Con Valentina Ippolito, uno «sguardo dialogico» sul cinema italiano e romeno

Registi italiani e romeni hanno realizzato un cospicuo numero di film i cui protagonisti sono figure di migranti all’affannosa ricerca di un’alternativa esistenziale in città italiane, narrando la collisione tra i sogni dell’Altrove e le precarie contingenze dell’esilio. Uno studio di Valentina Ippolito, docente presso la Bristol University, propone un paradigma originale, definito «sguardo dialogico», per identificare scelte estetiche e narrative che enfatizzano la relazione tra personaggi di migranti e autoctoni: Lo sguardo dialogico. Il viaggio migratorio in Italia nel cinema contemporaneo italiano e romeno (Edizioni Joker, 2021).
Il 20 novembre scorso, la nostra rivista è stata media partner .dell'evento di presentazione del volume al Salone della Cultura di Milano. In questo numero pubblichiamo un'ampia intervista all’autrice realizzata da Giusy Capone e Afrodita Cionchin, nonché la recensione di Francesco Saverio Marzaduri.


Il suo studio propone un paradigma originale, qui definito «sguardo dialogico», per identificare scelte estetiche e narrative che enfatizzano la relazione tra personaggi di migranti e autoctoni. Quali caratteristiche sono riconoscibili nei film «di migrazione» esaminati?

I film di migrazione dalla Romania verso l’Italia, da me esaminati nella monografia dal titolo emblematico Lo sguardo dialogico. Il viaggio migratorio in Italia nel cinema contemporaneo italiano e romeno decostruiscono il mito dell'Italia come nazione capitalistica di evidente benessere socio-economico e cultura, mettendo in evidenza scenari tragici di incomunicabilità, spaesamento e violenza connessi ai flussi migratori così come sono stati narrati sugli schermi dai loro registi.
Le sei storie discusse nel volume demistificano i luoghi comuni che presentano un’Italia idealizzata, discutendo, al contrario, delle dure realtà urbane e suburbane a cui approdano i migranti di nazionalità romena. Si tratta di vicende che coinvolgono le vite sia di migranti partiti (o desiderosi di partire) alla volta dell’Italia in cerca di un futuro migliore di quello che si prospettava nel loro paese di origine, sia di personaggi italiani disperati, spesso disoccupati, o psicologicamente danneggiati da storie di delinquenza comune e tossicodipendenza. Le sei opere esaminate mostrano che l'Italia del Terzo Millennio, in era postindustriale e globalizzata, è una terra ostile anche verso i suoi stessi cittadini. Allo stesso tempo, i sei film hanno confermato l'esistenza di un networking che si realizza attraverso l’interrelazione di opere romene e italiane che si guardano l’un l’altra, a volte su un piano estetico-formale, altre volte su un piano politico e ideologico. 


La migrazione è un fenomeno antropologico e sociale. Quali sono le ragioni che la rendono interessante per il cinema contemporaneo, ovviamente tenendo conto che il filone d’indagine cinematografico si pone all’interno di un ampio ambito interdisciplinare?

Il cinema non è soltanto una forma di intrattenimento, al cinema ci si va anche per valutare nuove opere filmiche. Ora, è innegabile che il venirsi a delineare di un determinato filone cinematografico faccia fiorire tra i critici un interesse particolare a recensire e a pubblicizzare una nuova opera in contatto con quelle precedenti. Il cinema di migrazione, con il suo evidente messaggio di natura socio-antropologica ha come sfondo un problema effettivo che riguarda sia il Paese di chi parte, sia il Paese di chi accoglie i flussi migratori. Le vicende migratorie, spesso tragiche, che vengono alla ribalta della cronaca stimolano la creatività dei registi ispirati a rappresentare questo fenomeno scottante, e ciò avviene con un’attenzione alle storie individuali dei migranti, inquadrate sullo sfondo di città e contesti in cui queste vicende si sviluppano. In una mia intervista condotta con Carmine Amoroso (Capitolo 3. Il viaggio della memoria), il regista ha affermato di avere tratto ispirazione per il suo film Cover-Boy: l’ultima rivoluzione (2006) dalla vita di un romeno, di nome Eduard, incontrato in Italia: «Questa scena è nata da una mia esperienza vissuta e dal volere portare sullo schermo il desiderio dell'italiano di aiutare e proteggere il romeno» (Amoroso/Ippolito, 2014). La storia di Cover-Boy investe questi ambiti interdisciplinari, perché, accanto alla questione politica della migrazione, solleva riflessioni sull’omofobia e sulla xenofobia.
Dunque, laddove il fenomeno della migrazione ha suscitato grande interesse tra gli spettatori, ha altresì messo in comunicazione l’immaginario dei registi di entrambi i Paesi che, con le loro produzioni, hanno messo in moto un meccanismo di dialogo tra opere, artisti e spettatori.


