Inedito. «Gli straordinari viaggi di Orfeo» di Emil Petru Raţiu
In parte, il romanzo è nato dalla constatazione dell’ignoranza dell’Occidente verso il mio Paese e, d’altra parte, dall’incoscienza – l’ignominia – del genere umano verso il creato e la natura.
Gli straordinari viaggi di Orfeo, questo il titolo, è un romanzo storico-fantastico e filosofico in cui l’epicentro dell’azione – nonché l’inizio e la fine – ha luogo a Bucarest. Da qui partono le gallerie del tempo invisibili all’occhio profano, che svincolate dal senso unidirezionale, meccanico, del tempo lineare dell’orologio, portano nel passato e anche nel futuro, in un futuro immaginario, dei cloni. Viandanti sulle strade del tempo che si snodano da una Bucarest sotterranea occultata sotto il Palazzo dell’ex-conducător N. Ceauşescu, sono il professore di musica Orfeo, ipostasi moderna dell’antico aèdo tracio e Padre Mercurio, prete presso il convento ortodosso di Sant’Antimo. Nel finale, Orfeo arriva nel «Paese senza morte e dell’eterna giovinezza» dal racconto del folclore romeno, contro il quale i fabbricanti moderni di morte e del PIL infinito, sono partiti all’attacco per trasformarlo in risorsa di materie prime e fabbrica di carne.
Seguirà il terribile Armaghedon, nell’ultimo capitolo del romanzo, apocalittico confronto finale, con la rivincita dei vinti della storia, insieme a quella della verità e dell’amore, nonché della fratellanza universale di tutto il creato. Il romanzo è articolato in otto capitoli: Il mattino di Orfeo; Parole, parole…; La rivoluzione; Il nome occulto; Il mondo nuovo; La basilica; Venezia; Armaghedon, organicamente saldate dalla ricerca dell’amore e della verità di Orfeo.
L’orologio di San Marco suonava il mezzogiorno quando Orfeo giunse in Campo San Zanipolo, davanti alla chiesa; là si era radunato un gruppo di monaci e di giovani, che parevano protestare davanti al refettorio del convento. Cosa succedeva? Già da anni era esposta là L’ultima cena, un quadro che a molti appariva strano per la mescolanza di personaggi di epoche diverse; sulla galleria di un magnifico palazzo, in un piano secondario, c’era esposto un tavolo al quale cenavano Gesù e i suoi 12 discepoli ma nel contempo sulla galleria passavano uomini vestiti in abiti contemporanei al pittore, del tutto indifferenti all’avvenimento sacro. Come potevano vivere nello stesso tempo uomini di epoche tanto diverse? Si domandavano i monaci. Questo miscuglio di tempi ed epoche non negava l’unicità dell’avvenimento sacro?
- È come una cena di carità offerta ai poveri nella casa di un ricco, non un avvenimento unico nella storia della salvezza, disse un monaco; è come un avvenimento mondano che avviene in una qualsiasi osteria, in una taverna, ma non l’ultima cena del Redentore, rincarò un altro. Dopo che i dei pagani hanno riempito le pareti dei palazzi con i racconti fallaci dell’Olimpo, allontanando Iddio e i santi, ora dipingete Gesù e i suoi discepoli senza alcuna devozione? Volete scacciarli perfino dai monasteri? I monaci di Zanipolo risposero ai monaci di un altro convento che protestavano e avevano portato con loro i giovani, che un avvenimento tanto sacro della storia dell’umanità non poteva essere dissacrato da niente, così come i due ladri crocefissi al fianco di Gesù non l’avevano dissacrato, ma anzi, Egli aveva portato il ladro che aveva avuto fede nello stesso giorno insieme a Lui nel paradiso.
- La fede sta nel cuore, non negli occhi! Aggiunse un altro.
- Ma perché questo miscuglio fra gli uomini odierni e i discepoli di Gesù rappresentati tutti insieme, senza distinzione? Domandò un altro.
- Per mettere Gesù insieme con coloro che verranno! Egli è venuto per tutte le epoche e per i tempi dei tempi! La vista di Orfeo in abiti diversi da quelli che si portavano a Venezia distrasse per un momento l’attenzione dal quadro.
- Da dove venite, Messer? Gli chiese rispettosamente un giovane. - Dalla Dacia, rispose Orfeo.
- Avete fatto lunga strada, dissero impressionati i monaci. - No, sorrise Orfeo, poco… Né tanto lontano, né vicino… Lo guardarono con meraviglia, poi risero come per una battuta. Poi ricominciarono nuovamente a litigare gli uni con gli altri. Apprese in seguito che la disputa sul quadro durava da parecchi anni e si riaccendeva ogni volta in occasione della quaresima per placarsi poi. Ora si era però deciso, finalmente, che il quadro venisse spostato o che gli si cambiasse il nome, intitolandolo anziché L’ultima cena, Cena in casa Levy, e l’inquisizione di Venezia aveva acconsentito. Allora perché litigavano? Chiese Orfeo. I frati non volevano concederlo perché valeva forse troppo? Andò avanti oltrepassando la solenne chiesa dei santi Giovanni e Paolo, in idioma veneziano Zanipolo, quando ricordò; il quadro era di Paolo Caliari! Ma era lo stesso pittore che aveva dipinto il ritratto della donna trovantesi nella casa del dottor Ferrati! Significava che avrebbe trovato quella donna! Forse il miscuglio di tempi e persone in quel quadro preannunciavano proprio la sua presenza là?
