Federico Fellini in cerca della propria Strada: analisi di un'opera cinematografica La transcodifica, il passaggio da un codice all’altro, è un processo complesso che sottintende aspetti di natura psicologica, tecnica e semiotica. Come tale, la discussione non si può fare rimanendo tra i confini, per quanto estesi siano, del campo letterario. Il termine può rinviare allo stato d’animo del creatore, alla sua (pre)disposizione al lirico, al narrativo, al drammatico. Ne derivano scelte di tipo stilistico-retorico e opzioni connesse ai codici di rappresentazione ossia concernenti i registri da usare. Ci sono creatori propensi alla descrizione del grottesco della vita e degli uomini a cui associano spesse volte significati metafisico-religiosi come il pittore Hieronymus Bosch. Altri artisti si sentono attratti dal magnifico, dal solenne come Pierre Corneille, mentre Racine è piuttosto un’anima lirica con seria apertura al sublime. Carlo Goldoni pare nato per sorprendere in strutture teatrali il fornicare sociale. La cifra di Shakespeare, al pari di quella di Cervantes, tutti e due maestri del miscuglio stilistico, è quasi illimitata, il che non vuol dire affatto che la danza dei codici o il ballar coi codici fosse un appannaggio riservato ai singoli scrittori. Come sceneggiare la vita e perché Neppure il cinema, arte assai giovane e alquanto ibrida, incapace di vantare le tradizioni millenarie della letteratura, della pittura o della scultura, può fare a meno della transcodifica. In genere, le opere cinematografiche vengono prodotte mediante una sorta di traduzione intersemiotica [1] oppure trasmutazione, cioè un tipo di adattamento che suppone anche un cambiamento di materia [2]. Il testo di partenza è la sceneggiatura, cioè un testo scritto, il quale, nel caso dei narratori autentici come Ennio Flaiano, che scrisse per Fellini, o Cesare Zavattini, lo sceneggiatore di De Sica, può avere le qualità di una vera e valida opera letteraria. Questa viene trascritta in fotogrammi con la macchina da presa. Vi si tratta di un duplice passaggio la cui prima tappa si appoggia su una cattura del reale, dell’immediato, in strutture verbali. Il visivo si fa in questo modo parola, ciò che corrisponde in gran misura alla logica trasformativa della ipotiposi. Poi, forzando un po’ i confini semantici di un altro termine, non è azzardato considerare il risultato di tale operazione un particolare tipo di ekfrasi, oppure, filosoficamente parlando, una trasmutazione del ‘dipinto’ dell’essere in un testo scritto. To talk or not to talk La seconda fase è costituita da un salto dal linguistico al visivo durante il quale il testo scritto subisce una profonda metamorfosi e un cambiamento al livello della sua sostanza costitutiva. Così, la materia cambia due volte e il processo può essere raffigurato sinteticamente tramite questo schema:
«1. Esterno strada con chiesa – Giorno. Sulla soglia del bar-tabacchi appare Marcello che sta aprendo un pacchetto di sigarette. L’aria un po’ stonata, si sofferma a guardare anche lui i giornali senza avvicinarsi troppo, mentre accende una sigaretta. Proprio in questo momento gli passa davanti una bella donna sui trent’anni, ben vestita ma con quell’aria di popolana benestante che conservano certe mondane. [Marcello] si volge a dare un ultimo sguardo alla passante e la vede che... ...sta salendo i gradini di una chiesa poco discosta, sullo stesso marciapiedi. La donna si è fermata sull’ultimo gradino. Con quella assorta serietà e quel pudore paesano che le donne ritrovano prima di entrare in una chiesa, si sta acconciando sul capo un fazzoletto scuro. [...] Marcello si stacca dall’automobile [...] tenendosi sul bordo del marciapiedi e guardando la facciata della chiesa vicina. Sembra sorpreso di vederla. Effettivamente, la facciata della chiesa si confonde nel grigiore degli altri casoni della strada. È una chiesa modesta, di uno stile confuso e un po’ moderno, senza grandi decorazioni. Ai lati delle porte ci sono manifesti sacri e qualche annunzio mortuario che aggravano il senso di squallore della cortina di mattoni e della pietra sporca dei portali » [4]. Dal neorealismo al realismo simbolico Rebus sic stantibus, sarebbe interessante studiare attentamente come un regista così sottile come Fellini riesce a usare l’intertestualità a fini creativi. Adoperare citazioni, rinvii e allusioni, imitare l’operato stilistico-retorico dei maestri che imposero certi canoni, sia che si tratti di letteratura, pittura o cinema, può rimanere al livello di semplice artificio oppure, e questo è il caso di Fellini, può diventare la base su cui costruire nuove poetiche e istituire nuovi codici. Fellini, come mittente di messaggi estetici, si distacca dai predecessori – un Chaplin, un De Sica – non mediante meccaniche deviazioni dalla norma: egli ottiene sorprendenti effetti di straniamento descrivendo oggetti, persone come se li vedesse per la prima volta. Questa stupefacente freschezza nel percepire le innumerevoli sfaccettature della realtà e delle anime umane si fa palese sin