La prospettiva comparativistica funge da puntello all’analisi. Quali sono le tassonomie in cui sono stati inseriti i personaggi e i viaggi migratori?

Si tratta di personaggi in viaggio, giovani donne e uomini inizialmente speranzosi di un cambiamento, pieni di aspettative e progetti di integrarsi in Italia, forse illusi di fare fortuna, di incontrare amici o l’amore passepartout, di bypassare certe burocrazie invalidanti e ricominciare, ma sono quasi tutti destinati al fallimento e ai ripensamenti. Abili gli attori che interpretano ruoli di migranti dell’Est, perennemente afflitti e delusi perché tenuti fuori dalle comunità degli autoctoni, si tratta di personaggi a rischio di cadere coinvolti in attività illegali, o nella trappola del facile guadagno, come le occasioni di lavoro in nero o la prostituzione. Un’altra caratteristica di questi personaggi sradicati è la loro fragilità identitaria, resa più penosa dalla permanenza in contesti non accoglienti e spesso apertamente ostili allo straniero. Il meccanico Ioan (Cover-Boy) e il cameriere stagionale Radu (Dincolo de calea ferată, 2016, di Cătălin Mitulescu) sono consapevoli che saranno sottovalutati specialmente nelle relazioni con gli italiani che li giudicano in base a stereotipi e pregiudizi pur sfruttandone le capacità in ambito lavorativo. I personaggi di giovani romeni, –  rappresentati il più delle volte come individui appartenenti a classi svantaggiate oppure inseriti all’interno di trame distopiche a sfondo noir, come Ionut, Marja e Victor, ne Il resto della notte (2008) di Francesco Munzi o Francesca del film di Păunescu, – rendono drammaticamente i tragici risvolti esistenziali di circostanze di migrazione difficili e penose, politicamente mal gestite sia in Italia sia in Romania da amministrazioni statali non disposte a riformare i loro sistemi di accoglienza dei migranti così come è rappresentato nei film discussi nel volume.
Sono ritratti di un'umanità in viaggio, che soffre ed è vittima di vicende ambientate in contesti urbani duri e oppositivi dove non c’è alcun rifugio al disagio, affetto consolatorio, pietà, né troppa solidarietà tra individui nelle stesse condizioni precarie. E questa sembrerebbe la tendenza del cinema di migrazione italiano e romeno, fatta eccezione per la badante romena Angela, la protagonista di Mar Nero (2008) di Federico Bondi, la quale stringe un legame di reciproca solidarietà con l’anziana signora che accudisce, e per Ioan di Cover-Boy che fa amicizia con l’italiano Michele. Si deduce che queste trame hanno come sostrato forti messaggi ideologici, rappresentativi di un cinema di impegno che si interessa di problemi di natura sociale.
L'esame del corpus tematico-discorsivo dei sei film in questione mette in evidenza, in una cornice comparativistica, preoccupazioni anche di carattere sociologico verso i migranti da parte dei sei registi. Si mostrano, trasversalmente, gli aspetti problematici del processo di accoglienza dei migranti e degli espatriati, e questa è una preoccupazione etica soprattutto dei tre registi italiani, Amoroso, Bondi e Munzi. Nei film italiani, come nei film romeni, tra cui Francesca (2009) di Bobbi Păunescu, vengono addirittura citate leggi, indicati partiti al potere e nominati politici di spicco per criticarne l’operato apertamente.
Il mio libro propone il paradigma dello sguardo dialogico esattamente al fine di fare dialogare prospettive contrastive sia interne alle singole opere e gruppi di opere, nel loro richiamare ambiti intertestuali di interesse interagente – interessi che sono interni al cinema, – sia di mettere in evidenza realtà esterne al cinema (ovvero situazioni ricavate da ambiti extratestuali).


Un'analisi che richiama, quindi, la sociologia del cinema nel contesto più ampio della sociologia della cultura.