Si avviò più fiducioso in direzione di Rio di Santa Marina, dopo la confluenza con un altro canale affinché di là, passando un ponticello, arrivasse in Campo Santa Maria Formosa, per continuare la strada verso la chiesa di San Giorgio dei Greci. Là avrebbe trovato le informazioni che cercava. Benché non si meravigliasse più di nulla, ugualmente si chiese emozionato: come si sarebbe presentata quella donna «ora»? Proseguì fiducioso sulla strada che lo avrebbe portato da lei, come un’anima che si fosse avviata verso il corpo a cui apparteneva. Giunse alla chiesa Santa Maria Formosa. Era una costruzione con le misure equilibrate, proporzionate, delle chiese e di tutte le costruzioni rinascimentali. Dintorno c’era un labirinto di viuzze, con case massicce ma nello stesso tempo sorprendentemente svelte, che si incrociavano coi canali stretti, le ultime ramificazioni del Canal Grande; le strade a quell’ora erano quasi deserte e una vegetazione nei colori pastello dei fiori degli oleandri, cresceva dappertutto in spazi poco regolari, diffusa ai crocicchi o intorno alle chiese, insieme a degli alberi ombrosi, platani e querce con le foglie perennemente verdi; erano le piazze di Venezia, i «campi». Era silenzio, si respirava l’odore del mare che si mischiava con l’odore dei fiori, delle erbe che crescevano sulle calli o nei campi, in un intrico primordiale di terra e acqua. A tratti si udivano i suoni, quasi articolati, dei gabbiani. Orfeo si fermò a guardare, affascinato dal panorama. Se non avesse avuto il privilegio di vivere in tempi diversi, avrebbe detto: Attimo, fermati! Ma lui viveva, appunto, oltre il tempo! Si diresse verso le Fondamenta dell’Osmarin e verso Rio dei Greci percorrendo la Calle Santa Maria Formosa lungo il Rio di San Severino. Attraversò il ponte di Rio dei Greci e arrivò alla chiesa di San Giorgio. Da 400 anni non era cambiato niente in questi posti… La chiesa dei Greci era come le altre chiese di Venezia, da fuori non si distingueva per niente di particolare. Fu accolto in chiesa dal padre Hyacinto. Questi gli confermò che in città c’erano, veramente, degli altri nobili della Valacchia.
C’era Maria Domina con le sue figlie, il cui marito, Zotu Zigara, già grande spataro, si era spento da poco tempo. C’era ancora il nipote di costei, il principe Radu ed altri giovani della Valacchia che studiavano alle alte scuole di Padova. Maria Domina era la figlia del Domn (Dominus) Petru che si era spento dai tedeschi, in Tirolo, e il Domn Petruera stato il fratello di Alessandro Mircea Vaivoda, il cui nipote era il principe Radu. C’erano anche degli altri, gli disse il prete, ma non gli accennò nulla della donna del ritratto. Orfeo gli domandò di lei, della cognatadel fu Alessandro Mircea Vaivoda. Con stupore sentì il Padre dicendogli che non ne sapeva nulla. - Come? Non era a Venezia? Allora, sospirando, il Padre, gli disse che lei da molto tempo non veniva più in chiesa, si era convertita al cattolicesimo. D’allora non aveva più saputo di lei… Come il padre del principe Radu si era convertito a Maometto, aggiunse addolorato il Padre, così era diventata «turca» anche Donna Maria… C’era una maledizione in quella famiglia. Il Padre si fece il segno della croce ed entrò in chiesa insieme ad Orfeo che baciò le due icone, da una parte e dall’altra dell’altare, si inginocchiò, poi si accomiatò dal padre e uscì. L’unica possibilità per trovare il principe Radu era di andare a Padova, pensò; ma ora andrà da un fondaco per riposare e meditare meglio sul da farsi… Gli mancava Padre Mercurio. O, se l’avesse avuto per consigliarsi… Ma era sicuro che, magari senza sapere come e quando, Mercurio, qua o altrove, gli sarebbe venuto incontro. Ma, la donna del ritratto, la rincontrerà? Si addormentò col suo pensiero.
Il giorno dopo si imbarcò all’alba su un barcone che partiva da Marghera navigando sul canale Brenta e prima del mezzogiorno giunse a Padova. Si diresse senza indugio verso il Palazzo del Bo, sede dell’Università, dove venivano studenti da tutta l’Europa. Le vecchie mura, il pavimento calpestato da tante generazioni, lo impressionarono, rammentandogli la vanità del tempo; guardò le aule spaziose, con gli alti soffitti ogivali. Per le porte era un andirivieni di studenti vestiti da gentiluomini, alcuni accompagnati anche da un valletto o da un inserviente che gli portava le borse coi pesanti tomi di studio. Come dappertutto, i corsi erano divisi in due cicli, in Trivium, il primo ciclo in cui si studiavano la grammatica,la retorica e la dialettica e il secondo ciclo, Quadrivium, in cui si studiavano aritmetica, geometria, astronomia e musica. L’Università era diventata famosa per i corsi di «filosofia naturale», come era chiamata la fisica, impartiti da uno dei suoi maggiori professori, Galileo Galilei.
Accanto a Galileo insegnava Cesare Cremonini, infatti il più noto professore dell’Università in quel tempo, grande filosofo aristotelico e dialettico, amico di Galilei, diventato in seguito suo acerrimo avversario poiché non volle mai riconoscere la teoria copernicana che veniva in contrasto con gli insegnamenti di Aristotele sulla centralità della Terra nell’Universo e la perfezione dei corpi celesti. La sua ritrosia nel riconoscere il primato dell’evidenza sulla teoria si spinse fino al celebre rifiuto di guardare con il cannocchiale costruito da Galileo per non dover riconoscere l’esistenza dei satelliti di Giove che contraddicevano la fisica di Aristotele! Cremonini era un addetto di Pietro Pomponazzi, il filosofo che negava l’esistenza dell’anima indipendentemente dalla materia e l’Università di Padova era dominata dalla filosofia aristotelica, sistematica e rigorosa.
