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«320 gatti neri». Rodica Ojog-Brașoveanu, la «Agatha Christie» romena
Rodica Ojog-Brașoveanu (ROB) (1939-2002) è unanimemente considerata come la maggiore, se non l’unica, scrittrice romena di romanzi gialli e per tale ragione è stata soprannominata, a giusta ragione, la «Agatha Christie» romena, la «maestra del romanzo poliziesco romeno».
In gioventù, durante «obsedantul deceniu», gli anni dello stalinismo più duro, ROB subisce, per le sue origini «nesănătoase», i soprusi del regime comunista. Proveniva infatti da una famiglia borghese: il padre, ex deputato liberale, poté fare l’avvocato fino al 1948, anno in cui fu ʻepuratoʼ, finendo più volte agli arresti. Dopo gli studi liceali, s’iscrive alla Facoltà di Diritto di Bucarest – desiderosa di seguire la professione del padre – ma nel 1956 (è l’anno dei fatti d’Ungheria) viene arrestata ed espulsa dall’università con l’accusa di sostenere la rivolta popolare anticomunista di Budapest. Seguono nuovi duri anni di ostracismo sociale e solo nel 1962 è ʻriabilitataʼ dopo aver lavorato per un anno come operaria non qualificata in una fabbrica di medicinali e può tornare a studiare. Sceglie quindi di iscriversi alla Facoltà di Diritto di Iași, laureandosi poi all’Università di Bucarest nel 1967. Riprendeva quindi tutto da capo, decisa come non mai a seguire le orme del padre, dedicandosi all’avvocatura, ma che poi lascerà definitivamente per occuparsi della sua nuova professione di autrice di gialli.
Dopo il primo e breve matrimonio con un ricco aristocratico, Bebe Gașpar – non poteva però sopportare l’idea di condurre un’esistenza ʻall’ombraʼ, lei voleva dedicarsi alla propria carriera –, sposa in seconde nozze l’attore Cosma Brașoveanu, matrimonio felice e… provvidenziale poiché sarà proprio lui a convincerla a dedicarsi alla scrittura, a scrivere romanzi gialli, un genere con il quale, le diceva, poteva avere un rapido successo. In effetti, così è stato: ROB consegna il primo manoscritto all’editrice «Albatros» che verrà pubblicato quasi subito, nel 1971: è il suo primo romanzo giallo, Moartea semnează indescifrabil.
Da questo momento prendono vita le sue eroine principali, l’anziana e arguta Melania Lupu e la più giovane e bruttina Minerva Tutovan, due figure di donna diversissime, «braccate» per così dire, rispettivamente dal maggiore Cristescu e dal tenente Dobrescu.
Nei suoi 35 romanzi e vari volumi di racconti, ROB ha toccato anche il genere storico (cui si è accostata perché, a un certo punto, anche i romanzi gialli erano pesantemente censurati) e una sola volta quello fantascientifico.
320 gatti neri (320 de pisici negre, 1979, Editrice Dacia, Cluj-Napoca, in seguito riedito più volte, come tutta l’opera della scrittrice, dalle Edizioni Nemira, Bucarest) è uno dei gialli più riusciti e amati dal pubblico appassionato, dove ROB mette in scena, fra malfattori stranieri e nazionali, fra inseguimenti e rocamboleschi colpi di scena, anche l’inseparabile gatto nero di Melania Lupu – il 320° dei 319 del titolo! –, Mirciulică, che diventa, suo malgrado, uno dei personaggi-chiave della trama, dato che Melania, fatta evadere dal carcere, pone una condizione affinché lei sveli il luogo in cui si trova la statuetta di una Madonna in oro massiccio, oggetto dei desideri del malvivente inglese, Ned Norton, giunto appositamente a Bucarest per impossessarsene: che sia ritrovato il suo amato micio, senza il quale ovviamente non può riacquistare la memoria...