In effetti, questo tipo di analisi sociologica non è nuova nella sfera dei Cultural Studies: vale ricordare critici come Eleonora Belfiore e Oliver Bennett, autori del volume The Social Impact of the Arts. An intellectual History (2008), o il volume Culture and Society (1958) di Raymond Williams, dove l’autore ha redatto una mappa delle componenti-chiave dell’analisi dell’opera d’arte contemporanea, come l’industria, la politica, la classe sociale, tra tradizione antropologica e cultura dominante, al fine di valutarne la presenza nelle singole opere e il loro impiego da parte degli artisti. Il critico, da questa prospettiva, giudica l’autore e l’opera inserendoli in una globalità di significati quali espressioni di modi di intendere il mondo, la società, la cultura, l’arte e, infine, la vita. Lo scopo di questo tipo di analisi non è solo quello di valutare l’opera dalla prospettiva estetica, ma inquadrarla in un contesto più ampio. E questo ambito sociologico-umanistico è ciò che mi sono riproposta di esplorare nel mio studio, accanto all’analisi estetico-formale: ricostruire aspetti emblematici della storia delle relazioni tra Italia e Romania successive alla caduta del regime di Nicolae Ceaușescu mediante il medium del cinema di migrazione.
Spero che si avverta anche il decostruttivismo prospettico con cui ho condotto questa analisi per evidenziare contraddizioni, spaccature, dislivelli tra le due società e culture a confronto. All’occasione, nei vari capitoli del libro, ho sottolineato tangenzialmente come certi modi della rappresentazione del migrante convoglino non solo somiglianze e discrepanze tra i soggetti portati sullo schermo ma le rimarchevoli differenze esistenti tra le due industrie cinematografiche. Ritengo che questa prospettiva accresca le già esistenti analisi del cinema romeno di critici come Doru Pop, Dominique Nasta e Francesco Saverio Marzaduri.
Attraverso il paradigma dello sguardo dialogico, che è appunto il sistema che propongo nel mio volume, è possibile stabilire un contatto significativo di sguardi tra queste storie di migranti romeni e personaggi italiani, mostrati in contesti ora oppositivi, ora di improvvisa umana solidarietà, come nella storia di Cover-Boy. Lo sguardo dialogico, inoltre, mostra come i registi stessi abbiano iniziato a dialogare tra loro, tematicamente, ma anche esteticamente, rispondendo a stimoli e spunti creativi attinti dalle opere dell’Altro.
L'analisi da me condotta accosta l’analisi prettamente estetica dei sei film in esame sulla migrazione inter-Europea, a un approccio che rivaluta il ruolo socialmente utile delle arti cinematografiche e riflette sull'impatto che hanno sulla cultura dei due paesi a confronto. Si tratta di un flusso migratorio che partendo dai Paesi dell’area dei Balcani, giunge ai luoghi dell’emblematica italianità tra cui Roma, Milano, Torino, Firenze e i laghi alpini. Ci sono poi storie di viaggi immaginari, come quello del film Francesca (2009) che viene abortito nel momento stesso in cui i problemi in patria impediscono alla protagonista di lasciare Bucarest e raggiungere la sospirata Milano dove le hanno offerto un contratto stagionale come badante di un anziano signore.


Il punto focale della domanda di ricerca evolve intorno alla rappresentazione del migrante. Quali sono le motivazioni a lasciare la madrepatria rispetto a un viaggio che può costituire sia un miraggio di libertà sia esperienza di disagio?

L’analisi delle opere cinematografiche che rappresentano i problemi della nostra epoca contemporanea deve porsi l’obiettivo di evidenziare la difficile connessione tra i migranti e le nuove dimensioni del mondo globalizzato in situazioni imprevedibili e destabilizzanti. Il migrante nel cinema italiano e romeno degli ultimi 15 anni di cui discuto nel mio libro (si tende a partire dal 2006) appare spesso come un’unità angosciata e solitaria, abbandonata al flusso di questa dimensione che sommerge e travolge e quasi mai ripaga il dolore e il sacrificio di chi affronta questo viaggio periglioso. Per comprendere il senso del paradigma dello sguardo dialogico è indispensabile esaminare con attenzione anche le trame dei registi romeni, che raccontano in modo minimalista e rivelatorio non solo il disagio effettivo dei migranti, ma anche il modo in cui l’Italia, inizialmente idealizzata, viene poi effettivamente vissuta e raccontata al ritorno in patria. Il film di Păunescu, Francesca, cerca di risolvere questo dilemma, se sia il caso o meno di lasciare la Romania, specialmente alla luce delle forti obiezioni anti-italiche di parenti e amici della protagonista. L'epilogo del film parla da sé perché la decisione di Francesca di lasciare la madrepatria fallisce miseramente. La storia, infatti, partendo dall'utopia dell'Altrove di cui Francesca è una delle tante sognatrici, costruisce una circostanza fortemente sfavorevole alla migrazione che svela problemi della nazione di partenza. Il finale drammatico chiarisce che Francesca, più che partire verso un sogno, cerca di fuggire dal proprio contesto sociale violento e angosciante. Dalla prospettiva italiana, anche il film di Amoroso Cover-boy ci ricorda che la delusione del viaggio fallito induce un doloroso ripensamento sulle ragioni della migrazione spesso fabbricate su un progetto utopico.