Era una grande occasione per lui, pensò Orfeo, di avere la possibilità di vedere entrambi questi professori e di partecipare ai loro corsi. Ma, prima decise di cercare il principe Radu e gli studenti della Valacchia, dai quali sperava di apprendere notizie di Donna Maria. Non ebbe allora la fortuna di trovare alcuno ma apprese invece che una lezione del grande Galileo – che si tenevano tre volte alla settimana – era programmata proprio per il giorno successivo. Da non immaginarsi che avrebbe potuto ascoltare Galileo in carne e ossa, veramente! Perciò nemmeno tornò a Venezia ma rimase alla locanda «Il Cigno» di Padova, dove cenò e pernottò, impaziente di arrivare all’alba del giorno dopo. Il giorno successivo si presentò al Palazzo del Bo, sede dell’Università; c’erano ora molti più studenti che nel giorno precedente e anche molti «auditori», come lui, che volevano ascoltare Galileo. Quando l’orologio scoccò le dieci in punto, fece la sua apparizione il grande scienziato. Era un uomo ancor giovane, che non dimostrava più di 40 anni, di media statura, con un’andatura elegante, vestito con una toga nera con un collo bianco ricamato, secondo la moda del tempo, che entrò sicuro di sé, sedendosi alla cattedra. - Buon giorno, Messeri, salutò egli brevemente e gli studenti risposero: - Buon giorno, Magister, e si sedettero nei banchi. Galileo iniziò la sua lezione; man mano che parlava la sua voce diveniva più convincente, gli occhi gli brillavano illuminati come da una luce interiore, e le frasi acquistavano l’eleganza di un letterato; d’altronde, era anche letterato, in quanto aveva studiato le scienze umanistiche e, ancor molto giovane, aveva tenuto lezioni all’Accademia fiorentina sulla Figura, il luogo e l’importanza dell’Inferno di Dante e sui poemi di Torquato Tasso. Ora, egli si rivolse agli auditori con delle parole relativamente semplici, esprimendone il suo «credo» che in seguito diventerà la «Bibbia» della nuova epoca, del cui inizio ancor pochi erano consapevoli.
- «La natura è scritta in lingua matematica», disse egli con voce forte; «la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’Universo, ma non si può intendere se prima non s’impara a intendere la lingua e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, come innanzi dicevo, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto…» I corpi hanno qualità, «accidenti», le chiamava Galileo, primarie e «accidenti», secondarie; le qualità primarie sono l’estensione, lo stato solido o liquido, ecc., le qualità, «accidenti», secondarie sono il colore, l’odore, il gusto, ecc.
Soltanto le prime qualità appartengono all’oggetto e si sottopongono alla legge della fisica matematica, mentre le qualità della seconda categoria non appartengono all’oggetto ma sono di natura soggettiva e appartengono al soggetto esaminatore e perciò non entrano nel quadro di scienza esatta della fisica. - «Signori – disse egli – io ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna immaginazione posso separarla da queste condizioni; ma che ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata… Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, ecc., per la parte del soggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente loro residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tutta volta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali accidenti, volessimo credere che essi ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse. Io credo che con qualche esempio più chiaramente spiegherò il mio concetto. Io vo movendo una mano ora sopra una statua di marmo, ora sopra un uomo vivo. Quanto all’azione che vien dalla mano, rispetto ad essa mano è la medesima sopra l’uno e l’altro soggetto, ch’è di quei primi accidenti, cioè moto e toccamento, né per altri nomi vien da noi chiamata; ma il corpo animato, che riceve tali operazioni, sente diverse affezioni secondo che in diverse parti vien tocco; e venendo toccato, verbigrazia, sotto le piante de’ piedi, sopra le ginocchia o sotto l’ascelle, sente, oltre al commun toccamento, un’altra affezione, alla quale noi abbiamo imposto un nome particolare, chiamandola solletico; la quale affezione è tutta nostra, e non punto della mano; e parmi che gravemente errerebbe chi volesse dire, la mano, oltre al moto ed al toccamento, avere in sé un’altra facoltà diversa da queste, cioè il solleticare, sì che il solletico fusse un accidente che risedesse in lei. Ora, di simile e non maggiore esistenza credo io che possano esser molte qualità che vengono attribuite a i corpi naturali, come sapori, odori, colori ed altre. Esse non esistono, sono soltanto dei semplici nomi».
Tutto lo splendore di Venezia, della vita, dei suoi colori, dei suoi suoni, erano soltanto dei semplici nomi, degli «accidenti»? Si chiese incredulo Orfeo. Però seguitò ad ascoltare. Galileo spiegava la sua teoria eliocentrica: «Ora, tornando al nostro argomento, noi veggiamo la Terra essere sferica e perciò siamo sicuri che essa ha un centro, verso il quale veggiamo che si muovono tutti gli oggetti, perché è necessario dire che tutti i loro moti sono perpendicolari alla superficie terrestre; intendiamo come, muovendosi verso il centro della Terra, si muovono al suo tutto ed alla sua madre universale; e siamo poi tanto buoni, che ci vogliamo lasciar persuadere che il loro istinto naturale non è di andar verso il centro della Terra, ma verso quel dell’universo, il quale non sappiamo dove sia, né se sia, e che quando pur sia, non è altro che un punto immaginario senza veruna facoltà». Galileo prese ora dalla sua borsa un grande quaderno dal quale lesse agli studenti un dialogo socratico tra due personaggi inventati da lui.
Queste erano le lezioni di Galileo Galilei, che avevano una dialettica fine e profonda, che nel futuro gli farà scrivere le sue opere e lo sosterrà nella lotta con l’Inquisizione. Però, pensava Orfeo – che aveva il futuro nel passato – come sarà questo mondo nuovo, spogliato da tutti gli attributi di colore, suono, fragranza, bellezza; sarà vivibile per l’uomo? E poi, come sarà quella Terra, divenuta corpo celeste, fra migliaia di altri, cessando di essere più centro dell’Universo?
L’esplosione di bellezza, di «accidenti» secondari, come li chiamava Galilei, anche se solo un’apparenza, ma sulla misura dell’uomo e non dell’infinito, si spegneva come un albero colpito da un autunno improvviso e il mondo si spogliava come gli alberi delle foglie rimanendo secco, saccheggiato e deserto. Che mondo era questo? Il mondo «more geometrico» di Spinoza? O il mondo della Repubblica di Platone, dal quale le arti erano state bandite? Ma il mondo di Platone era sostenuto dall’Idea, mentre dietro a questo non c’era più nulla, non c’era alcun senso e fine, telos, c’era solo una landa in preda ai fenomeni devastanti e agli elementi. Come si sarebbe potuto trovare nei fenomeni ciechi un destino, un senso, che lui, Orfeo, ancora cercava nel «nome recondito», nel nume occulto, delle cose? Che cercava nell’amore, nella virtus, in quella luce che si era oscurata, ma palpitava ancora, nascosta nel mistero, in attesa di essere rivelata? Che mondo sarà questo che si preannunciava, se privo di essenza? La luce che sperava di trovare a Venezia, raggiungendo l’apogeo nella donna del ritratto, si celava ancora di più e non riusciva a rintracciarla da nessuna parte.