Al di là della storia cucita con ironia e umorismo, e sorretta con intelligenza, condita da tutte le trovate tipiche del genere, si possono far rilevare due aspetti: da un lato, la storia ha come sfondo una Bucarest vintage, quasi irreale e sospesa nel tempo, che ROB, bucarestina purosangue – e lo si avverte – descrive con affetto; dall’altro, la sua cifra stilistica che impregna il racconto di una lingua elegante, forse, o decisamente, «démodé» – e chissà, proprio per questa ragione, così affascinante – che ROB non si perita di infarcire con termini gergali ad hoc; ne valga come esempio questa sfilza di termini del gergo per «(andare in) galera»: pîrnaie, la întristare, la mititica, la răcoare, pension, Sorbona .
C’è anche un breve passaggio, ma se ne potrebbero individuare altri, che può essere letto alla luce della realtà, della doppia realtà di allora, del clima di controllo e di pervasiva intrusione della Securitate, che l’esperienza di vita personale di ROB non poteva non far filtrare nei suoi romanzi, pur di un genere «leggero» come quello poliziesco, e che sorprende quindi sia passato indenne sotto gli occhi del censore. Questo il breve estratto: «(…) Privi strada prin dantela subțire a perdelei și i se păru că totul e în regulă. Gospodine, poştașul, trecători fără importanță. “Omul gri, ăsta e periculos”, îi atrăsese atenția Ned. “Individul care seamănă cu mii de alți indivizi, despre care nu poți să spui absolut nimic și care e de obicei îmbrăcat în cenușiu. Îl întîlnești de cinci ori pe zi, și tot de cinci ori îți spui că îl vezi pentru prima oară, asta dacă în general îl observi. Cînd vei constata că un asemenea specimen sună la ușă sub cel mai nevinovat pretext din lume, sau că dă tîrcoale prin împrejurimi, vei putea paria pe ultimul dumitale ban că ești filată (...)”». Non c’è qui forse una chiara allusione ai «băieți» sguinzagliati ovunque, occhio vigile del regime?
Frammento da «320 gatti neri»
Capitolo I
L’arresto
Il maggiore Cristescu la osservò per qualche istante, poi estrasse dalla tasca un cartoccetto nero e lo pose sul tavolo.
– E questo cos’è? Un regalino per Mirciulică?
– Voleva una prova, disse Cristescu, scuotendo la testa. Eccola!
L’anziana signora tolse la carta lentamente. Rimase con il negativo nel palmo della mano e lo guardò perplessa.
– Che ne dovrei fare? Non sono pratica di queste cose...
– Lo srotoli lentamente tenendolo in controluce…, sorrise divertito il maggiore, Basta così! Non le dice niente l’immagine? È il negativo che ha dato a Raul Ionescu perché si familiarizzasse con la topografia del museo e, insomma, perché facesse una copia della chiave del cancello. Quando è tornata a casa – ovviamente dopo aver fotografato le sale del museo, alcuni quadri e perfino alcuni fra i visitatori –, dato che l’apparecchio era caricato, è probabile che abbia premuto per sbaglio l’interruttore, e la pellicola ha fissato una porzione della stanza in cui ci troviamo. Si vede chiaramente il quadro con le calle, il comò, la pendola, perfino un lembo della tenda. Capisce da sola che non ci sono dubbi. Mi sembra inoltre assai difficile che possa trovare una giustificazione per la presenza di questa immagine fissata sul negativo recuperato da Dascălu.
Melania ostentava uno strano sorriso.
«Era questa la prova! Tremendamente buffa! Chi l’avrebbe pensato… Doveva distruggere il negativo dopo aver fatto la copia della chiave. Non è opportuno mettersi in cammino con dei pazzi: alla fine se ne paga lo scotto. E poi ci doveva pure mettere lo zampino Mirciulică...»
Rivide la scena. Il gatto sul tavolo che, giocando con l’apparecchio fotografico, premeva l’interruttore senza che lei lo sentisse o se ne accorgesse…
Cedette di schianto. Davanti al maggiore non si trovava più la donna senza età, scattante e graziosa, bensì un’estranea. Un’estranea dal volto scavato, stanco e triste.
Sospirò, agitando assente le dita in uno strano cenno di commiato:
– Mirciulică... Ho sempre temuto che non fosse del tutto sincero con me.
Il gatto fissava le candeline della torta. Nei suoi occhi trasparenti, di un verde minerale, quasi velenoso, si rifletteva il luccichio delle fiammelle allungate.
