Un mondo migliore. Percorsi della poesia (II)

In questa seconda parte del suo articolo, Armando Santarelli ci mostra un volto della poesia diverso da quello segreto e misterioso di cui aveva trattato nel numero precedente. È la poesia nella sua veste più elementare - ma anche più amabile e commovente - a presentarsi alla nostra attenzione, rendendoci partecipi della sua magia, della sua capacità di proiettarci in un mondo migliore.

Questo genere letterario – e ciò dimostra la grandezza e la magia della poesia – conosce forme e contenuti ben diversi e addirittura opposti a quelli teorizzati dai grandi letterati citati nella prima parte del nostro articolo. Ci sono poesie universali, immortali, la cui forza risiede in parole e versi elementari, e che tuttavia si imprimono nell’animo con una forza inusitata, con un marchio indelebile. Sentiamo il poeta turco Nazim Hikmet (1902-1963) in Vivere su questa terra:


Non vivere su questa Terra

come un inquilino
o come un villeggiante
nella natura.
Vivi in questo mondo
come fosse la casa di tuo padre.
Credi al grano
alla terra, al mare,
ma prima di tutto ama l’uomo.
Ama la nube, la macchina e il libro,
ma prima di tutto ama l’uomo.

O la poesia Autunno di Vincenzo Cardarelli:

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

Quindi, la parola poetica può rifulgere se sfumata, arcana, misteriosa, ma anche se chiara, elementare, netta; però, sempre quella giusta, insomma «le parole migliori nel loro ordine migliore». E qui arriviamo al verso, alla qualità che una serie di parole deve possedere; questa qualità è il suono, la musicalità. Sempre nel discorso tenuto all’Accademia di Svezia nel 1975, Montale non mancò di sottolineare che la poesia va intesa come parola musicale. Nata per aggiungere un suono vocale al martellamento delle prime musiche tribali, pian piano la poesia si apre alla metrica, alla rima, alle strofe, diventa essa stessa musica. Poi si affina ancora, si fa visiva, perché dipinge immagini; ma essendo anche parola musicale, riunisce due arti in una.
Com’è noto, è con il Simbolismo, movimento maturato in Francia nella seconda metà del XIX secolo, che il linguaggio poetico si fa musica. Manifesto del nuovo orientamento culturale è considerato un articolo del poeta Jean Moréas, Le Symbolisme, comparso su Le Figaro il 18 settembre 1886. Il simbolismo si incarna in alcuni punti fondamentali: la poesia è musica, e il poeta non deve descrivere la realtà, ma cogliere ciò che va oltre il sensibile, penetrare il senso riposto delle cose.
Arriviamo così al Novecento, che vede un mutamento fondamentale nella poesia, che acquisisce nuove e più libere modalità espressive, a scapito della rima, dell’allitterazione, della consonanza delle parole. Ma la poesia non abbandona l’incanto del verso, imprescindibile per l’emozione che le composizioni poetiche sono in grado di donarci. Riguardo alla suggestione, alla commozione che la poesia solleva nel nostro animo, potremmo fare mille esempi. Come succede per le canzoni, ognuno ha i suoi versi preferiti; i miei sono costituiti da quelli che chiudono la splendida poesia di Giovanni Pascoli (1855-1912) Il gelsomino notturno, che fa parte dei Canti di Castelvecchio (1903).
I gelsomini notturni, detti anche “belle di notte” si aprono nel crepuscolo estivo, per poi chiudersi all’alba. La lirica, che è un puro fluire di sensazioni che affiorano alla coscienza del poeta, fu scritta per le nozze di un amico. I versi di Pascoli quasi accarezzano i vari elementi: le luci fievoli, i profumi, i sussurri della notte, il tremolio delle stelle. Poi arriva l’alba; la notte è trascorsa, si chiudono i petali del fiore, e dentro la sua urna molle e segreta si cova una felicità inedita, allusione alla nuova vita che si è dischiusa nel grembo della giovane sposa.

È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

Non posso leggere Pascoli senza commuovermi, perché è il poeta che più di ogni altro ha saputo trovare il sorriso e la lacrima nelle umili cose di ogni giorno. Pascoli pensa che la poesia nasca dal ricordo. Nella Prefazione ai Primi Poemetti, scrisse: «Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo». D’accordo con Pascoli troviamo Leopardi (1798-1837) che nello Zibaldone di Pensieri (VII, 360, I) osserva: «La rimembranza è essenziale e principiale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago».
Anche per il poeta romantico inglese John Keats (1795-1821) la poesia nasce dalla rimembranza. Questo prodigio della poesia morì a soli 26 anni, ma è riuscito a donarci alcune delle maggiori liriche di ogni tempo. In lui, poesia e vita si identificano in maniera indissolubile, come forse è successo altre due sole volte nella storia della poesia, con Emily Dickinson e Marina Cvetaeva. Sono i poeti, come scriveva Sylvia Plath, «posseduti dai loro versi come dal ritmo del loro respiro».
Nelle cinque Odi che lo hanno reso grande, e nelle Lettere sulla poesia, Keats offre una meditazione incalzante sul rapporto viscerale, esistenziale con la poesia. Nella missiva del 10 maggio 1817 indirizzata a Leigh Hunt, scrive: «Sono andato all’isola di Wight, ho pensato tanto alla Poesia e tanto a lungo di seguito che non riuscivo a dormire la notte… ero troppo solo, e di conseguenza ero obbligato come unica risorsa a bruciare costantemente del mio stesso pensiero».
Keats è il poeta puro per eccellenza: come abbiamo visto, appartiene alla generazione dei romantici inglesi, eppure se ne discosta in maniera sensibile. Infatti, con Wordsworth, Coleridge, Shelley, la poesia, attraverso la filosofia, diventa etica; in Keats, invece, la poesia deve nascere spontanea, sorgiva, e non avere altri fini. Nella lettera a Benjamin Bailey del 22 novembre 1817, scrive: «Comunque sia, oh! per una vita delle Sensazioni, piuttosto che del Pensiero!». Keats è decisamente contro il razionalismo: se esalta l’intuizione della vita colta nel segno della Bellezza, è perché - come leggiamo in Ode su un’urna Greca - «La Bellezza è Verità, la Verità è Bellezza».
Forse è nella celebre Ode a un usignolo che Keats raggiunge i risultati più alti; in questa lirica, il poeta riassume il conflitto fra sogno e realtà, tra l’eternità e i dolorosi limiti della vita terrena. Il canto dell’usignolo evoca le gioie della bella stagione, l’aspirazione a evadere in un paradiso di libertà e felicità; ma il poeta è pur sempre immerso nel mondo concreto, dove i nostri sensi colgono la sofferenza, il decadimento della vita, la morte.