Nel frattempo, continuò a frequentare il Palazzo del Bo, desideroso di ascoltare l’altro magistro a Padova, ancor più famoso di Galilei, il filosofo Cesare Cremonini. Instaurò amicizia, ma una amicizia breve, quanto durarono alcune lezioni, con un giovane dall’Istria, il quale scoprì con grande meraviglia che parlava la lingua che si parlava in Valacchia! Com’era possibile, gli domandò il giovane, altrettanto meravigliato?! - Noi parliamo questa lingua, gli disse il giovane, ma la lingua nobile, della scienza, dell’arte, della filosofia è da noi l’italiano ed alcuni parlano anche lo slavo. Erano venuti i Valacchi dall’Istria o erano venuti i Valacchi chiamati rumeri in Istria, recando con loro anche il nome antico del Danubio, l’Istro? Altrettanto meravigliato come lui, il giovane non sapeva dare risposta a queste domande. Iniziò a frequentare, ma per poco tempo, ché poi gli eventi precipitarono, le lezioni del magistro Cremonini. Questo era totalmente diverso da Galilei. Era un tipo sanguigno, di corporatura massiccia, che aveva, sembrò a Orfeo, qualcosa dell’autoritarismo del Principe di Machiavelli. Le sue lezioni erano molto interessanti perché parlava con pathos stimolando l’interesse per le questioni astratte anche a coloro che erano meno portati per il dibattito delle idee. Egli era un «nuovo» aristotelico in quanto non si richiamava alla dottrina di Averròe o di San Tommaso d’Aquino e alla scolastica, ma si richiamava ad Alessandro di Afrodisia; in questo genere di aristotelismo la forma non era più trascendente alla materia, ma era inglobata in essa. In tal modo l’anima non era più una forma sostanziale e immortale del corpo, come aveva sostenuto San Tommaso d’Aquino, ma diventava materiale e si dissolveva insieme al corpo alla fine mortale di costui. Ciò era un bene, sosteneva Cremonini, perché una vita futura in un altro mondo sarebbe stata noiosa e oltretutto dannosa alla morale poiché avrebbe impedito all’uomo di fare in vita il bene per il bene, in modo disinteressato. Per fare il bene l’uomo non aveva bisogno di essere spinto a credere in una ricompensa o in una punizione dopo la morte. La ricompensa del bene, come aveva affermato anche Socrate, era nel bene stesso e la punizione del vizio era in questo mondo il vizio stesso!
Un allievo di Cremonini, apprese Orfeo, era stato Teofilo Coridaleu, il quale tornato poi a Costantinopoli era diventato un grande professore sicché l’insegnamento superiore in Valacchia e in Moldavia fu basato sui suoi libri secondo i quali Sevastos Kimenitis, un suo allievo, aveva insegnato al Collegio di San Sabba di Bucarest. Che martoriata metamorfosi, pensò Orfeo, della religione di Gesù Cristo, che ha predicato ai discepoli di dire pane al pane e vino al vino, in Teofilo Coridaleu, che a Padova ha ricevuto da Cremonini l’insegnamento della morte dell’anima e in Oriente ha vissuto una vita di asceta conforme alla tradizione ortodossa dedicata interamente allo spirito… Quali erano i limiti dell’uomo, dove era il suo centro?
Orfeo frequentava quelle lezioni dove sperava trovare nel frattempo la strada per portarlo a Maria Domna e al Principe Radu, finché un giorno arrivando al palazzo del Bo trovò una vera sommossa che era scoppiata all’Università; non era una sommossa contro Cremonini, amato dagli studenti, ma una rivolta che partiva di là. Un buon mattino, vide meravigliato che gli studenti erano scesi in strada, vestiti in modo bizzarro, da giullari o semplicemente solo con un lenzuolo appeso intorno alla vita, e poi, così acconciati si erano messi in moto fischiando, strillando, dirigendosi in un frastuono assordante verso il Collegio dei Gesuiti. Le loro grida oltremodo triviali erano indirizzate ai professori e agli studenti dei gesuiti: - Porci, asini, gridavano, imitando i versi degli animali, grugnendo e ragliando. Strada facendo accostavano le donne e avvicinavano i bambini, profferendo oscenità e insulti e con stupore e raccapriccio vide, ciò che nella sua Valacchia mai avrebbe veduto, come gli studenti avvolti in lenzuola se li sfilavano o li lasciavano scendere giù del tutto scoprendosi le parti vergognose, in un fuggi-fuggi generale delle donne che urlavano terrorizzate, nel grande divertimento degli studenti che man mano che si avvicinavano al Collegio dei Gesuiti diventavano più agitati e rabbiosi, urlando ancor di più e cominciando a scagliar delle pietre. Arrivando al Collegio essi imbrattarono le mura con scritte ingiuriose dopodiché, approfittando del fatto che i suoi professori e studenti, spaventati, lo avevano abbandonato, entrarono dentro, distruggendo i mobili, i banchi, le cattedre e tutto ciò che gli veniva a portata di mano. Poi, ammassarono il mobilio distrutto e gli appicarono il fuoco. Spaventato, Orfeo, insieme allo studente valacco dell’Istria che l’accompagnava, fuggirono. Fra gli studenti «bovisti», così chiamati dal nome della sede dell’Università nel Palazzo del Bo, Andrea, lo studente valacco dell’Istria, gli indicò in quella coorte, anche molti studenti protestanti, specialmente tedeschi, da Ingolstadt o da Praga, ma anche polacchi. Contro di loro, Antonio Possevino, il grande Inquisitore, aveva sollecitato il Sant’Uffizio di Roma a prendere provvedimenti e aveva chiesto di infiltrare i bovisti stranieri con degli studenti gesuiti che gli conoscevano la lingua per meglio conoscere ciò che pensavano. Il Santo Uffizio era sicuramente contro di loro, soggiunse Andrea, così come era stato contro il vescovo Vergerio di Pola o dell’abate francescano dell’Istria, Baldo Lupetina, il nostro, aggiunse con una punta di orgoglio Andrea, che l’hanno affogato qui, nella laguna, disse indignato, poiché temevano la propagazione del protestantesimo. Ma ora, Venezia è difesa da Paolo Sarpi, e ciò che ha potuto fare l’Inquisizione 40 anni fa, ora non può più, soggiunse egli!
