Sergiu Celibidache, lo spirito cosmopolita di un grande musicista

Un artista a tuttotondo dalle mille sfaccettature, ma soprattutto una personalità dalla natura fortemente cosmopolita. Sergiu Celibidache è tutto questo, ma anche molto altro. Allo stesso tempo, però, è assai difficile etichettarlo, rilegarlo in un settore, perché lui amava la musica e l’arte in tutta la sua bellezza e complessità, e non poneva limiti alla sua creatività. Direttore d’orchestra, compositore, insegnante, cittadino del mondo sempre con la valigia in mano e forte oppositore del consumismo discografico. Molte però sono ancora le zone d’ombra attorno a questo grande artista, tanto eclettico quanto schivo e riservato. Da qui il desiderio di pubblicare quattro 'lettere' (capitoli scritti in forma di lettera) tratte dal libro Sergiu, altfel… (Ed. Do-minor, Iași, 2001) di Ioana Celibidache, moglie del musicista e compagna di molti suoi viaggi. Un modo per avvicinarci in punta di piedi a questo artista e di conoscerne i tratti, con il filtro dei ricordi e delle parole di una donna che per anni ha amato il genio, ma soprattutto l’uomo. La scelta delle 'lettere' è stata dettata non tanto dalla volontà di seguire un ordine cronologico del libro, quanto dal desiderio di delineare a grandi linee una personalità così variegata, e di sottolineare il legame tra Celibidache e l’Italia, in particolare Lipari.

 

Lettera 4

Felicità copiosa, irruente. «Amore litigarello» come recita un detto popolare… Ma che litigi, e che amore! A dispetto di tutti gli ostacoli della vita, non così banali, l’amore ha vinto.
Gli spostamenti incessanti da un Paese all’altro, i successi strabilianti, i palchi del Maestro ricoperti di fiori, file di ammiratori e ammiratrici che li riempivano sempre. I giornali pubblicavano recensioni entusiastiche. Sergiu non le leggeva mai. Per lui, tanto quelle positive quanto quelle negative non avevano alcun valore. Quanto aveva ragione.
Dopo un concerto, un critico, estasiato, aveva riempito una pagina intera con il titolo IL GENIALE PIANISTA CELIBIDACHE, CHE FRASEGGIO, CHE TOCCO… «e quanta sfacciataggine», aggiunse Sergio, leggendo queste righe che, con ostinazione, gli avevo messo sotto gli occhi.
«Che pasticcio avrebbe combinato nel suo letto il critico, steso come un pidocchio, se mi avesse ascoltato nella sinfonia di Strauss come pianista! Vedi quanta importanza può avere una critica!»
Rare erano le volte in cui Celi, così lo avevano battezzato gli orchestrali di Berlino, apriva uno degli spartiti che stava eseguendo. Milioni di note erano impresse nella sua memoria, e nemmeno la nota più timida o una virgola si sarebbe permessa di infilarsi là dove non era il suo posto.

Durante una tournée in Italia, terra benedetta da Dio, ma piena di reazioni inaspettate, durante una delle prove abituali, giunto dinanzi all’orchestra composta da sedici violinisti indispensabili, si accorse che ce n’erano solo otto. Non riusciva a crederci. Furioso, chiese all’intendente dove fossero gli altri otto. Dopo qualche istante, imbarazzato, costui diede una risposta disarmante:
«Va bene, Maestro, ciò che gli altri fanno con sedici violinisti, lei, che fa miracoli, riuscirà a farlo con otto!».
L’indignazione non aveva bisogno di commenti. Hotel, bagagli e partenza con il primo aereo.
I rapporti con l’Italia non sono mai stati monotoni.





