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«Atac în bibliotecă», il grande giallo di George Arion
Salutato da un critico letterario della statura di Ovid S. Crohmălniceanu alla sua uscita come il libro genuinamente iniziatore del romanzo poliziesco autoctono (e definiva il suo autore come «un Raymond Chandler romeno»), Atac în bibliotecă (Ed. Eminescu, 1983) di George Arion è un giallo spassoso e, per come esso viene giocato, quasi parodistico di questo genere paraletterario; in esso l’autore punta su uno stile vivace e linguisticamente ironico, fitto di espressioni gergali, con frecciatine asprigne e chiaramente allusive alla realtà sociale e al clima politico dell’epoca (il romanzo è stato scritto agli inizi della decade conclusiva della dittatura del sinistro clan dei Ceaușescu) e alla bolsaggine del suo linguaggio, tutte sfuggite incredibilmente alle grinfie della censura (o tollerate?); insomma, è un giallo che combina l’umorismo e il sarcasmo con la suspense tipica del genere, andando quindi oltre i cliché connaturati alla letteratura giallo-poliziesca, e proprio per questi motivi esso ci sorprende per la sua originalità e per la sua capacità e forza di catturarci e di tenerci incollati alle sue pagine grazie anche, oltre a una buona dose di mistero e di colpi di scena dosati sapientemente, al sorriso e all’ammiccamento. Il protagonista, il giornalista Andrei Mladin (che comparirà in seguito in altri sei romanzi, ripubblicati in varie edizioni, visto il loro costante successo di pubblico, in un unico volume, Detectiv fără voie, l’ultima presso le edizioni Crime Scene Publishing, 2009), si sveglia stordito nel suo appartamento – in uno dei tipici «bloc» grigi e anonimi del paesaggio urbano bucarestino – senza avere la minima idea di che cosa gli sia accaduto la notte prima; ma il suo stupore è ancor più grande quando scopre che nella biblioteca di casa è riverso su un mucchio di libri il cadavere di un uomo, Valentin Meranu, il maggiordomo del(l’antipatico) dottore Paul Comnoiu, conosciuto da Andrei Mladin quando era stato nella lussuosa casa di questi per intervistare la figlia Mihaela, celebre e fascinosa, e un tantino presuntuosa, concertista di violino, con la quale nasce una certa attrazione. È proprio da questa intervista che si mette in moto tutto l’inghippo in cui viene coinvolto Andrei Mladin il quale cercherà di dimostrare di non essere lui l’assassino, ma qualcun altro che George Arion ci svelerà in una tirata scena d’insieme negli ultimi capitoli dove tutti i nodi vengono al pettine.
Una curiosità: tra i romanzi gialli di Agatha Christie ve n’è uno intitolato The body in the library (1942): forse George Arion, divoratore di romanzi polizieschi, è stato inconsciamente influenzato dal titolo della giallista britannica? Vero è comunque che, come ha ammesso l’autore stesso, la frase che apre il romanzo (Cadravul se află în dreapta mea, așezat pe-un maldăr de cărți) frullava nella sua testa e da sempre avrebbe voluto che aprisse proprio il libro che sognava di scrivere.
Atac în bibliotecă si sta facendo conoscere all’estero ed è già stato proposto in inglese dall’editrice ProFusion di Londra (Attack in the library) e in francese dalle edizioni franco-belghe Genèse (Qui veut la peau d’Andrei Mladin?), che aveva proposto in precedenza un altro giallo di George Arion, Cible royale (in romeno Nesfîrșita zi de ieri apparso in precedenza col titolo Șah la rege). Che si stia profilando un’alternativa romena agli scandinavi? Probabilmente la risposta è no. Comunque, questo è il terzo esempio da seguire… (si vedano i precedenti articoli apparsi in «Orizzonti culturali» sulla giallista Rodica Ojog Brașoveanu e sul romanzo poliziesco Amîndoi di Liviu Rebreanu).