D’altronde, le autorità veneziane, molto sensibili all’ordine e alla disciplina nelle scuole, imposero subito grandi ammende ai capi di questa insolita manifestazione, alla quale avevano partecipato molti rampolli della nobiltà veneziana, ma già il giorno dopo, Cremonini, accompagnato da altri professori, si era presentato al Palazzo dei Dogi per difendere i suoi studenti ed incolpare i gesuiti che avevano infranto la bolla del grande Imperatore Federico II, stupor mundi, il quale aveva concesso l’unica autorizzazione di insegnamento universitario sul territorio della Serenissima soltanto all’Università di Padova. La sua tesi, anche se distorceva completamente i fatti, in quanto erano stati i «bovisti» che avevano attaccato e vandalizzato il Collegio gesuita, e non inversamente, trovò buon ascolto al Senato veneziano, poiché, abile oratore, egli aveva toccato le corde più sensibili delle autorità, quelle dell’indipendenza nei confronti di qualsiasi ingerenza straniera, sostenendo che i gesuiti rappresentavano gli interessi e l’influenza di uno stato straniero che voleva imporre a Venezia la giurisdizione dei suoi tribunali ecclesiastici. Il suo successo fu talmente grande che i professori del Collegio gesuita non furono nemmeno ascoltati. Allora, essi stamparono e distribuirono «cinque apologie» in cui descrivendo i fatti come realmente erano accaduti, misero in evidenza su un tono satirico il carattere dispotico di Cremonini, di cui scrissero che «era molto più adatto a portare una sciabola turca (iatagan) alla vita e un fucile sulla spalla che non Aristotele alla cattedra e a scaraventarsi in lotta coi contadini che discorrere in cattedre universitarie coi dottori. Egli era un filosofo mercenario – era infatti il professore meglio pagato a Padova e in Italia – portato dal fango e le giuncaie delle paludi di Ferrara, arrivato, solo Dio sa come, meglio detto venduto per qualche spicciolo, per servire con barbari insegnamenti e la peggiore lingua l’Università di Padova! Egli era solo un ragno puzzolente che succhiava buona dottrina per buttare nelle orecchie degli studenti veleno mortale!».
Anche nei giorni successivi Orfeo si presentò all’Università, ma siccome il conflitto coi gesuiti continuava, molti studenti e professori abbandonarono le aule per andare a manifestare. Ciò gli ricordò, anche se avvenuta in condizioni completamente diverse, la sommossa dei soldati mercenari a Bucarest con l’incendio della chiesa dei Paoliciani. Perciò, per un po’ di tempo abbandonò l’Università dedicandosi alla ricerca della donna del ritratto veduto nella casa del dottor Ferrati. Non la trovò, ma la fortuna, o il destino – perché era convinto che la sorte era il pensiero di Dio – gli fecero incontrare un amico del principe, un cretese italianizzato, Costantino Battista Vevelli. Da questi apprese l’indirizzo di un mercante che era l’uomo d’affari della nobildonna. Si recò da questi, il quale aveva il negozio proprio sul Ponte Rialto; dalla Riva degli Schiavoni dove l’aveva portato il barcone da Padova, passò per il Ponte dei Sospiri sotto l’edificio della prigione dei Piombi e arrivò nella piazza di San Marco, al Palazzo dei Dogi. Da qui, in un batter d’occhio arrivò a Rialto, il ponte sopra al Canal Grande, che aveva da un lato e dall’altro dei negozi. Uno di questi era di Aloisio Spai che trovò immediatamente. Aloisio Spai era librario e antiquario, poiché nel negozio teneva antichi vasi, porcellane cinesi e statuette e inoltre era agente di navigazione per i porti del Mediterraneo, soprattutto per Ragusa e da quando Cipro era stato occupato dai Turchi, per l’isola di Creta, e in quella qualità l’aveva conosciuto Battista Vevelli. Era un uomo dalle molte qualità, come d’altronde gli era stato descritto, che poteva fare tante cose! Orfeo gli si presentò e Spai lo ricevette secondo le regole della squisita cortesia veneziana, perché sebbene mercante egli era istruito in «humanitas», capace di frequentare i salotti aristocratici con cui intratteneva relazioni per il suo commercio d’arte.
Come nobile venuto dalla Valacchia, disse a Aloisio, cercava la Donna Maria poiché aveva problemi da risolvere con lei. Aloisio lo guardò, per un istante i suoi occhi azzurri cambiarono appena percettibilmente la luce, come le acque della laguna sfiorate dalla brezza del mare, senza esprimere però alcuna emozione o pensiero e con la stessa squisita cortesia gli rispose:
- Mi dispiace Messer, darvi sgradita notizia, ma non è possibile incontrarla…
- Perché?! - La signora Maria non appartiene più a questo mondo… Ha abbandonato il nostro mondo vuoto per consacrarsi solamente a Dio.