dai suoi primi film, però La strada (1954) mi sembra contemporaneamente un punto di rottura e uno di raccordo, un film manifesto in cui si fa palese la dialettica tra accettazione affettuosa dei codici di rapppresentazione neorealistica ed energica separazione dagli illustri maestri. Una poetica del funambolesco Si deve sottolineare poi che gli spunti di una nuova poetica cinematografica, molto visibili ne La strada, sono in un critico collegamento con l’opera di Charlie Chaplin. Fellini vi ricorre apertamente alla ‘citazione’ e l’ipotesto che sceglie è Il circo (The Circus) prodotto nel 1928. Il regista italiano sembra aver scoperto in Chaplin la fonte di un umorismo particolare, venato di acuti accenti di sofferenza, di dolcezza contrapposta alla violenza cieca. Accanto a Gelsomina e Zampanò vediamo per qualche tempo un altro personaggio che Fellini vi introduce con evidenti scopi metanarrativi. Si tratta del Matto, funambolo e violinista, che insegna a Gelsomina a suonare la trombetta perché intuisce le sue inconsuete doti artistiche, inesistenti per il padrone-marito Zampanò. Il Matto fa la corte alla donna usando modi delicati in cui la tenerezza pare sempre celata sotto gentilezze ludiche. Riconosciamo in lui il vagabondo errante di Chaplin, uno dei più importanti eroi dell’assai povera mitologia novecentesca, quell’omino con baffetti, bombetta, brache ricucite e scarponi da clown, sempre pronto a salvare, a consolare e a proteggere chiunque e soprattutto orfanelli e damine in distress come accade nel Circo e in tanti altri film. In essenza, l’eroe di Chaplin è un valoroso discendente del bislacco cavaliere Don Quijote de la Mancha. L'etica del doloroso buonsenso Eppure proprio questo essere fragile assume il ruolo di portaparola del regista. Un primo elemento strano nella psicologia di Gelsomina è la sua voglia ardente di conquistarsi una rispettabilità irragiungibile, motivo tragico che Fellini riuscirà a sviluppar ampiamente nelle Notti di Cabiria (1957). La povertà assoluta della sua famiglia determina la madre a venderla a Zampanò. Era già la seconda figlia che prendeva questa strada e diventava aiutante dell’umile buffone errante. Gelsomina accetta di essere smerciata, lo fa per il bene dei suoi fratelli e sorelline, ma pensa poi che Zampanò dovrebbe trattarla da moglie “ufficiale”. Prima di innamorarsene, Zampanò sembra considerarla una specie di schiava su cui avrebbe diritto di vita e di morte. Dopo una delle sue frequenti scorribande erotiche, Gelsomina somministra al suo focoso compagno questa battuta stupefacente: «Allora, Lei è uno che va con le donne!» E l’attrice Giulietta Masina riesce a trasmetterci in poche parole la dignità oltraggiata di Gelsomina, il suo inebranlabile senso etico, uno sciame di rimproveri e l’intuito – d’altronde corretto, Zampanò provando malvolentieri un fortissimo rimorso – di una possibilità di salvezza per il peccatore. È un umorismo del tutto nuovo questo e vi si può vedere la risolutezza con cui Fellini si distacca dal neorealismo. La ribellione di Gelsomina, nel modo in cui questa si delinea nella scena dei rimproveri coniugali, acquisterà ulteriormente valori nuovi e sfumature inaspettate con inevitabili conseguenze al livello dei sovrasensi. Sulle vie dell'umorismo Con questo, Fellini dichiara praticamente che la grandiloquenza vana e vuota non produce effetti estetici e arricchimenti di senso, rimanendo puramente decorativa, cioè accattivante forse all’aspetto ma povera nella sostanza. Il naturale si deve quindi opporre al pomposo che fu poi il tratto stilistico predominante del regime fascista. La magniloquenza, pare dirci il regista, nasconde la verità e la maschera travisandola allo stesso tempo. La poetica neorealista rappresentò indubbiamente un recupero necessario del vero e dell’autentico, ma tant’è vero che molti aspetti della realtà rimanevano ancora inesplorati e la poetica del ‘naturale’ mostrava adesso i suoi limiti. Con La strada Fellini propone un ritorno all’umorismo nella sua accezione pirandelliana che suppone capacità dell’artista di superare le apparenze e di rappresentare la complessità dell’umano. Percepire tragico e comico, ridicolo e sublime come categorie fluide è forse la lezione principe tanto di Pirandello quanto di Chaplin. Tutti e due avevano capito la necessità di una poetica transcodificatrice, la sola capace di rivelare strati segreti del reale. Per Pirandello, la semplice comicità è superficiale e talvolta meccanica, mentre l’umorismo, che nasce dalla riflessione, appare come contraddittoriamente molteplice essendo uno scavar le cose in profondità: «Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovine di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è qui tutta la differenza tra il comico e l’umoristico» [5]. Lo spettacolarizzar vuoto, l’esasperar retorico si devono abbandonare dunque a favore dell’autenticità discorsiva che porti poi, come nel caso di Fellini, al simbolico e al mitico. Hanibal Stănciulescu 1. Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 56-64. |