Gocciole di cera rossa colavano sul tavolo. Il maggiore staccò un po’ di cera calda, simile a minuscoli acini d’uva, raggrumatasi alla base dello stoppino e cominciò a modellarla con i polpastrelli delle dita. Soffiò sulla candelina. Sul volto di Melania s’indovinò un sorriso incerto. Si alzò appoggiandosi con una mano. Una gracile figura che perfino un bambino avrebbe potuto stendere a terra.
– So quel che devo fare, sussurrò. Sono in arresto… Sì! Immagino che dovrò seguirla.
Cristescu evitò di incrociare il suo sguardo. Non si sentiva più l’animo colmo di gioia, d’incontenibile soddisfazione, così come erano spariti le bandierine e il suono della banda e i fuochi d’artificio in onore del suo trionfo.
«Perché diavolo…», si domandava mentre impastava nervoso il grumetto di cera, «perché proprio a me doveva capitare di risolvere un caso come questo? L’anziana signora ha un certo fascino cui non so resistere, sono affascinato dalla sua mente e dalla sua personalità, con quel suo sorriso e quell’aria da ragazzina indifesa, e poi il profumo della stanza, e Mirciulică, e il sacchetto di caramelle fondant del comò…»
S’immaginava, senza essere convinto che si stesse sbagliando, che in altre circostanze Melania Lupu avrebbe continuato una felice esistenza cui pochi anziani è dato di conoscere. Passava sopra con garbo gli inconvenienti dovuti all’età, non si era lasciata ossessionare dalle malattie, dai risparmi e dal posto nel camposanto, sapeva inventarsi mille cose che la facevano contenta. «Quei dannati quadri le hanno solleticato la fantasia. Goya e Rembrandt! Se allora non si fosse rotta la tubatura, non li avrebbe mai scoperti. E se i suoi vicini non fossero caduti nella stessa trappola demenziale… E se gli altri, Scarlat, Ionescu, Dascălu, inebriati dalla scommessa, la stessa scommessa, non avessero abboccato all’esca. La stessa esca. E se… Troppi se…»
Non aveva il coraggio di alzare lo sguardo. Un fruscio setoso si spandeva nel silenzio della stanza. Il gatto stava tentando di slacciarsi il nastro rosso annodato al collo. Con un movimento meccanico, Melania si sfilò la collana di perle, facendole scorrere fra le dita, quasi a voler soppesarle.
«Peccato, mia cara! Una rapina – ché non vedo perché non chiamare la verità con il suo nome – avevi architettato una ra-pi-na, ingegnosamente messa a punto, che è andata però in frantumi come una delicata porcellana. Ah! Pensa solo all’impresa di aver potuto dirigere i tuoi complici senza che loro ti conoscessero. Ti verrebbe da piangere per il dispiacere, ma credimi, Melania, non è ora il momento. Non avresti mai potuto minimamente pensare che Mirciulică potesse far scattare la macchina fotografica».
Fece mentalmente l’inventario degli oggetti impressi sul negativo, l’unica prova inconfutabile contro di lei: la tenda, il comò, il quadro della nonna, la pendola con suoneria, cose a lei care, perché non le erano mai stati indifferenti gli oggetti dai quali amava farsi circondare. Era una donna che prediligeva gli interni e le piaceva, quando apriva gli occhi, lasciarsi accarezzare dal setoso luccichio dei mobili, dalla delicatezza di un acquerello o dallo sfolgorio del servizio da thè, pronto sul tavolo per accogliere alla luce del mattino tutto il sole sulle argentee sinuosità. Non aveva mai accettato di tenere un oggetto, per quanto esso fosse prezioso, se non le trasmetteva bellezza e gioia.