Frammento da «Atac în bibliotecă»
1
Il cadavere giaceva alla mia destra, riverso su un mucchio di libri. Un tempo mi sarei precipitato fulmineo come uno scoiattolo per rimetterli sugli scaffali. Ora invece guardo come inebetito la persona che giace in una pozza di sangue. Il suo nome è Valentin, ma che ci faccia in casa mia e perché abbia quell’enorme squarcio in testa non ve lo saprei dire neppure se mi torturassero con un ferro arroventato. Detto per inciso, quando a mio nonno veniva ricordato un supplizio del genere, si limitava a dire «Brr! Che cosa abominevole!» Chiusa citazione. Dopo qualche minuto sono ritornato in me come un malato anestetizzato per sbaglio destinato a una operazione che doveva essere eseguita su qualcun altro. Tento di capire qualcosa di quanto è successo; non ci riesco. Da sempre, nei momenti chiave, la mia materia grigia ci tiene a non importunarmi con la sua presenza, porgendomi un avviso di ferie a lungo termine. Ovviamente lo rifiuto cui oppongo puntualmente un ultimo avvertimento. Ho un lancinante mal di testa; sento in bocca un gusto talmente amaro da propormi di andare urgentemente in cucina per addentare una zolletta di zucchero. Un’impresa più ardua di questa non mi è mai capitata. Mi trascino, appoggiandomi alle pareti. Il pavimento sembra in pieno beccheggio. Non mi sorprenderei di sentire da qualche parte una voce che al megafono mi urlasse l’ordine di arrampicarmi sull’albero maestro per riferire se da lassù si vede terra. Con mia gioia, per quanto aguzzi gli orecchi, non sento siffatto ordine. Per fortuna che i miei non mi stanno vedendo, altrimenti mi farebbero una ramanzina coi fiocchi, infarcita di esempi di vari conoscenti che non hanno fatto proprio una fine gloriosa. Di sicuro mi verrebbe ricordato che se da bambino avessi preso da bravo l’olio di pesce e non ci avessi nutrito – a quanto pare spinto dalla pietà – varie crepe dell’assito, come faceva Tom Sawyer, affinché non si rovinasse, e se non fossi scappato via come un vigliacco il primo giorno di asilo, quando la maestra mi domandò come mi chiamassi, e se a scuola avessi capito che i professori che combattevano le teorie di Mendel e Morgan mi dicevano cose più importanti di quelle che trovavo nei romanzi di avventure letti sotto il banco, tutt’altro corso avrebbe allora avuto la mia vita. Chiunque se la riderebbe nel contemplare un giovanottone alto un metro e ottantadue centimetri e del peso di 75 chilogrammi (netti) che avanza come su un terreno minato verso le dipendenze della propria casa. Con una cartina e una bussola credo che me la sarei cavata più agevolmente. Non sarei finito nel ripostiglio, dove ho fatto a pugni con alcuni vestiti, e probabilmente avrei evitato di rovesciare un vaso di fiori, già un po’ avvizziti a dire il vero. Dopo lunghe peripezie arrivo finalmente in cucina dove una guardia federale constaterebbe un altro disastro: sul tavolo ci sono delle bottiglie vuote, tre di vodka e una di vino. La rapidità nell’enumerare i vuoti l’ho ereditata da mia nonna. Non appena notava che lo slancio bacchico di alcuni commensali superava i limiti dell’atavico buonsenso, sbottava imbronciata: «Guarda qua quante ve ne siete scolate!» E dava la cifra esatta. Al che mio nonno ribatteva indicando con un ampio gesto la sfilza di birre o i portafiaschi con le bottiglie ancora da stappare: «E quante ce ne rimangono ancora!» Chiusa citazione. In tutta la cucina ci sono chiazze di bevande e avanzi di cibo su piatti accatastati alla rinfusa. Per quanto mi sfreghi gli occhi, ho sempre di fronte a me lo stesso campo di battaglia in tutto il suo splendore messo a soqquadro da un nemico con una tecnica militare ben collaudata. Mi sembra semplicemente di sognare: non ricordo di aver bevuto e mangiato ieri sera a casa. Soprattutto in quantità come queste che superano di molto le mie capacità di ingerimento e che sembrano più adatte a sedare la fame di una guarnigione sfuggita a un lungo assedio. Rinuncio alla zolletta di zucchero e mi convinco che devo andare in bagno. Ficco la testa sotto il getto dell’acqua fredda. Senza asciugarmi, mi trascino in camera, mi arrampico sul letto servendomi di alpenstock e piccozza e sprofondo nel sonno per alcune ore, come se per errore avessi ingurgitato una manciata di sonniferi invece una di noccioline.
