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Sergiu Celibidache, lo spirito cosmopolita di un grande musicista (parte seconda)
Con le presenti due 'lettere' (capitoli scritti in forma di lettera) tratte dal volume Sergiu, altfel (Ed. Do-minor, Iași, 2001) di Ioana Celibidache, moglie del celebre direttore d’orchestra, Sergiu Celibidache, continuiamo l’incursione nella vita del vulcanico genio romeno dell’arte della direzione sinfonica. Un artista a tuttotondo dalle mille sfaccettature, ma soprattutto una personalità dalla natura fortemente cosmopolita: direttore d’orchestra, compositore, insegnante, cittadino del mondo sempre con la valigia in mano e forte oppositore del consumismo discografico.
La scelta delle lettere non segue l’ordine cronologico presente nel libro ma punta invece a delineare a grandi linee una personalità eclettica, sottolineando il legame del maestro con l’Italia, suo Paese di adozione, in particolare con l’isola di Lipari, sua oasi, un Eden selvaggio dove si isolava dal mondo. Dopo la pubblicazione delle Lettere 4 e 5 nel numero di dicembre 2020, aggiungiamo qui la traduzione delle Lettere 17 e 28.
Lettera 17
Dovrei fare anche mia la celebre frase pronunciata da una grande attrice:
– Sono nata il giorno in cui l’ho incontrato.
Questo personaggio non poteva che appassionare, sedurre a ogni passo. Passava così facilmente dall’allegria all’incertezza, dalla tenerezza alla rabbia, dall’euforia all’angoscia. Personalità complessa, Sergiu era interessato a tutti i fenomeni e, soprattutto, a quelli più inusuali.
Non annoiarsi in una coppia, saper ridere, piangere, ascoltare il silenzio, è davvero una grande filosofia di vita. Sicuramente è stato anche questo il segreto di una vita felice.
Ci sono riuscita! Il Vulcano irrefrenabile che aveva conquistato il mondo, mi ha cambiato la vita. Ho rinunciato a tutto. Persino… alle sigarette.
Non fumava, non beveva, non aveva alcun vincolo, era un uomo libero. Pochi sanno afferrare con entrambe le mani i momenti preziosi della vita. Sergiu sapeva farlo, senza dubbio. Anche insieme abbiamo saputo farlo.
Fremevano in lui la fantasia e il dinamismo, la generosità e la bontà d’animo si coniugavano nell’onestà. Non penso siano molti quelli in grado di immaginare le difficoltà che deve affrontare un direttore d’orchestra, se non ci hanno vissuto accanto. Plasma il movimento dei suoni, dando risalto ad alcuni, lasciando gli altri più marcati e arrotondati, come fa un pittore sulla tela o uno scultore con il marmo. Trasforma il tempo in un’espressione puramente spirituale, mentre lo spartito rimane, completamente, impresso nella mente, fin nei più piccoli dettagli. Il suo influsso sull’orchestra diviene una trasfigurazione quando ottiene il risultato sperato.
– Qual è una buona orchestra, Maestro?
– È quella in cui la consapevolezza collettiva può cogliere la fine di un’azione a partire dal suo inizio; dove la ricettività incondizionata agli impulsi ricevuti modella, unificando le sensibilità e le potenzialità individuali.
Sergiu non conosceva l’impassibilità. Non conosceva né la stanchezza né la noia. Diceva ridendo: «La noia degli altri mi tiene molto occupato!».
I suoi corsi nelle diverse accademie, con studenti da ogni angolo della Terra, erano un arricchimento per chiunque. Si occupava di ogni singolo allievo, esaminando i movimenti di ognuno, la comprensione psicologica, la percezione fenomenologica, finché si arrivava alla musica. Il percorso era lungo.
– Che cos’ è la musica?
– La musica non è la concatenazione dei suoni, sono i suoni che potrebbero diventare musica!
Battute piene di allegria, severità e ironia riuscivano a creare un’atmosfera di grande convivialità. Gli studenti, fatti a pezzi dagli occhi del guru, si sentivano, allo stesso tempo, sopraffatti dall’amore dell’altruista.
Non aveva riposo. Nei giorni di vacanza mi diceva:
– Non li posso abbandonare, chi vuoi che si occupi di loro come faccio io?
Non sempre mi piaceva questo programma che violava la nostra intimità.
– Meriti l’inferno, con questo egoismo! mi minacciava ridendo. Riuscivo a farlo ridere, ad allontanare talvolta i suoi continui dispiaceri.
– Se nemmeno tu mi capisci, chi vuoi che lo faccia? Quanta tenerezza c’era in queste parole!
Avevamo scoperto Lipari, una delle isole Eolie, l’isola degli dèi greci, costantemente visitata da personaggi illustri che coccolavamo come potevamo. Gli volevamo bene.
Da un appezzamento di terreno e un mucchio di sassi, il giardino era diventato un parco magnifico.