«Il colonnello era l’esatto contrario. Alla sua morte, hai venduto quelle brutture di legno, ti si rizzavano i capelli in testa solo a guardarli, come quell’orrore cubista del signor… mi sembra che si chiamasse Gleizes. Stai perdendo la bussola, Melania! Non è il momento ora che tu vada a rivangare queste cose. Un fatto è in-con-te-sta-bi-le! Se, per miracolo, sparissero il comò, il quadro con le cale, la tenda e la pendola, la prova, la preziosa prova del maggiore, il negativo trovato addosso a Dascălu si svanirebbe come un soffione fatto volare via dal vento…»
La mente dell’anziana signora stava rimuginando febbrilmente. Come potrebbe eliminare la prova? Ah, con il fuoco! La scatoletta di fiammiferi si trovava accanto alla torta ancora da affettare. Non avrebbe dovuto far altro che invitare Cristescu ad accomodarsi in cucina che si trovava lì accanto, adducendo come pretesto di voler cambiarsi, e approfittarne così per accendere un fiammifero.
Incrociò il suo sguardo al contempo imbarazzato e indagatore. Melania gli porse la mano avvolta nelle perle. Arrossì, dicendo con gli occhi abbassati:
– Il mio abbigliamento non è dei più adatti… Qualcuno mi ha detto che in carcere si pratica molto… sport. Se lei me lo consentisse… Pochi istanti e sarò pronta.
Cristescu, troppo stanco per poter reagire, si alzò. L’anziana signora chiuse la porta dietro di sé. Si avvicinò lentamente al tavolo, fissando i fiammiferi. Aveva nascosto la scatoletta in una mano. Tese l’orecchio per sentire se provenissero rumori dalla stanza accanto e accese un fiammifero accanto alla tenda. Lo spense quasi istantaneamente, schiacciandolo sotto un piede.
– Che sciocchezza, ragazza, sussurrò. Una soluzione volgare a portata di mano di qualsiasi indiano apache privo di spirito. Distruggerai la prova, ma niente potrebbe discolparti agli occhi del signor maggiore. Da quel momento in poi ti tallonerebbe con accresciuta energia, con dentro un odio implacabile. Sono certa che troverai un’altra soluzione per uscire da questo piccolo impiccio. Sorrise beffarda: In realtà l’hai già trovata! Sei una gran dritta, Melania! Fa’ attenzione che il trionfo non ti si legga in viso.
Dopo cinque minuti, Cristescu la trovò perfettamente equipaggiata. L’anziana signora, si disse, aveva delle strane idee sugli sport praticati in carcere. Aveva indossato un vestito grigio, chiuso davanti con dei grossi bottoni di vetro, con una cravatta, con monogramma, rossa. Dal taschino sul petto fuoriusciva discreto un fazzoletto diafano, stampato a rose di un rosso vivo. Nella borsa da viaggio aveva infilato scatolette di conserva, un thermos, dei biscottini avanzati, il fornelletto a spirito e una bottiglia di spumante. Notando lo sguardo perplesso del maggiore, Melania si scusò sorridendo:
– Cambiare aria mi concilia un appetito smodato. Quando facevamo delle scampagnate mangiando al sacco, il mio cestino era il più fornito di tutti in quanto a cibarie… E poi non mi piace mangiare da sola in società.
– Quale società?!
– In carcere si fanno un sacco di conoscenze.
Cristescu si sentì l’anima afflitta. Non tentò di contraddirla. L’anziana signora gli porse le mani. Girò la testa lì lì sul punto di scoppiare in lacrime.
– Non capisco, mormorò il maggiore.
Melania non riusciva a trovare le parole:
– Le manette. Dal nostro portinaio, una persona molto istruita, so che così è la procedura.
– Ah, già… Hm, penso che potremo farne anche a meno.
– Come crede. Sono sempre stata dell’avviso che lei sia un gentiluomo. Lo può confermare anche Mirciulică. La verità è che mi evita molti dispiacere. Ci sono oggetti che ti possono screditare, e i miei vicini a tal riguardo sono molto severi.
Abbracciò la stanza con uno sguardo e sospirò.
Sul pianerottolo s’imbatté nel sorriso del tenente Azimioară.
– Ah! esclamò l’anziana signora. Si direbbe che sia venuto a prendere quel thè che le avevo promesso tante volte. Che incresciosa circostanza! È la prima volta che mi capita di non poter ricevere un ospite come si deve. Ma mi deve capire...
– Capirà, disse secco Cristescu.
Lo spettacolo dell’anziana signora lo sopraffaceva.