È già sera quando mi sveglio e scendo dal letto senza aver bisogno di una scaletta. Il malumore di prima mi è passato un po’. Però ora mi è venuta una fifa terribile. «Forse avrò avuto delle allucinazioni», mi dico ad alta voce per infondermi coraggio, e mi dirigo verso la biblioteca per capire se il corpo abbia raccolto le sue carabattole e se ne sia andato. Ma dove credete che sia, cari concittadine e concittadini? La rotazione della terra non l’ha smosso neppure di un centimetro. Ora però dispongo della necessaria lucidità per ispezionare il luogo più attentamente. Innanzitutto mi incavolo perché un sacco di libri si trovano sparsi per terra. Una poltrona è rovesciata, e delle fotografie che ritraggono alcuni scrittori classici sono state tirate fuori dalla cartella in cui di solito le tengo, e sparpagliate in giro. Chi l’ha fatto, avrà pensato che erano foto di famiglia. Per terra si trova anche il manoscritto del libro a cui sto lavorando che porta come titolo provvisorio, così, perché mi acchiappa, L’argot come gergo. Se lo vedessero i linguisti, insorgerebbero indignati. Ma se un procuratore vedesse il caro Valentin, pronto per essere vestito in un cappotto di legno, come reagirebbe? Non ci vuole chissà quale preparazione criminalistica per capire che qui qualcuno ha menato le mani con molta perizia. Chiunque trarrebbe la conclusione che io e questa persona, che se ne sta stecchita sul tappeto, abbiamo fatto del nostro meglio per mettere su una scenetta capace di strappare le lacrime anche a un aguzzino prossimo alla pensione. È vero, c’è stato bisogno di molto impegno, ma il risultato ha tutte le carte in regola per essere giudicato veramente soddisfacente.
Scopro anche con che cosa è stato ammazzato Valentin: con uno dei pesi con l’aiuto dei quali la mattina dovrei sciogliermi i muscoli. Li tengo solo a scopo decorativo, per fare buona impressione alle mie visitatrici. Ma bravo, Andrei Mladin, giornalista romeno in vita! O meglio, ancora in vita! Perché non vedo come tu te la potrai cavare dopo una faccenda del genere! Prendi su e sbevazzi con dei tizi – che neppure conosci bene – li adeschi come un sadico nella tua topaia, li insacchi di botte e li fai fuori! Che ti aveva fatto il vecchietto? È questo il rispetto che porti tu nei confronti di chi è più anziano di te? Invece di cedergli il posto in tram – il fatto che tu circoli in città in macchina non è un’attenuante – di aiutarli ad attraversare la strada o di tagliare la legna al loro posto, tu gli fracassi in testa un attrezzo ginnico? Se tu abitassi su un altro meridiano, non sfuggiresti alla sedia elettrica su cui sfrigoleresti come un pollo allo spiedo, per quanto al processo davanti ai giudici sosterresti che il medico non ti abbia ha mai prescritto choc elettrici o che avresti la carne non troppo tenera. Come se la tenerezza contasse qualcosa!
D’accooordo. Allora, permettetemi, amici cospiratori, di non aver capito neanche un po’ quel che è accaduto. In primo luogo, non mi ricordo che Valentin sia mai venuto con me a casa mia, anche se mi è stato simpatico fin dal primo momento che l’ho conosciuto. A essere sincero, non ricordo neppure di aver bevuto ieri sera così tanto da non sapere che cosa ho intrapreso e in nome di quali ideali. E la mia memoria allenata a immagazzinare decine di numeri di telefono appartenenti a persone quanto mai carine non si degna questa volta di darmi una pista su come sono tornato a casa. Quando avrò tempo, mi comprerò una memoria per elaboratori elettronici, e che non mi degni più di essere il rampollo della signora Mladin se permetterò ancora che si verifichino altre fughe di dati. Oppure, meglio ancora, comincerò ad assumere compresse di glutammina.
