Un mondo migliore. Percorsi della poesia (I)

Il 12 dicembre 1975, a Stoccolma, uno dei massimi poeti italiani di ogni tempo, Eugenio Montale (1896-1981), riceveva il Premio Nobel per la Letteratura. Il discorso che Montale tenne all’Accademia di Svezia era intitolato: «È ancora possibile la poesia?».
È sufficiente leggere qualcuna delle liriche del poeta genovese per rendersi conto che non solo la poesia è ancora possibile, ma necessaria, indispensabile al nostro mondo; non c’è alcun dubbio sul fatto che la poesia e la musica siano due tra i più potenti attivatori di emozioni e di sentimenti che abbiamo a disposizione. Quindi aveva ragione Iosif Brodskij, il poeta russo premio Nobel per la letteratura nel 1987, quando affermò che la poesia è un’imperativo biologico, una necessità esistenziale. È un concetto che prima di lui aveva espresso – fra gli altri - il poeta romeno Benjamin Fondane, tragicamente scomparso ad Auschwitz nel 1944, per il quale «la poesia è un bisogno e non un piacere, un’azione e non una distensione».
In questo scritto vogliamo trattare di teoria della poesia, del suo valore estetico, tralasciandone le influenze sociali, il possibile intervento sulle dinamiche del mondo reale.
Ma che cos’è la poesia? Di questo genere letterario sono state date tantissime definizioni. Il Romanticismo è l’epoca in cui troviamo forse le più interessanti; non c’è esponente del movimento culturale che rinnovò la civiltà europea del primo Ottocento che si sia astenuto da una riflessione teorica sulla poesia. Nella questione, gli studiosi tedeschi occupano un posto di assoluto rilievo. Infatti, è il filosofo e letterato Johann Gottfried Herder (1744-1803) a usare per primo il termine «romantico» per designare la poesia «moderna» popolare e sentimentale, immediata espressione della vita e della spiritualità di un popolo, in contrapposizione a quella classica.
Di enorme importanza sono le idee estetiche del poeta, drammaturgo e filosofo Friedrich Schiller. Nel celeberrimo saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795-96), Schiller adotta la distinzione fra la poesia naturale e immediata (e perciò «ingenua») degli antichi greci, e quella «sentimentale» dei moderni. Il poeta antico era la voce della natura, la rappresentava immediatamente, non avvertiva alcuno scarto fra sé e il mondo esterno; il poeta moderno ha invece perduto l’armonia con la natura, e deve riconquistarla con una disposizione, appunto, «sentimentale», di riflessione sul sentire.
È sempre in Germania, a Jena, che nasce il primo circolo romantico, formatosi intorno ai fratelli Schlegel e alla rivista Athenaeum (1798-1800) (da essi fondata a Berlino) che può considerarsi il manifesto letterario del Romanticismo.
Sia a Berlino, sia Jena, il maggiore dei fratelli Schlegel, August Wilhelm (1767-1845), divenne il punto di riferimento e l’animatore del gruppo di scrittori e poeti che costituiranno il primo circolo romantico europeo. Per August Wilhelm Schlegel, la poesia vive di leggi e misure sue proprie, e si situa al di sopra del resto del mondo; la vera, grande poesia viene raramente compresa, perché la sua ricchezza rappresentativa appare innaturale a chi «non possiede neppure una scintilla» di sensibilità e immaginazione.
Friedrich Schlegel (1772-1829), fratello minore di August Wilhelm, riprende ed elabora le idee di Schiller. Anche per Schlegel la poesia antica era la poesia del senso oggettivo, perché aderiva con semplicità e immediatezza a tutto ciò che di naturale trovava nella realtà sensibile; la poesia moderna, invece, è alla ricerca di un senso, ciò che non può escludere un qualcosa di artificioso, perché, appunto, manca la spontanea comunione col mondo della natura.
Sempre sulle orme di quanto teorizzato da Schiller, Friedrich Hölderlin (1770-1843) assegna alla poesia il compito di rinnovare l’unione divina tra uomo e natura, scomparsa con la fine del mondo greco; la poesia si pone dunque come suprema coscienza, e da ciò deriva il suo primato spirituale. Nel romanzo epistolare Iperione (1797-99), il protagonista afferma: «La prima creatura della bellezza è l’arte. La seconda creatura della bellezza è la religione. Religione è l’amore della bellezza».
Notevoli definizioni della poesia sono presenti anche nel Romanticismo inglese. Per William Wordsworth, il poeta è colui che in virtù di una sensibilità emotiva eccezionale riesce a cogliere intuizioni e verità che investono la vera essenza dell’uomo e della natura. Wordsworth è autore, insieme a Samuel Taylor Coleridge, delle Lyrical Ballads, raccolta di poesie pubblicata nel 1798; la prefazione di Wordsworth alla seconda edizione è considerata, com’è noto, il manifesto del Romanticismo inglese.