– Allora… Melania alzò il gatto da terra che la faceva incespicare passandole fra le gambe. Mi rendo conto che è un abuso, ma quando si tratta dei miei amici, ho sempre tirato fuori la sfacciataggine che normalmente non mi caratterizza. Signor Azimioară, si occupi lei di Mirciulică. Ha solo me, e non credo che se la potrà cavare da solo. Forse potrebbe tentare di affidarlo a una famiglia disposta ad averne cura.
Il tenente, senza parole, scrollò evasivamente il capo. Tirò fuori il fazzoletto con il quale si tamponò il viso. Melania lo ringraziò con le lacrime agli occhi. Appoggiò il viso sulla testa del gatto, sussurrandogli vagamente:
– Stammi bene, Mirciulică. Non sono arrabbiata con te. Se la fortuna mi assisterà, ci rincontreremo.
Azimioară mise i sigilli all’appartamento, poi cercò il gatto con l’intenzione di lasciarlo ai vicini. Non lo trovò da nessuna parte e, mentre era diretto a casa, entrò nella brasserie «Cina» per prendere una birra, dicendo fra sé e sé che per lui e Cristescu cominciava un meritato periodo di tranquillità. Grazie al cielo, non nasce una Melania ogni giorno.
L’automobile attraversò il viale, immettendosi in Corso della Vittoria.
«È colpevole», pensò il maggiore. «È colpevole, tuttavia mi spiace. Penso alla faccia che farà quando le confischeranno tutte quelle cose che ha messo nella borsa. Lo spumante e le scatolette e tutto il resto – al diavolo, dopo tutto da noi non è come andare al camping – e mi viene un nodo alla gola. Dovrebbe consolarmi l’idea che almeno da oggi in poi non mi procurerà più grattacapi. Ma mi consola davvero?»
Scattò il rosso. Alla Casa Centrale dell’Esercito, un gruppetto di persone in abiti da sera scendeva le scale ridendo chiassosamente. Una bionda alta, con una stola di pelliccia sulle spalle, teneva sollevato l’orlo del vestito bianco per evitare che venisse strascinato sul marciapiede bagnato. Allungò un braccio scoperto, scompigliando i capelli dell’uomo al suo fianco. Le risate penetravano fin dentro l’automobile.
«Mi spiace per il signor maggiore», pensò Melania Lupu. «È una persona fine, ben educata e piena di sensibilità. L’ultima cosa al mondo che vorrei è cagionargli altri momenti spia-ce-vo-li. Prevedo però che non potrò farne a meno. In effetti, non hai altra scelta, mia cara».
Il sospiro dell’anziana signora agì come un uncino fatto rigirare nel cuore del maggiore. Sulla città stava calando una leggera nebbia.
Capitolo IV
COINCIDENZE
A causa della scarsa illuminazione, all’inizio Melania Lupu notò solo due sagome coricate. Il sottufficiale di guardia le indicò un letto libero, uno strano ripiano fissato alla parete, con stesa sopra una coperta grigia.
– È lì. Le porto subito la cena.
– Oh, esclamò Melania amabilmente, non si disturbi per me. D’altronde non ho neanche tanta fame. Vengo ora da un compleanno dove è stato servito un menu squisito.
Il sottufficiale di guardia la soppesò a lungo con lo sguardo e chiuse la porta. Una giovane donna dai capelli arruffati, dalla carnagione scura e dagli occhi vispi la stava studiando senza nascondere la propria curiosità. L’altra detenuta, molto più anziana, si era limitata a girare la testa. Aveva un volto dai bei lineamenti, ma spenti, con la pelle rugosa e avvizzita.
Osservandola, Melania senti di colpo una sensazione provata puntualmente tutte le volte in cui si trovava per la prima volta in presenza di una persona o di un oggetto che avrebbero avuto un peso nella sua vita: un tremore inspiegabile alle mani, le dita gelate, come esangui. La scrutò di sottecchi. La detenuta sembrava agitata, aveva il respiro affannoso e pesante.