Dunque… Meglio se prima faccio un po’ d’ordine intorno e solo dopo tentare di chiarire la situazione. Non a caso anche mio nonno diceva sempre: «Una casa pulita come un bicchiere stimola i pensieri». Chiusa citazione. Innanzitutto devo sbarazzarmi del cadavere. Di chiamare la polizia non se parla neanche. Che spiegazioni potrei spifferarle quando mi ritrovo con una falla nella memoria come questa? Non mi toglierei più d’impiccio e, anche se ci riuscissi, si alzerebbe un tal polverone attorno al mio nome che potrei appendere la penna al chiodo e mettermi a combattere lo scarafaggio della patata nelle patrie campagne. Io ho bisogno di indagini discrete, condotte da un uomo che non strombazzi tutto in giro, perché ho anch’io certi amici che aspettano con un entusiasmo appena trattenuto il momento in cui mi spezzerò il collo. Ebbene, spero che non succederà. E approfitto dell’occasione per annunciare che la partita non è ancora conclusa. «Non avrà la vita facile chi mi ha provocato» mi dico per rincuorarmi, ma poi mi prende di nuovo la disperazione. Che cosa avrebbe fatto mio nonno in una situazione del genere? Di sicuro avrebbe detto alla nonna: «Donna, guarda che in giro circolano certi farabutti che ci vogliono fare del male. Mi scoccia occuparmene io. Acciuffali tu e consegnali alla polizia». Chiusa citazione. E sarebbe rimasto calmo e fermamente convinto che la faccenda sarebbe stata portata a buon fine dalla propria consorte.
Per un istante penso e giungo alla conclusione che non ci sia persona più discreta e allo stesso tempo più solerte di me stesso. Incurante delle proteste che piovono dal loggione, sarò io a condurre le indagini. Getto uno sguardo di riconoscenza ai romanzi polizieschi allineati sugli scaffali e mi metto all’opera.
Primo problema da risolvere: come disfarmi del cadavere almeno per alcuni giorni? Dato lo slancio per la pulizia dei miei condòmini, se lo trasporto nella lavanderia verrebbe trovato subito. Lasciarlo nell’ascensore e far finta di niente sarebbe un errore altrettanto madornale, anche se, a volte, di notte, c’è sempre qualche ubriacone che ci ricava il proprio giaciglio. La cosa migliore è portarlo giù nello scantinato; lì fa anche fresco. L’idea è buona, ma come ce lo porto? Non ho scelta, devo rischiare. Aspetto che si faccia mezzanotte, afferro Valentin per un braccio e lo trascino come se fosse reduce da una sbronza di grappa alla prugna in proporzioni pari a quelle di un intero reggimento. Entro nella parte alla perfezione, tanto che mi permetto di fargli una blanda ramanzina visto che alla sua età ha ancora il vizio dei superalcolici. Probabilmente si vergogna un po’ visto che non fiata risposta. È più pesante di quanto mostri il suo gracile aspetto. Scusatemi per la suddetta frase fatta; ma chi se ne va in giro trascinando un cadavere non può astenersi dal pronunciarla. Dallo spioncino non si vede anima viva. Lascio Valentin in corridoio ed esco sul pianerottolo. Da lì chiamo l’ascensore. Riafferro Valentin per un braccio e quando l’ascensore arriva al nostro piano faccio per entrarci dentro insieme a lui. Un movimento maldestro ci è fatale e ruzzoliamo entrambi a zampe all’aria, provocando un baccano che infrange platealmente le disposizioni affisse nella bacheca del condominio. Dopo sforzi sovrumani entriamo comunque nell’ascensore e tiro un sospiro di sollievo solo dopo aver premuto il pulsante del pianoterra. Una volta arrivati, apro con cautela la porta ma la richiudo prontamente. La mia vicina di pianerottolo, prossima ormai a cambiare il prefisso dell’età dal 5 al 6, la solitaria signorina Margareta, di ritorno non si da dove a quest’ora, aspetta fiduciosa davanti all’ascensore. Faccio risaettare subito l’ascensore verso il settimo piano dove abito io. Qui mi attende un’altra sorpresa altrettanto gradevole. Un tipo baffuto, ospite della famiglia Nedelcu, gli altri miei vicini di pianerottolo, brama anche lui di penetrare nell’ascensore. La veemenza con cui mi oppongo desta lo stupore in coloro che lo stanno accompagnando. Con le porte riaccostate, premo il pulsante del terzo piano. A questo piano regna il silenzio. Scendo le scale trasportando Valentin come meglio posso. Nel frattempo si sente echeggiare lo sferragliare dell’ascensore che è ridisceso chiamato dalla signorina Margareta, che l’ha condotta su e poi è ritornato giù insieme al baffuto. Quando sento il portone del condominio chiudersi dietro di lui, scendo fino al pianoterra. Nessuno. Una lampadina illumina fiocamente le cassette postali e un avviso con il quale i residenti vengono esortati a non rimanere indietro con il pagamento delle spese condominiali. Mi impegno solennemente a rispettare questo invito. Prima di arrivare alla porta dello scantinato, scendo ancora qualche scalino in preda a un acuto stato di prostrazione psico-fisica. Scusatemi, amici, ma quando si posseggono delle nozioni mediche, per quanto rudimentali esse siano, non ci si può astenere dal tentare, fosse anche con cautela, di analizzare il proprio stato di salute ed eventualmente prescriversi una cura. Una che farebbe proprio al caso mio sarebbe di trovarmi sulla spiaggia che scorgo di sfuggita in una fotografia a colori appesa lì a una delle pareti per rendere ameno l’ambiente. Anche se la fotografia è cosparsa da parecchie caccoline di mosca, riesco tuttavia a intuire che le persone, non molte, di sesso femminile che se ne stanno spaparanzate al sole non devono aver speso granché per coprirsi le forme in rilievo.