La notizia venne inattesa, ma non fece disperare Orfeo; chiese se egli non avesse un suo ritratto poiché ne aveva veduto uno a Bucarest, firmato dallo stesso pittore che aveva dipinto il quadro de L’ultima cena esposto nella chiesa di Santa Maria Formosa. - È verissimo, rispose Aloisio, quel ritratto che Vostra Signoria ha veduto glielo ha eseguito il maestro Paolo Calieri e io medesimo l’ho spedito a sua sorella, Donna Caterina, consorte del fu magnanimo Principe della Valacchia… Dopo la morte del suo consorte, Messer Adorno, Donna Maria è vissuta molti anni nella sua casa nel quarto del Sestriere e là, il pittore Paolo Calieri, veramente, gli ha fatto più di un ritratto…
- Non ne avete alcuno di questi ritratti? Chiese, col cuore in gola, Orfeo. - No, rispose il mercante. Più di uno ne ho spedito io a sua sorella a Bucarest, di altri non sono a conoscenza…
- Forse, posso informarmi dal pittore, disse Orfeo. - No, disse nuovamente Aloisio, perché il pittore è morto già da alcuni anni.
- Posso allora sapere in quale convento si è ritirata Donna Maria? Gli domandò.
- Donna Maria si è distaccata dal mondo e non ha lasciato recapito… Però c’è suo nipote, il principe Radu, che può conoscere qualcosa in merito… Domani il principe passerà da me. Siate buono e passate anche Voi, disse a Orfeo.
Se aveva perduto Donna Maria, nella sua sfortuna un raggio di luce c’era ancora, poiché aveva trovato il principe, pensò Orfeo. Si concentrò per fissarla, per rivedere con gli occhi della mente la sua figura nel ritratto di Bucarest, identica a quella della fine del tunnel che l’aveva portato da Lei. Perché l’aveva chiamato? Si domandò allora senza trovare risposta.
L’indomani, si presentò al negozio di Ponte Rialto. Con la stessa squisita cortesia Aloisio lo ricevette ma questa volta, gli parve, lo guardò con un po’ più di comprensione. Dopo una pausa, gli disse che dopo la morte del pittore Calieri, Donna Maria aveva preso i voti, ma negli ultimi tempi, ammalandosi, si era ritirata in un convento di clausura, dove le regole non consentivano a nessuno di incontrarla. Ma, aggiunse, era in grado di indicargli il convento, perché lo aveva appreso dal principe. Per ciò che riguardava il principe, egli era già venuto e ritornava il giorno successivo, poiché voleva conoscere il nobile arrivato dal suo Paese. Orfeo andò subito al convento; aveva il presentimento di qualcosa di imprevedibile che non sapeva definire, ma che doveva presto succedere. Prese una gondola e mentre attraversava la laguna il gondoliere iniziò a cantare un canto che gli blandiva qualcosa di indefinito, come un dolore che doveva ancora avvenire. Emergendo dall’acqua, presto apparvero le guglie della chiesa di San Donato e fra piccole isole e canaletti, il gondoliere lo portò davanti alla chiesa di San Maffio, dove si era ritirata Donna Maria. Là Orfeo scese e si diresse verso la porta che si vedeva nel muro che circondava il convento. Suonò il campanello e da dietro la porta una voce gli domandò cosa voleva. Disse il nome di Donna Maria. Dopo alcuni lunghi istanti, una altra voce gli rispose che suor Eudossia, nella vita terrena Maria Vallarga, aveva reso l’anima al Signore. Chiese di vedere sua tomba, ancora incredulo della notizia. Dietro la porta si udirono di nuovo delle voci femminili che si consultavano, esitando su cosa dovevano fare. Infine, una vecchia monaca gli aprì la porta, mentre le altre scomparvero e lo condusse in chiesa davanti a una lapide simile a quella della chiesa dei Paoliciani a Bucarest, sulla quale, constatò sorpreso, non scriveva nulla. Capì che non si scriveva il nome sulle tombe, che le monache facevano soltanto un segno di identificazione, soltanto a loro noto, poiché al Giudizio finale, gli si disse, l’Angelo della Risurrezione avrebbe riconosciuto il posto di ciascuno. Andò via stordito, come non avesse più inteso le parole, il loro legame colla realtà. Tutto il mondo di Venezia perse in quel momento il suo splendore, la luce. Si arrovellò a lungo in quella notte, sognando nel buio un pozzo profondo in cui non c’era nulla che materia decomposta, illusione e sofferenza, ora trasformata in vermi…
Il giorno successivo si incontrò col principe Radu e con Vevelli. Vedeva per la prima volta il principe che era stato già informato dal decesso di sua zia. Era un giovane esile, il cui viso tradiva ancora le sofferenze passate; separato da bambino da suo padre, dalla famiglia, dal Paese, che quasi non ricordava più, egli era stato allevato da Donna Maria fino negli ultimi anni, quando lei era andata in convento; ora, a queste sofferenze, si aggiungeva la sua perdita. Aveva però molta padronanza di sé, orgoglio pure, per nascondere le sue sofferenze. Con benevolenza, ma anche con tono sicuro, facendo un leggero inchino, egli si rivolse a Orfeo, proponendogli di tornare in Valacchia con lui, insieme a Vevelli ed ad anche qualche altro compagno. Là, disse a Orfeo, avrebbe avuto un posto alla guida dello stato o in una Accademia, simile a quelle dell’Occidente, che avrebbe presto aperto. - C’e bisogno di insegnamento, ma senza cambiare la legge, disse. Il fasto, i divertimenti, il mondo dei pittori, mostrano il mondo solo come appare percepito mediante i sensi, ma la realtà vera, il mondo vero, è al di fuori dei sensi. Esso si trova nell’immagine dell’icona. Da noi, un principe deve regnare con giustizia, secondo i precetti morali del Vangelo, non secondo quelli di Machiavelli. Tutto ciò che un nuovo principe deve portare è la maggiore giustizia per i sudditi che non deve opprimerli. Questo è ciò che voglio fare in Valacchia, disse egli a Orfeo, dopodiché gli fece ancora un leggero inchino e si allontanò accompagnato da un giovane valacco e dal suo servo. Pareva ora che l’occasione che il principe aspettava da anni fosse arrivata… Negli ultimi anni altre due occasioni si erano dissipate nel nulla, colpite dalla spada impietosa di Michele, il principe della Valacchia, che aveva sconfitto i Turchi riottenendo l’indipendenza del suo Paese e degli altri due Paesi affini, la Transilvania e la Moldavia, che aveva riunito sotto il suo scettro.
