sorgente d’acqua, attraverso il contatto con la materialità della terra. Purtroppo non ho fotografie di questa giornata. Avevo dimenticato la macchina fotografica a casa. Tornati a Sibiu, uscii a cercare soldi e finalmente li ho trovai: due coniugi piemontesi mi diedero 30.000 lire in cambio di un assegno e con queste presi 30.000 Lei. Rientrai a casa, cenammo, feci una foto con Aurel e andai a dormire. Lessi un po’ di Saint Juan de la Croix. Spensi la luce, ma ogni ora ero sveglio. Alle cinque suonò la sveglia: mi lavo, mi vesto,  vado in cucina. Lascio Aurel che dorme e scrivo un biglietto. Lui si sveglia di soprassalto e dice: “cinq minutes!”. A quel punto sono pentito di aver lasciato il biglietto, che era destinato ad esser messo fra il cuscino e il lenzuolo del suo letto, dove io avevo dormito. Il fatto che lui lo legga in mia presenza mi dà abbastanza fastidio. La sera prima di partire Aurel prepara tre copie di Lacrimi şi sfinţi con tre dediche una per me, e due per Marietta cui dovrò portarli. Leggo la mia dedica e capisco subito che c’è un “dragoste” che dà significato alle poche parole scritte, di cui una mi sembra che contenga la radice fratre. Cerco dragoste nel vocabolario e con sorpresa trovo amore. Credevo che il numero esiguo di parole rispetto alle dediche alla nipote preludesse a qualcosa di convenzionale. Invece no, salta fuori questo amore che è quanto di meglio potessi aspettarmi. La positiva sorpresa di sintonia diventa perfetta quando gli dico: dragoste: amore? E lui risponde: “È più che amore. È più spirituale”. Sono felice: non mi sono sbagliato.


Renzo Rubinelli
(n. 1, gennaio 2012, anno II)


* Pubblicato nel volume Întâlniri cu Cioran, culegere realizată de Marin Diaconu, Mihaela Genţiana Stănişor, Fundaţia Naţională pentru Ştiinţă şi Artă, Bucureşti, 2011.