Giorni di gioia e giorni di preoccupazione. Vedevamo o, meglio, aspettavamo con impazienza che uscisse il filo d’erba da quel misero chicco, che doveva, volente o nolente, da una buca di quattro metri, scavata da lui con il sudore della fronte a una temperatura di 40°, far spuntare l’erbetta verde, che ci crucciava non poco. Ibischi giganti, bouganville, oleandri rosa e gerani di tutte le dimensioni abbellivano il piccolo «villaggio degli artisti».
Trascorrevamo molto tempo ad annaffiare il giardino. Avevamo piantato alberi, fiori, alberi fruttiferi e talvolta approfittavamo della gentilezza degli ospiti per farci dare una mano. I tubi dell’acqua si estendevano, all’infinito, sugli scalini della «Torre di Babele», qualche volta arroccati a una cinquantina di metri vicino all’entrata principale della proprietà.
Come tutti i «cristiani» che vanno in chiesa la domenica, i vicini ci comunicavano i loro funesti presagi con il sorriso più candido:
– Qui non piove mai, il sole fa seccare tutto… Peccato, non vi crescerà nulla.
La nostra tenacia, tuttavia, non si lasciò impressionare da queste graziose previsioni.
Iniziammo col costruire una casa, poi due, tre, quattro, cinque, sei e, infine, sette, ognuna con il nome delle altre isole dell’arcipelago: Vulcano, Panarea, Stromboli, Alicudi, Filicudi, Strombolicchio e Salina. Tutte presenti all’appello. Mancava solo una cosa. Un villaggio di artisti, credenti, ha bisogno anche di una chiesa. Sergiu non ci pensò molto e, in poco tempo, costruì una chiesa meravigliosa, alta una trentina di metri, con una campana di bronzo da venti tonnellate, che fece trasportare dalla Germania. La vetrata di San Bartolo, patrono dell’isola, come anche la «Via Crucis», a olio, sulle pareti interne, sono state realizzate da me, mentre sulla parte esterna della porta della chiesa, con colori pietosi comprati nel paese limitrofo, ho riprodotto santi ortodossi, come nelle nostre chiese, senza lo stesso talento, si capisce. Nonostante ciò, la chiesa fu consacrata dal cardinale di Palermo.
Ma che importanza hanno i colori, quando Dio è vicino a noi?
In trent’anni, né il sole micidiale, né le piogge né il vento o i terremoti sono riusciti a distruggere i miei dipinti sulla porta, né a infrangere la vetrata di san Bartolo.
Come non credere nei miracoli?
Le piramidi in Egitto sono state un gioco da ragazzi in confronto alla costruzione di questa proprietà. Non ne vedevamo più la fine. L’agitazione di Sergiu raggiungeva ogni giorno livelli elevati. Le spiegazioni date agli operai il giorno prima, il giorno dopo venivano eseguite completamente al contrario. Le finestre al posto delle porte, e le porte al posto delle pareti. Un disastro.
Gli animali dell’isola si rifugiavano con grande gioia da noi. Cani, gatti, ricci, uccelli, tutti ci venivano a trovare con devozione. Sergiu aveva preso sul serio il suo ruolo di veterinario, prendendosi cura di ciascuno di loro, con grande diligenza, forse un po' empirica, ma sono sopravvissuti. Tra questi distinti inquilini, c’era anche un piccolo capretto – destinato sicuramente a qualche forno malvagio –, che salvammo dal macello. Gli davamo da mangiare con il biberon, a orari ben precisi, ovviamente – questione di disciplina.
Lo battezzammo Țipiri. Divenne il padrone di casa. Si metteva comodo a sedere sull’unica sdraio della casa, mentre noi, per non scomodarlo, ci sedevamo per terra. Il nostro sacrificio non durò, tuttavia, più di due giorni, perché altre sedie fecero la loro comparsa.
L’estate successiva, felici di vederlo cresciuto e bello, fummo avvisati dal custode a cui lo avevamo affidato con così tanto amore, che «il povero Țipiri era stato molto, molto malato». Eravamo a pezzi.
Lo rivedevamo correre come un bambino birichino per i dirupi dell’isola, arrestandosi bruscamente con i suoi freni personali proprio dinanzi a noi e guardandoci con i suoi occhi grandi e luminosi, come a dire:
– Perché state fermi lì impalati, perché non giocate con me?
Come aveva ragione. Non avevamo mai giocato con lui.
Il giardino era diventato una specie di paradiso. Tendenzialmente, le casette si avvicinavano al nostro stile romeno. Verande, colonne, archi, giuncaia, tutto tinto di calce bianca, travi di legno, drappi ricamati e tappeti dell’Oltenia alle pareti, perfino i mobili antichi rinvenuti in Spagna somigliavano ai nostri.
Sergiu aveva progettato, nei minimi dettagli, ogni angolo, mentre molti altri li realizzò lui stesso con la sega da traforo.
