La fuga plausibile

Quando chi scrive pubblicò, una decina d’anni fa, Noul Val – Il nuovo cinema romeno, la reale scommessa non fu tanto quella di concepire un volume che annoverasse l’intera produzione della cinematografia romena nei quattro lustri successivi alla caduta di Ceaușescu. Altri testi dedicati alla rosa di autorevoli nomi, da Mungiu a Puiu e via elencando, si erano occupati dell’argomento: pure nella stessa Romania, s’è vero che un esponente di punta della critica, Doru Pop, poco prima del mio libro, s’incaricò di tracciare linee e coordinate, tematiche e stilistiche, della filmografia in questione, senza ovviamente tralasciare il bilancio tra l’ante e il post della storia del Paese esibito dalla finzione scenica. Tanto meno sarebbe corretto dimenticare che il pot-pourri internazionale dedicato alla produzione, tra recensioni e interventi, non poco ne agevolò la riscoperta; e già in Italia Luciano Mallozzi aveva firmato un saggio, l’ormai raro Il cinema romeno degli anni Sessanta: tra neorealismo, censura e realismo socialista, il cui titolo esplicava nitido gli obiettivi, mettendo a confronto una nazione nella propria raggiera di aspetti (sociali, politici, economici, culturali) con un disegno che, pur strizzando l’occhio ai modelli ipertestuali esteri, era posto in difficoltà dai rigidi dettami propagandistici del Partito. Noul Val, in sostanza, non era che l’indiretta prosecuzione della strada battuta da Mallozzi, e nel corso di quella ricerca, appassionata ancorché non completa, i denominatori comuni rilevati in alcuni tra i migliori titoli documentati della «nuova onda» ribadivano come anche il cinema in oggetto, non essendo nato come scuola, disponesse di prerequisiti in grado di renderlo tale.

Parafrasando Indiana Jones, è il destino d’ogni ricercatore confrontare le proprie scoperte – e il tempo investito nel farlo – con altre più ricche a livello nozionistico e/o documentale. Il primo libro citato è approdato ad analoghi esiti (e a un analogo traguardo) grazie a un lavoro d’équipe, che ha visto la complicità di rilevanti maestranze attivatesi nel reperire gran parte della documentazione bibliografica, la consulenza e la traduzione, le puntuali e preziose osservazioni in corso d’opera e, non meno importante, il sostegno linguistico. E un magno lavoro di ricerca svolge ora Valentina Ippolito, avvalendosi di autorevoli testimonianze e interviste sul campo rilasciate dai cineasti di cui disserta il suo volume: Lo sguardo dialogico (edizioni Joker), di fatto la sua tesi di dottorato, per la cui gestazione, con nozioni teoriche sulla storia della filmografia romena, si sono attivati l’Arhiva Naţională de Filme, il Centrul Național al Cinematografiei, il «Romanian Film Festival in London» e la casa di produzione Strada Film. Partendo dal 2 novembre ’48 in cui ha luogo la nazionalizzazione dell’industria in celluloide e la regolamentazione del commercio dei prodotti cinematografici del Paese, il secondo capitolo riassume le circostanze che hanno spinto il cinema romeno a distanziarsi dall’istituzionalità impostasi nel lungo periodo del Conducător, conservando intonso il riflesso del socialismo di stato nei loro lavori. Del resto, come indica il sottotitolo Il viaggio migratorio in Italia nel cinema contemporaneo italiano e romeno, l’autrice compie un prolifico itinerario di ricerca sul campo, in Romania, che mira a un argomento predefinito: il rapporto tra due civiltà, i cui sguardi discrepanti non azzerano l’impressione d’una similarità nella rispettiva restituzione.

Non si deve credere che il tema del viaggio si arresti a una mera occasione d’evasione dal luogo natio, ché, come testimonia l’ultimo trentennio, il sogno di fuga si limita a un’espressione unicamente romantica. Chi ha visto il recente Est – Dittatura Last Minute di Antonio Pisu, confezione incentrata su un parallelo culturale sfociante in un apologo di maturità, rammenta come nello Stato totalitario, due mesi prima del Ventun Dicembre, dubbi e timori della popolazione facciano i conti con le ipotetiche possibilità di benessere elargite dalla Penisola. Sicché l’anelito d’una giovane madre e della sua famiglia per riabbracciare il coniuge fuggito, nonostante l’aiuto dei tre cesenati protagonisti, è frenato da una nostalgia implicante l’abbandono delle radici, il loro ineludibile tradimento e un ulteriore carosello di bugie a danno delle generazioni in embrione. Più o meno, il medesimo motivo per cui un altro personaggio, in Un padre, una figlia di Mungiu, ostenta incertezze nel conseguimento del diploma di maturità (il bacalaureat) che consentirebbe la realizzazione del progetto paterno e la borsa di studio all’estero – e con essi il tenore esistenziale che i genitori non hanno conosciuto.