L’analisi quantitativa ha rilevato che, dagli anni ’90 ad oggi, l’area dei Balcani è stata protagonista di oltre 20 lungometraggi di produzione italiana, in cui si raccontano storie di contesti migratori o diasporici di difficoltà economica, instabilità lavorativa, sfruttamento sessuale, alienazione sociale, marginalità e irrilevanza culturale. Quale metodo ha adottato per la selezione delle opere oggetto d’analisi?

Il metodo adottato per la selezione delle opere oggetto d’analisi è di natura comparativistica e interdisciplinare. L’approccio metodologico è stato utile per mettere in evidenza le relazioni sociali e culturali tra i due paesi che nei film selezionati assumono la forma di un incontro di «sguardi». La scelta delle sei opere ha posto attenzione sulla presenza di risvolti sociali drammatici, fissati dalla natura degli scambi che avvengono in circostanze migratorie.
Le sei opere esaminate rappresentano il migrante romeno attraverso lo strumento dell'empatia espressa dagli artisti a diversi livelli di impegno e stabilisce un rapporto tra i discorsi e i dati sociologici sui quali sono ricostruiti i ritratti di questi migranti. Messe a confronto, le sei opere intessono un dialogo come indicazione dell’incontro interculturale possibile tra registi e pubblico.


Lei ha discorso di «dialogo» in relazione alla migrazione: il cinema d’impegno che pone al centro del discorso il dramma del migrante nella prospettiva della pietas. Quali sono stati i presupposti etici della ricerca che ha condotto?

Come dicevo all’inizio, l’analisi tematica delle molte opere di registi italiani e romeni prese in considerazione, da cui ho successivamente estratto i sei film esaminati in modo contrastivo, ha fatto saltare agli occhi nelle storie raccontate condizioni di migrazione anche tragiche, di grave indigenza e disagio psicologico e sociale, derivanti da circostanze di marginalizzazione, incomunicabilità e xenofobia.
I criteri che motivano questa selezione sono gli stessi che appoggiano le scelte narrative ed estetiche dei registi che hanno concepito queste opere nell’orizzonte di cui si discute nel mio libro: mostrare le innumerevoli difficoltà che investono i migranti che si ritrovano in situazioni di marginalizzazione, sottoccupazione, discriminazione, criminalizzazione e pregiudizio in terra straniera e agevolare anche tra gli spettatori un confronto basato non solo sulla ovvia riflessione politica e sociologica, come nei film Cover-Boy o Il resto della notte, ma sull'empatia, come nel film Mar Nero che promuove opportunità per un dialogo interumano. Sono opportunità di riflessioni rilevabili proprio dalla interdiscorsività che si è venuta a stabilire tra gli artisti del cinema a soggetto migratorio.


La prospettiva delle scienze sociali e la prospettiva estetico-ermeneutica si intrecciano con le percezioni emotive e sensoriali che emergono dal tessuto comunicativo delle sei opere analizzate. Quanto la prospettiva metodologica interdisciplinare può istigare lo spettatore a interrogarsi sui propri pregiudizi?