Pini e cipressi, piantati con difficoltà sulle rocce calve dell’isola, un panorama indescrivibile che ricordava ora il Pan di Zucchero di Rio de Jaineiro, ora il Tempio Angkor in Cambogia, hanno accolto volentieri amici desiderosi di pace e serenità. Dai monti dai grandi massi aridi, dove nemmeno le erbacce desideravano crescere, Sergiu, come dicevo, era riuscito a creare l’impossibile, come se i santi si fossero tutti riuniti per aiutarlo.
Tra gli ospiti illustri, ce n’erano di meno importanti: gattini randagi, cani abbandonati e affamati, qualche ratto che correva tra le file di gerani, alcuni serpenti solitari in cerca di compagnia o una serie di topolini che assaporavano le maglie di Sergiu, lasciandole bucate dopo il loro passaggio. Ci decidemmo, alla fine, di mettere qualche trappola, giusto per cercare di mantenere pulito il posto, ma questi ospiti indesiderati, non so per quale motivo, non ci si avvicinavano mai; sarà stato a causa del menu che non era di loro gradimento, o di qualche gatto maledetto di passaggio che li inseguiva, le trappole rimanevano vuote.
Una mattina, all’alba, passando davanti alla cucina, sentii la voce di Sergiu:
– Bene, ehi Bayezid, stupido, come sei finito in gabbia? Ti sei scorticato il naso e i baffi, che me ne faccio di te? Non ti sei accorto che il formaggio era per gli stupidi?
Sergiu, in ginocchio davanti alla vittima innocente, faceva il mea culpa, con le lacrime agli occhi. Il condannato, con gli occhi fissi sul carnefice, lo rimproverò nella lingua dei topi:
– Infame! Mascalzone!
Sono avvelenato, sto per morire,
e mentre parlo ho due zampe
informicolite,
guarda i miei denti
senza cavarmeli via!
Questa pioggia di accuse ci obbligò a prendere su la trappola e a restituire, in valli lontane, la libertà al prigioniero, con la coscienza pulita.
– Che idea, la nostra, di tormentare un povero topolino!
Lettera 28
In un’isola della Grecia, bella come nelle favole, avevamo incontrato un giovane pescatore di spugne. Queste crescono sul fondo del mare, incollate le une alle altre e sono difficili da prendere. Il pescatore, un simpaticone dalla barba folta, ci aveva raccontato le sue avventure, simili a quelle di Pinocchio.
Si guadagnava il pane con queste spugne, sicché si legava un masso intorno al collo, assicurandosi in tal modo la discesa... all’inferno.
– Uno squalo bianco mi ha azzannato e, non riuscendo a mandar giù il masso, mi ha sputato fuori e così l’ho scampata. Credo di essere rimasto qualche secondo nella gola del mostro.
Il mare come smeraldo brillava sotto i raggi del sole, che si rifletteva in uno specchio incantato. Ti invitava con una voluttà caparbia a godere dell’elisir inatteso. Il pescatore aveva avuto fortuna e, forse grazie a lui, l’avremmo avuta anche noi. Desideravamo pure noi conoscere la spiaggia seducente, deserta, non ancora contaminata dall’invasione dei turisti. Il pescatore, di cuore, ci avvertì del pericolo degli squali in quella zona, da lui battezzata «il nido dei criminali». Le sue storie ci spaventarono e, dopo essersi tolto la maglietta mostrandoci la schiena spaccata in due da una cicatrice di venti centimetri, cinta da innumerevoli morsi feroci, rinunciammo per sempre alle spiagge deserte.
In Italia, nostro Paese di adozione, i fan di Celi si moltiplicavano come funghi. Per via di un amore senza limiti, questi musicomani avevano fondato il Club Celibidache. Non tutti potevano diventarne membri, ma solo coloro che lo amavano realmente e che accettavano una serie di condizioni come si accettano i dieci comandamenti... Con il tempo, in Spagna, i membri di questo club comprarono un autobus a due piani, come quelli di Londra, per potersi recare con maggior facilità ai concerti del Maestro in Europa. I banchetti erano organizzati con settimane d’anticipo, e le risate non erano da meno. Ho riso tanto nella mia vita e questo mi ha portata ad affrontare una serie di circostanze non sempre divertenti. Per fortuna, Sergiu era molto allegro e io, grazie a ciò, non ho conosciuto mai la delusione.
La devozione degli amici lo commuoveva profondamente. Eravamo enormemente coccolati in tutti i Paesi in cui giravamo. Il piacere della tavola non poteva mancare nel programma, essendo Sergiu un gran buongustaio. Le portate erano prelibate e, tutte le volte, ci alzavamo da tavola con l’idea ipocondriaca che ci sarebbe venuto un infarto. Siamo stati esonerati tutte le volte!
Ho vissuto mille anni, «mille e una notte» e non sono stati sufficienti.
La vita accanto a un personaggio così imprevedibile, esplosivo, con uno spirito fulminante, incisivo, prodigio d’intelligenza e di sensibilità, mi ha aiutato molto nei miei tentativi di comprendere il senso della vita.
Lipari, 1960
A cura di Valentina Elia
(n. 1, gennaio 2021, anno XI)
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