«Ti prego, sta’ attenta, mia cara, molto attenta! Questa donna sta tramando qualcosa, è prossima a fare una scelta ra-di-ca-le che ti potrebbe interessare. Non mi domandare in che senso, non lo so ancora. Ti svelerò comunque un segreto. La sua indecisione va oltre la sfera delle normali preoccupazioni in questo genere d’ambiente: te lo confesso oppure no? È decisamente di altra natura. Guardale le mani, Melania! Parlano più chiaramente di quanto non farebbero le sue labbra. Te l’ho fatto già notare in svariate occasioni e sei stata costretta a riconoscere che avevo ragione. Le mani di questa donna si agitano e si placano in funzione del variare dei suoi pensieri. Come vuoi che faccia a sapere che cosa le stia passando ora per la testa dal momento che non ha proferito ancora una sola parola? Ma se mi dai retta, e ti concentri, ti assicuro che lo scopriremo. E ora, ragazza, vediamo che atteggiamento potresti assumere! Ti proporrei quello della vecchia sprovveduta così consona a te, di un’innocenza da lasciarti senza fiato e dai modi garbati come tirati fuori da un comò ricoperto di centrini. E non solo perché questo è il tuo personaggio preferito… Ricorda, mia cara, quando vuoi scucire qualcosa da qualcuno, fagli intendere che non ci capisci nulla. In bocca al lupo, ragazza!»
Sorrise serafica:
– Buonasera. Farò il possibile per non incomodarvi. Ma prima di tutto sono certa che bisogna che mi presenti. Mi chiamo Melania Lupu. Lupu era un colonnello, mio marito, un uomo davvero coraggioso e rispettabile. Posò lo sguardo sulla più giovane delle due. E lei?
– Libellula, rispose la ragazza ridendo. Non ne ho mai conosciuto uno coraggioso e rispettabile.
– Che nome originale! E la signora?
La vecchia rispose svogliatamente:
– Olga Tudor.
Melania si sedette sulla sponda del letto.
– È molto carino qui da voi. Peccato che fra due ore sarò costretta a lasciarvi.
– Perché?
– Quel simpatico signore della Milizia, che mi ha portato qui, mi ha promesso di accompagnarmi a casa dopo che avrà terminato le sue incombenze. Sembrava terribilmente occupato. Non avevo mai visto tante scartoffie accatastate su una sola scrivania.
Libellula la scrutò perplessa.
– Gesù!
– Nevvero? Pare anche a me inverosimile che qualcuno possa lavorare tanto. Sarà già esausto in men che non si dica. In cambio, è molto gentile e mi ha dimostrato molta comprensione. Credo che gli potrei chiedere il favore di rimanere ancora un po’ con voi, ma non vorrei perdere lo spettacolo Zorro. Sono stata in fila un’ora e mezza per procurarmi i biglietti. Sorrise serafica. Spero che non me ne vorrete a male.
Libellula l’ascoltava a bocca aperta. Bisbigliò all’altra detenuta:
– O ci sta prendendo per i fondelli oppure…
– È la vecchiaia, bofonchiò Olga Tudor.
– Al diavolo?! Questa porcilaia è diventato un ospizio?
– Lasciala stare.
Melania ispezionava rapita i muri, fin negli angoli.
– Bell’edificio! Solido, decisamente. Mi sono sempre piaciuti i muri spessi. Ti trasmettono un senso di sicurezza. Ridacchiò: Sapete, durante il terremoto del 1940, ero sotto la doccia e, di botto, sono venute giù le pareti. Non vi potete immaginare in che situazione incresciosa mi sono trovata: sul marciapiede di fronte si trovava, del tutto casualmente, una squadra di pompieri.
– Questa qua non si è più rimessa, mormorò Libellula.
Il sottufficiale di guardia portò una tazza, un cucchiaio e una scodella da cui si levava del vapore. Melania si alzò premurosa.
– La ringrazio. Lei è una persona molto ospitale. Per il momento, non posso essere altrettanto riconoscente, ma mi auguro che non rifiuterete il mio invito a prendere una buona tazza di thè e dei biscottini, con della marmellata alle more. L’aspetto domani sera, insieme alle signore…
L’uomo la fissò con la stessa enigmaticità. Dopo aver sentito chiudersi il chiavistello, Libellula si sedette alla turca.