La porta è chiusa col lucchetto, tuttavia mi ero premunito di prendere con me la chiave. Apro senza fare troppo rumore, mi addentro in quell’antro inospitale e depongo il cadavere in un angolo. Mi era caro il defunto, ma lascio le lacrime per dopo. Come potrei vendicarlo e salvarmi la pelle se mi mettessi a frignare come una collegiale che ha sentito per la prima volta un ufficiale degli ussari oltraggiarle la madre? Esco, chiudo con un lucchetto che ho portato apposta affinché non ci entri qualche intruso. Ritornando a casa, getto un’altra occhiata ai quei corpi abbronzati e con piacere mi rendo conto che accanto a loro, sulla spiaggia, c’è sufficiente spazio anche per me.
Eccomi di nuovo nel mio appartamento. Dal momento in cui l’ho lasciato sono trascorsi solo quindici minuti, ma sembra che sia passato un secolo. Il cuore non mi batte più all’impazzata, altrimenti dovrebbe traslocare in un torace più capiente! Ma non faccio in tempo a dire che tutto è a posto quando il trillo del campanello della porta mi mette sottosopra. Il primo pensiero è questo: «È finita, l’hanno già scoperto, forse è meglio così, mettiamoci una pietra su questo calvario», e corro ad aprire. Spalanco la porta e, a occhi chiusi – chi ci potrebbe essere davanti a me se non due poliziotti impettiti? – e porgendo i polsi perché mi siano impreziositi da bracciali di acciaio esclamo:
«Prendetemi!»
«Oh, caro, che ti è successo? Sei di un pallore!»
No, mannaggia! Chiedo venia! Questa è voce di civili. Sgrano gli occhi, grandi come piatti da minestra, e mi trovo davanti la signorina Margareta. È vestita così come l’avevo vista mentre tornava dalla città, in un completo con una gonna di colore scuro e dal taglio severo, come si addice a una donna ammodo, che trascorre con giudizio gli ultimi anni di vita, fiera della propria reputazione di persona onesta e di esemplare correttezza. Il fitto chignon che le stringe i capelli lascia sfuggire sulla fronte solo alcune ciocche ribelli e birichine che, unite all’eterno suo sorriso a fior di labbra, la rendono indicibilmente simpatica a molti, spingendoli a interrogarsi su quale aspetto avrà avuto in gioventù.
Non ritraggo le mani con sufficiente rapidità senza che la signorina mi faccia notare una cosa:
«Dovresti tagliarti le unghie, caro Mladin. Conosco io una manicure eccezionale. Ti taglia le pellicine con una tale leggerezza che se le chiedi se ha cominciato, ti risponde che ha già finito. E allo stesso tempo ti espone come è andato l’ultimo spettacolo al circo. È un’esperta in materia, è una patita dei numeri con elefanti e topolini».
«Grazie del pensiero. Domani le chiederò l’indirizzo di questa persona. E quando andrò da lei, avrò cura di regalarle qualcosa di adatto ai suoi interessi per l’arte. Non prometto un elefante, ma ci si può sempre procurare un topolino di questi tempi. Per il momento però preferirei andare a letto. Non fa niente se ho le unghie così lunghe. Non è mio costume ridurre a brandelli le lenzuola, specie le mie».