Lo «sguardo dialogico» su cui si concentra Ippolito – quello di cineasti interconnessi da un fil rouge insinuato nei rispettivi titoli documentati, nella misura in cui il dialogo dei contenuti rimpingua la discrepanza della forma – implica la comparazione con un’inevitabile casistica di punti focali: l’odierna realtà della Romania, la situazione in cui versa Prima e Dopo, il senso dell’aspettativa – perlopiù frustrata – e il nesso, va da sé, con la memoria storica. Tutti fattori la cui inclusione consente di carpire come l’allontanamento, più teorico che pratico, comporti una proiezione bifronte, costituita da similari ma antitetiche visioni del problema. Senza dimenticare la disamina di segmenti studiati per la comprensione dei suddetti punti, il testo offre una copiosa pletora esegetica di interpretazioni, non contentandosi del comparto cinematografico e impiegando altre chiavi analitiche, discorsive e semiotiche, in cui la molteplicità dei piani man mano incastonati compone una trasparente unilateralità. È solo la deviazione verso parentesi legate ad altre, benché ugualmente significative, a trasmettere fatica nella ricezione del messaggio; quanto a dire che la cospicua varietà di spunti, come tessere d’un gigantesco mosaico, alimenta un discorso la cui importanza è cresciuta nel tempo, senza cessare di suscitare opinioni o discussioni. «Nel cinema di migrazione – riporta l’autrice – ogni narrazione e forma di intreccio, rappresentante un dato movimento nello spazio da un punto x a un punto y, postula l’esistenza di due poli interagenti, due storie, due culture, due visioni del mondo che diventano interdipendenti sul piano della proposta estetica e ideologica. Questi poli, nel rapportarsi, determinano quello che qui si definisce l’effetto dello sguardo dialogico».

L’oggetto, come noto, impone una valutazione soggettiva e mai passiva: la sua costruzione prevale sulla descrizione. La scelta di sei registi, tre dei quali attigui alla «nuova onda» (Păunescu, Mitulescu e Șerban) e gli altri tre italiani (Amoroso, Munzi e Bondi), impone una dissertazione sotto un collettivo point of view teso a spiegare i nefasti effetti dei regimi autoritari sulle economie nazionali (con esiti nefasti sul reddito e l’occupazione), ma pure gli squilibri d’una globalizzazione omologante (recentemente posti in luce dallo Jude di Sesso sfortunato o follie porno), origine di nuove ondate migratorie, a loro volta innescanti crisi e sconvolgimenti profondi. Scopriamo così che la delinquenza, nel quadro dei traffici internazionali di lavoratori e della criminalità organizzata, è affine in Francesca quanto ne Il resto della notte; la migrazione spinta da necessità e disoccupazione abbraccia gli assunti firmati da Bondi, Munzi e Mitulescu, compromettendo ancor più precari bilanci sentimentali. Il fallimento nel varcare i confini italiani, seppur a fini filantropici, in pochi anni si trasla in un completo rigetto verso la meta, giacché le vaghe promesse, come pure i tentativi di ricongiungimento famigliare, appaiono per come sono: tutte storie. Quasi che la Romania, per irrisione del Fato, non potesse conoscere scampo o vie d’uscita.

L’esperimento d’Ippolito, come lo fu la mia pubblicazione, aggiorna lo scopo d’un ridimensionamento etnografico rivolto alla (stragrande) moltitudine di chi, impigrito e ipnotizzato da bassi cicalecci divulgati dai media con effetti frastornanti, mantiene una considerazione che abbina l’ignoranza alla confusione, facendo dell’intera erba un meschino fascio associante la discriminazione alla xenofobia, quando non all’omofobia o all’antisemitismo. La chiave risiede in un’affermazione di Amoroso: «Voglio dare un’immagine giusta di quella che è la Romania oltre i fatti di cronaca che hanno condizionato l’opinione che si ha di un popolo, spesso facendo molta confusione tra zigani romeni, i Rom, che costituiscono un problema europeo, un’etnia che è stata fortemente criminalizzata, cioè discriminata, ghettizzata, anche durante, appunto, il comunismo e chiaramente una volta che si sono aperte le frontiere si è sparsa un po’ dovunque in Europa, a differenza dei romeni che invece vengono qua in Italia per lavorare».

Come in Noul Val, non meno significativo, ne Lo sguardo dialogico il milieu della produzione migratoria è florido di titoli nostrani contemporanei, utili a fornire un ritratto dell’Est Europa nello specifico d’una cornice comparativa, la cui prospettiva, unicamente per motivi di uscita, non comprende Pisu o il De Matteo di Villetta con ospiti (ma il tropo del viaggio impone, in nota, di accennare a Banat di Adriano Valerio). Ma, senza dilungarsi con gli esempi, gli universi a confronto di Cover Boy – L’ultima rivoluzione, attraverso due precari di neorealistica rimembranza (uno dei quali immigrato irregolare), basterebbero a suggerire quanto le rispettive culture non siano tanto discrepanti, né distanti, nonostante l’altrui banalizzazione per subdoli fini; ciò a scapito d’un mercato, quello dei finanziamenti pubblici, pronti alla più scorretta falcidia. Se neppure gli itinerari paradigmatici seguiti dall’autrice (memoria, immaginazione, conflitto, ritorno) fossero sufficienti alla revisione, ricordare come la strada resti primigenia maestra nel recupero di affini radici e sapori smarriti. Ecco come il poetico sentimento, sul delta del Danubio, riaffiori in una consapevole scelta – il grande Mistero dal quale non si può far ritorno – distaccata dal resto: rigenerazione spirituale, emozione pacificatrice e, dunque, riconciliazione. Ecco il segreto: leggere, e vedere, per credere.

Francesco Saverio Marzaduri

Il 20 novembre scorso, la nostra rivista è stata media partner dell'evento di presentazione del volume di Valentina Ippolito al Salone della Cultura di Milano. In questo numero pubblichiamo un'ampia intervista all’autrice realizzata da Giusy Capone e Afrodita Cionchin, nonché la recensione di Francesco Saverio Marzaduri.





(n. 12, dicembre 2021, anno XI)