– Lei sa che cos’è un carcere? Ha mai sentito questa parola?
– Naturalmente! esclamò Melania offesa, arricciando le labbra. Per chi mi ha preso? Sono una donna di una certa età, anche se talvolta sembro più giovane.
Olga Tudor si tirò su sulla schiena.
– La smetta con queste sciocchezze. Perché l’hanno fermata?
– Non capisco, replicò Melania sbattendo gli occhi. Sta parlando con me?
– Sì, con lei.
– È strano, forse non sono stata abbastanza chiara. Nessuno mi ha fermato, né ricordo che qualcuno mi abbia detto «Resti!», quantunque io abbia partecipato a innumerevoli feste…
Libellula ridacchiò.
– Allora, che diavolo ci fa lei qui? È venuta a passare il fine settimana?
– Me gliel’ho spiegato! Melania sembrava capitata da un altro mondo. Mi trovo qui semplicemente in visita. Quel signore simpatico che mi ha fatto firmare un sacco di fogli, mi ha pregato di aspettarlo e sono stata accompagnata nel… insomma, nel vostro appartamento. Sapete che cosa credo io? Credo che avesse l’anticamera già gremita e gli sarebbe dispiaciuto farmi restare in piedi.
Olga Tudor si sistemò i capelli dietro gli orecchi con fare nervoso. Domandò con voce roca:
– Ferma là! Che fogli ha firmato?
– Sant’Iddio, una caterva! Pensavo che non sarebbero più finiti. Non mi piace molto scrivere. Secondo me, il telefono è un’invenzione straordinaria. Ci ha liberati da carta e calamaio. Una mia amica di Detroit, che viaggia parecchio da quando si è dimenticata di pagare le tasse, mi ha raccontato che in America si vendono delle cartoline provviste di dieci o dodici testi: ‘Sto benissimo’ oppure ‘Sto così così’, ‘Mi sto annoiando’ oppure ‘Mi sto divertendo un sacco’ ecc. Il mittente non deve fare altro che biffare la formula che più gli piace. Incredibilmente pratico, dovete riconoscerlo.
– Ha letto quel che firmava? domandò Olga Tudor.
– No. Andavamo entrambi piuttosto di fretta per non sprecare il nostro tempo e poi, a essere sincera, non mi piace inforcare gli occhiali se nella stessa stanza si trova un uomo, o più di uno, ovviamente.
– È fantastica! arguì Libellula. Se avessi visto una cosa del genere al cinema, non ci avrei creduto!
Melania si aggiustò le ciocche dei capelli, guardandola candidamente. Improvvisò con un guizzo:
– La signorina Libellula ha ragione. È così buffa tutta questa storia! Provate a immaginare che cosa mi è successo! Ieri, mentre riassettavo il letto – faccio questa operazione molto spesso, almeno una volta ogni sei mesi – ho trovato sotto il materasso una scure sporca di sangue.
– Di sangue?!
– Accipicchia! esclamò Libellula.
– Così mi è parso. Ho rinvenuto anche una cassetta piena di gioielli. Ho pensato allora che fosse opportuno avvisare l’amministratore del condominio, oh, una persona molto distinta, fino all’anno scorso è stato vigile urbano, mi capite… Mi ha spiegato perché preferisce le canottiere cinesi e le mutande di flanella. Ha uno spirito molto pratico.
Libellula la interruppe impaziente:
– Ascolti, bambina, lasci stare ora le brache dell’amministratore! Ha preso la scure e la cassetta?
– Certo! Ho sparpagliato i gioielli sul tavolo per vedere di che cosa si trattasse, quando alla porta ha suonato quel signore simpatico della Milizia, al quale ho fatto cenno prima. Erano molto simili a quelli che indossava la mia sorellastra, il collier per lo meno era identico. Sebbene non andassimo d’accordo, sia io, sia lei abbiamo sempre preferito cose autentiche. In cucina io non ho mai usato un grammo di margarina, vi do la mia parola d’onore, e quanto alla viscosa inventata durante la guerra, ah, no, grazie, già mi bastava pensare di essere sorpresa dagli acquazzoni!