L'analisi dell’insieme tematico-discorsivo dei sei film selezionati raccoglie appunto l’evidenza di queste preoccupazioni delle scienze sociali – definiamole pure di stampo etico – mettendo in risalto, attraverso l’uso del paradigma dello sguardo dialogico, la fragilità e la forza dei personaggi dei migranti, non di rado caratterizzati in modo retorico da stereotipi socio-culturali di interdizione reciproca, collegando così, anche su un piano interattivo, il lavoro degli artisti impegnati su questo soggetto. Il libro intende altresì dimostrare, attraverso l’analisi filmica, gli strumenti espressivi attraverso cui si realizza questa dialogicità di sguardi tra registi, personaggi, storie e spettatori nel pubblico sia italiano sia romeno. Si ritiene che queste opere, tanto sul piano prettamente sociologico quanto sul piano estetico, abbiamo portato dinanzi agli spettatori proposte di scenari su cui interrogarsi che mettono in discussione pregiudizi e paure verso tutto ciò che è percepito dagli autoctoni come intrusivamente «straniero». 
La prospettiva metodologica estetico-ermeneutica da me adottata mostra come queste opere indichino al critico e, allo stesso tempo, al pubblico fruitore la strada possibile per interpretare il messaggio autoriale oltre la stessa intenzione dei registi, in base a processi semiotici attivati dalla propria visione del mondo, sensibilità e grado di acculturazione.
L’interpretazione delle sei opere in esame, insomma, rimanda ai processi di significazione e interpretazione del viaggio di migrazione, valutando ciascuna opera filmica come una proposta di dialogo sinergetico e interdisciplinare tra registi, opere e spettatorati. Detto questo, anche se lo scopo di queste opere non sembrerebbe essere in primis ideologico, non va sottovalutato il loro impatto sulla politica anche grazie alla mediazione dei critici e dei Festival.


Il resto della notte di Francesco Munzi e Eu când vreau să fluier, fluier di Florin Șerban, sono storie, rispettivamente italiana e romena, che esemplificano l’esperienza del viaggio come conflitto. I due minorenni migranti sono coinvolti in esperienze criminali. I modelli comportamentali pericolosi seguiti dai due minorenni non integrati possono essere reputati quali esiti del loro risentimento e di un «io» ridotto in frantumi?

Certamente è questa l’impressione che si ottiene da entrambi i film citati nella domanda. Chiaramente, ciascuna di queste storie di migrazioni fallite porta con sé un ‘danno’ arrecato all’Io e all’autopercezione. Oltre ai ritratti psicologici di questi adolescenti criminalizzati, emarginati e interiormente tormentati, in queste due trame c’è una chiara allusione alle condizioni di grave svantaggio socioeconomico dei due giovani protagonisti, Victor e Silviu, e dei membri delle loro famiglie spezzate dall’esperienza della migrazione. I due giovani protagonisti del film di Munzi e Florin Șerban esplicitano risentimenti nei confronti delle figure autoritarie sia del luogo di partenza, la Romania, sia di quello di arrivo, l’Italia. La migrazione dei genitori, causa di una serie di cambiamenti traumatici all’interno della famiglia dei giovani migranti, acuisce il loro trauma psicologico e le condizioni di svantaggio sociale ed economico a cui vanno incontro.
Eu când vreau să fluier, fluier (2010) di Șerban narra dei rapporti difficili tra madre e figlio all’interno della famiglia nucleare in situazioni di migrazione della madre, alludendo a temi d'attualità tra cui la prostituzione, l’abbandono dei figli minori in circostanze tragiche che causano disagi adolescenziali in contesti suburbani di delinquenza. Ma soprattutto riguarda l’impatto sul singolo dei sistemi statali disciplinari come l’istituto penitenziario e il riformatorio di cui si è interessato Michel Foucault in Surveiller et punir (1975). Allo stesso modo, il film Il resto della notte laddove mostra una Torino drammaticamente multietnica di ghetti migratori, narra della morte della madre del giovane protagonista Victor, e dell’abbandono del minore alle cure di un fratello criminalizzato. Il film racconta del bisogno del ragazzino di adattarsi in Italia, tentativo che fallisce, e del ritorno in patria che viene visto come fuga da una circostanza grave e irrecuperabile di emarginazione sociale in terra straniera.


Le narrazioni cinematografiche contenute in Mar Nero di Federico Bondi e ne Dincolo de calea ferată pongono il focus sul tema del viaggio del ritorno. Ambedue i registi offrono allo spettatore la possibilità di viaggiare mediante la semiotica degli spazi in cui prende forma l’incontro tra i diversi. Il paesaggio può coprire percettivamente ed emozionalmente la distanza tra Italia e Romania?