La signorina non si dà per vinta
«Io non ho tanto sonno. Non vuoi che ci beviamo qualcosina insieme? Ho portato un cognacchino» fa lei burrosa. «Sopraffino: SKAN-BER-BEG» dice la distinta cinquantenne scandendone il nome con difficoltà e passandomi una bottiglia sotto il naso.
Guardo la signora attentamente. Che le è preso? Non mi ha mai fatto proposte del genere. Da quando si è messa ad alzare il gomito? Bada a te: sarà anche adorabile la signorina, ma mi è giunta voce che è una pettegola come poche. Si dice che per curiosità una volta abbia contato tutti i sampietrini che lastricano la nostra via.
Al solo pensiero di dover assaggiare un qualche liquore, mi vedo già vorticare insieme a quello che mi sta intorno. Quanto all’idea di stare in compagnia della signorina Margareta, posso solo dire che sarebbe stato meglio se alla porta avessero suonato due rappresentanti della legge.
«No, grazie, sono stanco morto. Domani mi devo alzare presto».
«Già, lo so, voi giornalisti siete sempre di corsa» dice lei comprensiva e sospirante. E continua con una vitalità che contraddice lo stato d’animo di poco prima.
«Ma perché mi hai sbattuto in faccia la porta dell’ascensore? Ho come la sensazione che tu non fossi da solo. Marpione, non metti mai giudizio!»
La signorina Margaret fa finta di scherzare. C’è qualcosa però nel suo tono di voce che mi avverte che si tratta di un trucco. Avrà visto Valentin nell’ascensore e capito in che stato si trovava?
«Sa», le dico io subito improvvisando, «il medico mi ha raccomandato di fare su e giù con l’ascensore il più spesso possibile. La differenza di pressione dal settimo piano al pianoterra assicura all’organismo un ottimo metabolismo».
La signorina Margareta si ritira ammutolita nel suo appartamento. Più tardi, per tutta la notte ho sentito l’ascensore in funzione. Credo che sia inutile dire di chi fosse il sorriso che veniva trasportato dal settimo piano al pianoterra e viceversa.
Chiudo la porta e vado a mettere ordine in casa. Con il tappeto non si può far più niente di rimediabile, quindi lo sostituisco con un altro più vecchio. Con un’acribia degna di un bibliotecario che non si è solo accontentato di imparare la classificazione decimale, ricolloco sugli scaffali i miei libri. Alcuni dischi sono andati in pezzi sicché li butto nel cestino. Mi spiace solo per il concerto per violino e orchestra di Mendelssohn-Bartholdy. Questo ve lo dico per fare bella figura. Se non fosse notte fonda, passerei anche l’aspirapolvere. Preferisco rispettare però la quiete dei coinquilini. Prendo quindi una scopa e ripulisco con cura ogni anfratto senza lasciare la minima traccia di polvere. Me la cavo egregiamente perché, con i 37 anni che mi ritrovo sul groppone, cittadini e cittadine, sono solo soletto, ed è questa la ragione per cui posseggo varie conoscenze nel governo di una casa.
Tiro a lucido anche la cucina con eccelsa professionalità, poi la camera da letto e il bagno. L’appartamento brilla di pulito. Potrei partecipare con successo al concorso «La nostra casa come un fiore», destinato a larghe masse di condòmini provenienti da ogni dove. Sono le quattro del mattino, il meteo ha annunciato che sarà una splendida giornata di giugno, il sole sorgerà alle 5,31 e tramonterà alle 21, così come riporta il mio calendario sulla scrivania, però per me ciò che seguirà sarà solo un incubo dal quale forse mi sveglierò all’improvviso, così come, allo stessessimo modo, potrei anche non svegliarmi più. Mi faccio una doccia rinvigorente, mi rado a puntino, mi metto una camicia che oggi uso per la prima volta e mi infilo dei pantaloni neri appena stirati. Mi metto un paio di scarpe con le suole soffici e comode. Se non si consumassero, mi piacerebbe un sacco farci il giro del mondo. Chi mi psicanalizzerebbe, direbbe senz’ombra di dubbio che voglio scacciare da me lo spettro delle preoccupazioni e credermi disceso in un universo accogliente e amichevole. Ebbene, così è. Seduto in poltrona, metto un disco con musiche di Vivaldi, ci poggio sopra la puntina e cerco di raccogliere i pensieri. A dire la verità, è abbastanza difficile. Ma in gioco c’è la mia vita, per cui vale la pena sforzarsi.
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 2, febbraio 2015, anno V)
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