Lettera 5

Sergiu poteva essere molto scontroso, soprattutto con coloro che amavano ostentare cultura e conoscenze musicali, contraddetti con insistenza dalla loro ignoranza in materia. Diventava una piccola belva, scagliandosi come una freccia avvelenata contro quelle persone che, per il solo fatto di ascoltare migliaia di dischi, si consideravano grandi conoscitori. Esasperato da così tanta esaltazione dell’ego, a un tizio, un falso musicomane che, con i suoi indiscutibili pareri, si era autonominato «grande musicista», Sergiu, senza risparmiarlo, replicò:
«Come fa lei a sapere di essere un grande musicista, glielo ha detto il dottore?» Domanda fatale. L’incoscienza si era scavata la fossa da sola.
Pochi lo capivano.
«Sono al mondo per servire la verità. Nessuno ha il coraggio di affrontarla».
Probabilmente a volte era rigido con gli altri. Ci contraddicevamo spesso, ma questi scontri ci scivolavano sopra come l’acqua sulle piume delle oche.
La risposta, distaccata e calma, data a uno sconosciuto che gli aveva domandato, alla fine di un concerto, come gli era piaciuto il pubblico, fu questa:
«Quale pubblico?»
Non rispondeva con cattiveria, pensava ad alta voce.

Vagabondi sempre con le valigie dietro, ci eravamo stancanti moralmente e decidemmo di mettere radici. Non era semplice. Con centoventi concerti all’anno, come trovare il tempo per cercare anche una casa! Dove? In che Paese? In Italia? Fantasiosa! In Germania? Rigorosa! In Francia? Tutt’e due! Eppure, la Germania sembrerebbe il Paese in cui la musica ha un impatto maggiore.
Sergiu aveva studiato a Berlino, dove il romeno di Iași aveva sorpreso i suoi celeberrimi professori di musica, matematica e filosofia. Considerato un caso unico, era stato esonerato dalla guerra.
All’esame di direttore d’orchestra, alla domanda cosa desiderasse dirigere, rispose semplicemente:
«Qualunque cosa!»
«Brahms? Mozart? Beethoven?»
«Quello che volete!»
«Le portiamo gli spartiti?»
«Non ne ho bisogno!»
Stupore. Come dirigere senza spartito, si domandavano gli esaminatori meravigliati da tanta presunzione. Non conoscevano ancora le sue capacità illimitate di concentrazione.
Rimase a Berlino per tutta la durata della guerra.
La città, rasa al suolo dai bombardamenti, si spegneva giorno dopo giorno tra fiamme e ammassi di rovine. Momenti tragici, che non possono lasciare nessuno indifferente. Il suo cibo era racimolato tra le erbacce raccolte lungo i binari dei tram o qualche mela raccolta da un albero isolato o portata da qualche amica più agiata. Come ha potuto sopravvivere? Il buon Dio l’ha amato. E se l’ha amato così tanto è perché, a sua volta, aveva la missione di amare il prossimo.
Dato che Berlino era completamente distrutta, attraversare la città era divenuto un atto eroico. Viveva in una topaia, presso la famiglia di un tramviere, che lo prese sotto la sua ala protettrice per tutta la durata della guerra. Diventato famoso, il suo primo pensiero di riconoscenza fu di offrire a lui e ai suoi cari un viaggio a Venezia. Alla domanda se la vacanza fosse stata di loro gradimento, risposero delusi: «Bella, ma quanta acqua!».
Esasperato dai bombardamenti senza sosta, decise con alcuni amici, quelli più benestanti, di rifugiarsi a una decina di chilometri da Berlino. Uno di loro possedeva una vecchia macchina che circolava grazie più alle spinte che alle proprie risorse. Dopo molti tentativi andati a vuoto di metterla in moto, caparbia e scassata com’era, si rassegnarono. Fuori era buio pesto. Guardarono sotto la macchina, magari qualche mattone o qualche altro ostacolo aveva mandato a monte i loro piani. All’improvviso, un sibilo spaventoso, una bocca enorme come una stalla, duecento denti e due occhi grandi come piatti guardavano, impauriti, gli intrusi venuti a disturbare un povero coccodrillo, un disgraziato evaso da un giardino zoologico, riparatosi alla meno peggio.
A dispetto della tragedia della guerra, a Sergiu non mancavano le vicende divertenti.



Lipari, 1960



A cura di Valentina Elia
(n. 12, dicembre 2020, anno X)