Come discusso nei capitoli in cui mi interesso del tema del «viaggio del ritorno» del migrante verso la sua città d’origine e i suoi contesti sociali in Romania, il ritorno è un tema portante, vuoi che sia centrale, vuoi che sia collaterale alla storia principale. A partire dal personaggio di Odisseo, eroe di Itaca delle avventure epiche narrate da Omero nell’Odissea e nell’Iliade, chi viaggia ha sempre lo struggente desiderio del ritorno in patria dopo il travaglio delle avventure e disavventure della propria peregrinazione. Si ritorna anche per capire di non essere più gli stessi – perché l’espatrio muta il viaggiatore per sempre – e che il luogo di origine della nostra memoria è nel frattempo cambiato. Il capitolo incentrato sull’analisi della semiotica degli spazi esamina questa componente del ritorno come loop della memoria e successivamente presa di coscienza della realtà attuale. Questo avviene specialmente in Dincolo de calea ferată con la rappresentazione delle condizioni reali dei protagonisti in una scena ambientata di sera a Bucarest, dove si mostrano usi e costumi della comunità del protagonista Radu.Ma sebbene l'estetica di questi due film restituisca dei ritratti molto credibili dei protagonisti romeni e della loro società, nelle opere creative la riflessione sociologica rimane comunque sempre relativa perché i personaggi dei film attraversano lo spazio rappresentato come costruzioni immaginarie in storie plausibili, sospese tra realtà e mito.
Quello del rimpatrio volontario o forzato dagli eventi è un tema che emerge in quasi tutte le sei opere selezionate che ruotano intorno al vagheggiamento del ritorno dinanzi alle difficoltà incontrate in terra straniera. È in effetti il leitmotiv sotterraneo che pervade Dincolo de calea ferată, anche se in questo film si tratta di un doppio ritorno: uno circostanziale del cameriere Radu verso la Romania per andare a incontrare la moglie e il figlio a Bucarest che non vede da quasi un anno, e l’altro verso l’Italia allorquando Radu comprende che il futuro della sua famiglia è in Italia. Allo stesso modo, il tema del ritorno lo si ritrova in diversi film sulla migrazione dall’Est Europa tra cui Il resto della notte, Mar Nero, e Vesna va veloce (1996), del regista italiano Carlo Mazzacurati, dove l’ambiguità è giocata su ipotesi aperte in cui ci si domanda se Vesna sfugge alla cattura della polizia per ritornare in patria attraverso il bosco oppure muore attraversando di corsa l’autostrada per sfuggire all’arresto. I due film Mar Nero e Dincolo de calea ferată mostrano le qualità e i difetti dell’Italia e della Romania, accorciando, ma solo percettivamente ed emozionalmente, la distanza tra le due nazioni. Sia a livello denotativo sia connotativo, i due viaggi del ritorno di Angela e Radu mostrano la distanza socioeconomica tra Italia e Romania, sottolineando le differenze tra ricchezza e povertà, soprattutto il sottosviluppo edilizio della Romania contemporanea post-regime rispetto all’Italia neocapitalistica. Si tratta di una distanza problematica data l’entrata della Romania nell’Unione Europea nel 2007 e l’attesa della sua adesione allo spazio Schengen, che motiva le ragioni dell’ondata migratoria di romeni verso le città mitteleuropee.


Valutando la relazione tra storia e creazione artistica, tra mimesis e catharsis, in qual misura l’artista è autonomo rispetto a una eventuale funzione edificante e didascalica attribuibile al prodotto artistico quale mediatore culturale?

Leggendo i capitoli del mio libro sul cinema di migrazione italiano e romeno si può osservare questo equilibrio tra mimesis e catharsis, funzione didascalica e gratificazione estetica del prodotto cinematografico. A mio parere, è un bilancio che è presente quasi sempre: nessun regista esperto può favorire o l’una o l’altra componente senza pervenire a una miscela delle due componenti del messaggio autoriale. Credo che, come ci insegna Umberto Eco, l’artista possa considerarsi autonomo rispetto a un’eventuale lettura del prodotto cinematografico da parte dello spettatore empirico. La lettura del messaggio cinematografico dalla prospettiva del lettore empirico va oltre le intenzioni dell’artista, attribuendo al film un’interpretazione costruita sulla base della propria esperienza, della sua sensibilità, del suo background socio-antropologico e del proprio personale gusto estetico e bagaglio culturale.
L’opera d’arte mostra tanto la realtà quanto la fantasia. Ma non può imporre una data inclinazione ai nostri sentimenti: tuttavia, a mio avviso, dinanzi a queste rappresentazioni drammatiche dei tristi destini dei migranti romeni, il sentimento della pietas ha la meglio su ogni altra considerazione o analisi.






A cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin
(n. 12, dicembre 2021, anno XI)