Orfeo decise di dare seguito all’invito, di tornare in Valacchia, ritenendo che la sua missione a Venezia era finita. Tutto, l’anima che moriva con il corpo, come sosteneva Cremonini, la luce che si spegneva insieme all’anima, dava per un attimo maggiore bagliore al mondo di fasto di Venezia, ma era un fasto dietro al quale aspettava la morte, era soltanto una maschera, come il corpo ridotto ora in cenere della donna raffigurata nel ritratto…
Eppure, pensò, Cremonini non aveva ragione… Gli occhi, la luce sul volto della donna, se fossero solo un inganno dei sensi, come avrebbe potuto sentirli egli oltre il tempo, ancor vivi, raggianti di luce, più vivi di una donna vivente, se essi non esistevano? Essi non potevano essere un epitaffio della vita, «Hic jacet totus mihi» come aveva scritto sulla lapide che aveva confezionato per la sua futura tomba Cremonini. Essi, essa, oltrepassavano la tomba, la materia, il tempo…
Il giorno dopo partì da Venezia in compagnia del principe, di Battista Vevelli, di Crisoverghi, il figlio del capitano del castello di Suceava e di altri due uomini che anni addietro erano venuti col Principe Pietro lo Zoppo nel Tirolo e poi erano passati a Venezia al servizio di sua figlia e di suo marito, Minio Polo. Furono accompagnati al porto dal vecchio confidente di colei che era diventata monaca a Murano ed era ora ridotta in cenere, dal Ser Aloisio Spai e dal ragusano Giovanni Poli de Marino, il proprietario della linea di navi sull’Adriatico. La nave, allestita eccezionalmente sulle spese del principe, salpò velocemente, non avendo niente da caricare come le normali navi che trasportavano merci e viaggiatori. Col vento favorevole alla prua si allontanarono velocemente da Venezia, valicando le acque della laguna, uscendo nel mare che si apriva all’orizzonte. Nel giorno successivo apparvero le splendide isole di Cherso e Lussino, poi quelle della costa della Liburnia che li accompagnarono come una incantevole collana, quasi continuamente, lungo il litorale dalmata. Ma vicino all’isola di Pago, il tempo cambiò bruscamente, il vento del nord, la bora, cominciò a soffiare con forza, alzando alte onde e scuotendo fortemente la nave; fu una notte da incubo per coloro che non erano abituati al mare, ma fortunatamente, prima dell’alba, il vento si calmò, le nuvole si dissiparono e la luna nuova apparve sul cielo stellato. Navigarono tranquilli tutto il giorno successivo e il giorno ancora dopo apparvero all’orizzonte le guglie e i campanili delle chiese e la torre del faro del porto di Ragusa. Il mattino dopo li aspettavano le guide valacche e una truppa di quaranta cavallerizzi per accompagnarli, inviati dal ex-principe del Paese, il padre del principe Radu. Percorsero per cinque giorni le montagne, con dei buoni cavalli, finché arrivarono al confine, a Cladova. Nel frattempo, appena usciti da Ragusa, passarono attraverso molti paesi valacchi, dove vivevano i «Valacchi neri», i Morlacchi. Strada facendo, man mano che si allontanavano dal mare e dalle città costiere dove governava Venezia – con l’eccezione di Ragusa che era indipendente – ed era ancora pace, si avvicinavano alla zona di guerra tra i Turchi e gli Austriaci.
Il principe Radu, man mano che si avvicinava alla Valacchia, diventava giorno per giorno più apprensivo, più irrequieto. Era più che spiegabile, andava incontro al suo destino! Avevano oltrepassato Mostar, sull’altra riva della Drina, e il principe si chiudeva sempre più in sé, pensieroso, percorrendo le contrade nel cui paesaggio si vedevano i minareti delle moschee e i campanili delle chiese mescolati un uno strano intreccio. Sprofondava più spesso nei pensieri, in una tristezza che turbava i suoi compagni. A Orfeo parve una volta di scorgere una lacrima che gli scivolava sul volto. - C’è un grande tormento nell’animo del principe, gli disse Battista Vevelli, che in quel momento si trovava vicino a Orfeo. Egli va a riconquistare il suo Paese cristiano mentre colui che l’ha portato al mondo, ha rinnegato la sua fede ed è diventato musulmano. Come, non sai?