Gettò la testa indietro con fierezza, «guardate qua che tipo di donna sono», scrutando beata le facce delle due donne.
– Che le ha detto l’inquirente? domandò Olga Tudor.
– Quale inquirente?
– Il tizio capitato per caso.
– Quale tizio?
Libellula sgranò gli occhi.
– «Quel signore simpatico della Milizia».
– Oh, niente di importante. In definitiva credo che… Credo che parlasse a vanvera. Non tutti sono in grado di raccogliere i propri pensieri. Mi ha posto un’enormità di strane domande. Per esempio, dove sono stata fra le 7 e le 9. Ovviamente al cinema. Non mi ricordavo il film, non avete idea di quanto in fretta mi dimentichi di tutto, anche di quel particolare che l’ha, come dirvi…, fatto imbronciare. Poi, ha cominciato a inanellare certe stramberie su un’impronta. Sosteneva che nella stanza della mia sorellastra avrebbe trovato tracce delle mie scarpe. Sapete, ci tengo maledettamente alle mie décolleté di raso. Da quel momento ho rinunciato a capirci qualcosa.
Olga Tudor sospirò. Libellula si passò le dita fra le chiome setose.
– Che gran porcata!
– Non sono sicura di aver capito ciò che ha voluto dirmi, si lamentò Melania, strofinandosi leggermente il lobo di un orecchio. I giovani di oggi usano tante di quelle parole nuove.
Olga Tudor intervenne brutalmente:
– Qualcuno ha assassinato la sua sorellastra. Ma ha agito in modo da far credere che sia lei la responsabile della morte.
– Che sia lei l’assassina, precisò Libellula, ha capito?
Melania sbarrò i suoi occhi azzurri. L’espressione di totale sconcerto era perfetta.
– Gesù Maria! Ma come vi vengono in mente certe cose? Perché avrei dovuto uccidere Eugenia? Certo, non ci siamo mai capite così come ci si aspetterebbe fra parenti stretti – il giorno delle mie nozze ha messo un purgante fulminante nel mio calice di champagne, e potete immaginarvi… Ma questo non è un motivo sufficiente perché qualcuno l’ammazzasse. E perché addossare la colpa a me? In fondo, non ho preteso nulla quando i gioielli della famiglia sono stati donati tutti a lei. Neppure voi sareste in grado di darmi una spiegazione, ci scommetto.
Libellula, edotta, si stese sul suo giaciglio. Rimase con le braccia distese sulla coperta grigia.
– Prega affinché il buon Dio ti protegga! Alzò la testa cercando lo sguardo di Olga Tudor. Hai capito la mossa di quell’asino? Le ha infilato sotto il materasso la merce e l’arma del crimine e ha lasciato le impronte delle sue scarpe nella sua abitazione. Piacerebbe anche me conoscere l’avvocato che sarà capace di tirarla fuori dalla cacca. Lo ingaggerei per un anno.
Olga Tudor aveva lo sguardo perduto nel vuoto. Sui suoi bei lineamenti si leggevano asprezza, energia e una strana pervicacia. «Lo si capisce fin dal principio», si disse Melania, «che la vita è stata dura con lei. Ma continua a essere tuttora altrettanto forte, vigorosa, come una quercia che ha affrontato parecchi inverni».
Disse con voce infantile, tirando un pilucco di stoffa:
– Quanto più penso alle vostre affermazioni, tanto più mi convinco che sono prive di fondamento. Certe cose non accadono fra persone perbene. Dovete sapere che mia sorella e io abbiamo ricevuto un’ottima educazione. Nostro padre faceva l’accalappiacani, e la bisnonna di nostra madre ebbe legami molti stretti con il bandito Terente.
– Se qualcuno mi avesse detto di essere contemporanea di una minchiona come questa, avrei riso per una settimana, osservò Libellula. Ma a lei non cade mai la benda dagli occhi, madame?
Melania sorrise titubante, dando a intendere che le sfuggiva il senso dell’espressione. Olga Tudor si stiracchiò. Tirò un sospiro, stanca:
– Dài, andiamo a letto.
A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 7-8, luglio-agosto 2013, anno III)
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