Sparire lontano, dissolvermi, e dimenticare poi
ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto:
la stanchezza, la febbre e l’ansia
qui, dove gli uomini ascoltano il reciproco lamento,
dove il tremito scuote gli ultimi, tristi capelli grigi,
dove la gioventù diventa pallida, magra come uno spettro, e muore;
dove il pensare stesso è riempirsi di dolore,
e disperazione per le plumbee ciglia,
dove la Bellezza non può serbare i suoi lucenti occhi
o il nuovo Amore struggersi per loro oltre il domani.

Versi di un’altezza insuperabile, come quelli, successivi, dove Keats invoca la morte affinché si porti via il suo respiro nell’estasi del “requiem altissimo” dell’usignolo:

Nel buio ascolto io che spesso
ho quasi fatto l’amore con la facile morte,
e con bei nomi la chiamai in pensose rime,
perché sereno, nell’aria, si portasse il mio respiro –
E mai come adesso m’è sembrato ricco il morire:
spegnersi a mezzanotte, senza dolore,
mentre tu butti fuori l’anima
in un’estasi stupenda!
Tu canteresti ancora: e invano avrei orecchi,
io diventato zolla dinanzi al tuo requiem altissimo.

L’usignolo è l’armonia della Natura, e il poeta vorrebbe morire nell’estasi di un canto che è immortale come la Bellezza, che rimane la suprema istanza del genere poetico. E tuttavia, quella di Keats non è un’accettazione totale: l’Ode svela il dissidio spirituale di chi sa che la morte lo renderà sordo alla melodia eterna dell’usignolo.
Allora: abbiamo parlato di musicalità, di mistero, di senso, di ricordo, della magia di parole capaci di suscitare suggestioni ed emozioni ineffabili. Ma c’è un’altra virtù che la poesia possiede: è la sua discrezione, la sua democraticità. La poesia, faceva notare Montale, è un’arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto.
Chi considera “difficile” la poesia, chi non l’ama perché spesso richiede un lavoro di immedesimazioni e di interpretazione, dovrebbe riflettere su ciò che disse nel giugno 2008, al Parmapoesia Festival, il grande scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger: «È una realtà che i testi poetici risultano in maggioranza più facilmente comprensibili dei programmi di partito, delle condizioni generali di contratto, dei contratti di affitto o di noleggio o delle istruzioni per l’uso di certi oggetti». Enzensberger aggiungeva che la poesia non è estranea neppure a chi non la ama. Le persone che non conoscono a memoria neppure una poesia sono rarissime. Poesie ampiamente note sono il Padre Nostro, la Vispa Teresa, le filastrocche che impariamo da bambini, gli inni nazionali, moltissime canzoni famose.
Insomma, da tempi immemorabili la poesia si incarna dentro di noi, ci trasforma, modifica la nostra sostanza. Come scrive Nadia Fusini nella Prefazione al Meridiano Mondadori dedicato a Sylvia Plath, la poesia è il «tu» che ci inchioda al nostro «io» più profondo. Perché ci commuoviamo, ci esaltiamo, proviamo estasi o disperazione dinanzi a certi versi? Perché ci sta parlando un oracolo, uno stregone, un mago, che è l’artista quando compone i suoi versi.
È l’artista che vive di poesia, il Mandel’štam di cui parla nostalgicamente e splendidamente il grande Varlam Šalamov nei Racconti della Kolyma: «La poesia era la forza vivifica di cui lui viveva. (…) E si riempiva di gioia al pensiero che gli fosse stato dato di capire quest’ultima verità. L’universo intero era poesia: il lavoro, lo scalpitio dei cavalli, una casa, un uccello, una roccia, l’amore – tutta la vita entrava facilmente nei versi e ci si installava comodamente. E doveva essere così, perché i versi sono la parola».

Voglio chiudere citando di nuovo Brodskij, come sempre il più essenziale, il più spiccio. Una volta gli chiesero perché avrebbe voluto vivere di sola arte, e lui rispose: «Di che cosa dovremmo vivere? La nostra quotidianità è tanto povera e orrenda che per forza dobbiamo abitare quel mondo migliore».


Armando Santarelli
(n. 11, novembre 2022, anno XII)