Domandò a Orfeo, che per discrezione non aveva mai dimostrato di avere conoscenza delle vicende famigliari del principe. Il principe, gli sussurrò Vevelli, è cristiano, ma suo padre è diventato musulmano. Egli è disprezzato dai cristiani e non meno dai musulmani, benché nessuno glielo mostri apertamente, perché, per fortuna, i cuori degli uomini sono invisibili. E il principe Radu nel suo cuore è veramente cristiano, aggiunse addolorato Vevelli. Egli ha trascorso una infelice infanzia senza il padre diventato musulmano, in Valacchia ed a Monte Athos, poi nella casa della zia divenuta cattolica, a Venezia, la quale ha preso i voti allorché egli è cresciuto. Ora, gli disse sotto voce, c’è un segreto, insieme alle sue speranze al trono egli ha portato le ceneri della zia, che or ora giacciono insieme ai suoi tesori a Ragusa, per seppellirla in Valacchia con gli onori dovuti quando egli salirà al trono. Questo è stato l’ultimo desiderio di lei e lui glielo ha soddisfatto, prendendole le ceneri dal monastero. Orfeo rimase turbato dalla confessione. Aveva viaggiato per mare con lei? La tomba di Venezia era veramente vuota, come aveva sospettato e perciò non aveva scritto sopra alcun nome? Questa donna l’aveva veramente chiamato, anche se egli non era stato in grado di arrivare finché lei fosse ancora in vita? Che senso c‘era nella tribolazione di lui, del principe, della donna del ritratto? Ma Battista Vevelli continuò interrompendo i suoi pensieri: Il padre del principe, divenuto musulmano per disgrazia, e dal quale il principe vive separato da piccolo, lo adora, lo ama col più tenero amore con cui un padre ha mai potuto amare al mondo un figlio… Povero principino… Cristiano fino a preferire di perdere il trono – e forse anche la vita, sussurrò Vevelli – allorché tre anni fa suo padre lo inviò ad accompagnare l’esercito pagano contro il principe della Valacchia, Michele… Esultando della vittoria del principe Michele sulla orda pagana, che, ahimè, l’avrebbe installato principe in un Paese profondamente cristiano… Quante volte non avrà rimpianto suo padre l’attimo di debolezza in cui anziché lasciarsi perdere la vita sotto la scure del boia, come martire, ha chiesto la grazia del Sultano, che gliela ha concessa in cambio del diniego della propria fede…
Si avvicinavano già a un paese per pernottare nei monti selvaggi della Bosnia e sul firmamento si accendevano l’Espero e le prime stelle allorché Vevelli finì a raccontare in disadorne, semplici parole, la tragedia del principe Radu. Perciò io l’accompagno dappertutto e sono venuto con lui in Valacchia dove mi stabilirò, se le sorti della battaglia gli saranno favorevoli, aggiunse egli con convinzione. Là, in quelle montagne, ricordò allora Orfeo, si era compiuto anche il dramma del pastore, dei pastori valacchi, assassinati, a cui la fedele pecorella, secondo la leggenda, aveva svelato come un oracolo il destino contro il quale essi non si erano opposti, non opponendosi ai loro sicari. Perché? C’era nel loro animo, nell’animo di questo popolo, che tante volte aveva mostrato in combattimento coraggio davanti alla morte, la vecchia fede nel Fato, nella sorte, che regnava sopra agli uomini e sopra ai loro Dei, che i Greci avevano perfino alzato nell’Olimpo?
Quella notte dormirono nelle capanne dei pastori, nella fragranza pura degli abeti, vicino a un fuoco di rami secchi che li scaldò fino al mattino e li difese dalle belve. Al mattino, si alzarono nel canto del gallo di montagna, che solo in quei posti si sentiva; gli uomini riportarono i cavalli che durante la notte avevano pascolato liberamente l’erba e mangiato l’avena portata per loro. Poi, riempirono le bisacce con polenta con pezzi di formaggio comprato dai pecorari del posto, le borracce con acqua, si fecero il segno della croce e partirono verso la Valacchia… L’indomani, all’ora del tramonto erano a Cladova, sul Danubio, sulla strada che 1500 anni prima era stata percorsa dall’Imperatore Traiano. Da Cladova, su un ponte galleggiante rientrarono in Patria. Passarono il Danubio insieme agli uomini che gli erano venuti incontro a Ragusa per accompagnarli, e toccarono la terra romena... A molti le lacrime gli solcavano le guancie.
Vollero pernottare in un paesino ma le case erano vuote, la popolazione si era rifugiata nelle foreste.
Pernottarono in un bosco. Il giorno dopo proseguirono verso una località dove erano raggruppate le truppe del pascià di Vidin, il quale, dopo la giunzione col grosso delle truppe turche avrebbe portato il principe Radu a Bucarest. Per la strada regnava dappertutto la desolazione, c’era l’immagine di un Paese abbandonato e devastato. Solo i corvi gracchiavano lugubri per l’aria roteando sopra ai cadaveri. Cos’era successo al Paese? Riuscirono ad arrivare in una cittadina dove la visuale un po’ cambiava. Da oltre il Danubio, erano giunte le truppe di giannizzeri e di akingi del Pascià di Vidin, portando la provvigione insieme agli auguri di vittoria degli pascià al principe. Nell’animo del principe si dibattevano l’amore per il padre e l’orrore profondo per l’apostasia; poteva essere questo cancellato dalla incoronazione, o nel suo animo meglio desiderava la sconfitta da parte delle truppe cristiane? Il Paese era passato dappertutto per ferro e fuoco dagli eserciti stranieri. Il grande e temerario principe Michele, era stato assassinato dai Valloni del generale imperiale Basta sulle piane della Transilvania, nei pressi di Turda; da levante arrivavano nella Patria rimasta vedova, senza braccio di difesa, i Tartari e Stroe Buzescu, il generale di Michele gli veniva incontro e li sconfiggeva, cadendo nella lotta.
Dal nord e dal levante calavano come giganteschi uccelli predatori, i Polacchi, portando con loro principe nel Paese, Simone Movila; dal meridione venivano i giannizzeri, gli spahi e gli akingi di Sinan Pascià, come un mare di locuste che si allargava sul Paese, oscurandone il sole. E con essi Radu Voda… Soltanto dal nord, ancora venivano, solitarie, disperse, le schiere dei Romeni, si facevano largo, per i valichi delle montagne, verso l’antica terra cismontana, verso la vecchia Patria, i guerrieri di Michele il Temerario, rimasti senza condottiero. Sulla Transilvania si stendevano i tentacoli di Vienna… Il Paese sembrava soccombere sull’orlo del precipizio. Ma ciò che più lo toccò e lo impressionò fu la vista di una schiera di boiardi e soldati fedelissimi a Michele che venivano, scendevano dalle montagne, sulle vallate, portando con essi un piccolo, santissimo feretro… Dentro c’era il capo di Michele il Temerario… Finis Daciae, disse Orfeo e chiuse gli occhi, come davanti a un cataclisma universale. Dopo 16 anni cominciava la Guerra dei 30 anni e i principi della Transilvania combattevano in Germania mentre la cristianità in lotta fratricida lasciava in Dacia, sul Danubio, campo libero, aperto, ai Turchi.
Sotto i piedi di Orfeo si aprì un pozzo, un pozzo profondo, al cui limite c’erano, guardavano gli occhi della monaca veneziana che aveva accompagnato senza sapere tutto il viaggio. Sprofondò, affondò nel tempo… Varcò la Stige…. Si avvicinò all’Apocalisse…