Quanto a Coleridge, è a lui che dobbiamo una straordinaria, quasi intrigante definizione della poesia. In Table Talk, opera del 1827, il poeta scrisse: «Prosa: parole nel loro ordine migliore. Poesia: le migliori parole nel loro ordine migliore».
Coleridge ha perfettamente ragione: in una prosa, dunque in un brano, un articolo, un saggio, un romanzo, possiamo permetterci di sbagliare una parola, o di usare una frase superflua, di esprimere un concetto in modo balbettante senza tuttavia compromettere l’insieme. In poesia questo non può succedere; la poesia non ammette errori: un verso fuori posto, un paio di parole mal dette possono inficiare tutta una lirica.
Non è certo un caso che alcuni dei più grandi letterati e critici della modernità abbiano concepito la poesia come il genere letterario che più si avvicina alle scienze matematiche. Il grande Flaubert, in una lettera a Louise Colet del 15 gennaio 1853, scriveva che «la poesia è una scienza esatta, come la geometria». Pochi anni dopo, Baudelaire, che possiamo considerare all’origine della poesia moderna, insisteva sull’esattezza «matematica» delle metafore presenti nelle sue poesie, e giungeva a postulare la fissazione di precetti grazie ai quali, «come un perfetto alchimista», l’artista può attingere «l’infallibilità della produzione poetica». Prima ancora di lui, il poeta americano Edgar Allan Poe, la cui opera era stata oggetto di profondo studio da parte di Baudelaire, aveva teorizzato la possibilità di «costruire» la poesia pezzo per pezzo, studiando con attenzione la validità e la riuscita dell’insieme.
Ma come conciliare la geometricità di una poesia con i molti capolavori poetici nei quali il significante è espresso in modo talmente difficile e criptico da impedire quasi la comprensione del significato?
Una possibile risposta a questa domanda è che ci sono diversi stili poetici, e che i problemi della geometria, sebbene tutti risolvibili, non sono per questo tutti facili. Alcune delle più belle liriche mai composte sono di una semplicità elementare: Alla sera di Ugo Foscolo e Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale ne sono un esempio perfetto; sull’altra sponda, quella delle poesie “geometriche” ma di non facile comprensione, mettiamo la splendida Lady Lazarus di Sylvia Plath e l’altrettanto profonda Todesfuge di Paul Celan.
Una delle più grandi poetesse di ogni tempo è senz’altro l’americana Emily Dickinson (1830-1886). Molte poesie di questo prodigio della letteratura si vestono dell’enigma, e spesso il soggetto o l’oggetto che vi compaiono sono descritti in modo indiretto, ellittico. In una delle sue liriche più famose, troviamo il noto verso: Tell all the Truth but tell it slant / Success in Circuit lies – (Dì tutta la Verità ma dilla obliqua / il Successo risiede nel Circuito).
Dunque, la Dickinson pensa che una poesia debba conservare l’indistinto, debba dire e non dire, perché la sua riuscita sta nel coinvolgere la sensibilità del lettore, nel portarlo in un cerchio di emozioni entro il quale poter interiorizzare e sviluppare la comprensione del testo.
Con la Dickinson è d’accordo il poeta simbolista Stéphane Mallarmé (1842-1898), che in Sur l’évolution littéraire scrisse: «Nominare un oggetto equivale a sopprimere i tre quarti del godimento della poesia, che è dato dall’indovinare a poco a poco: suggerirlo, ecco il sogno».
Mallarmé è uno dei maestri della poesia moderna; sottrae l’arte a ogni funzione sociale e la vede come tensione verso una dimensione creativa immacolata, quasi divina. Nella severa pratica della scrittura, il poeta coglie la purezza della poesia e l’essenza della vita; è l’ideale cui aspirava lo stesso Mallarmé, che tuttavia morì senza aver creato il Libro in cui avrebbe voluto condensare la forma perfetta, sacra, capace di pervenire alla ricostruzione ideale del mondo.
Il duo poetico di cui sopra diventa un tris di assoluto valore con Giacomo Leopardi (1798-1837), che nello Zibaldone di pensieri (III, 374,3) scrive: «Le parole notte, notturno, le descrizioni della notte, sono poeticissime, perché, la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, così di essa così di quanto ella contiene». Dunque, anche Leopardi sottolinea l’importanza della sfumatura, dell’enigma, di quell’aspetto misterioso che costituisce il segreto e l’incanto della poesia.
È d’obbligo citare ancora Baudelaire; per il letterato francese, la poesia esprime l’anelito dell’animo verso una bellezza superiore, un mondo soprasensibile di cui le cose rappresentano dei simboli che il poeta deve decifrare; anche la poesia di Baudelaire, quindi, rifugge dal messaggio concettuale definito, esprimendosi per sapienti metafore, analogie, Corrispondenze, che è il titolo di una delle sue liriche più note e importanti.


Armando Santarelli
(n. 10, ottobre 2022, anno XII)