Speciale Centenario Pasolini. Con Rosella Lisoni, un viaggio nell’universo creativo pasoliniano

Apriamo il nostro Speciale Centenario Pasolini, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, con un’ampia intervista a Rosella Lisoni, in merito ai suoi due libri: il recentissimo L’ultimo Pasolini tra forma e realtà (Sette città, 2021) e Eros e Thanatos ne «I Racconti di Canterbury» di Pier Paolo Pasolini (Sette città, 2020) e, ovviamente, in merito all’eredità che Pasolini ci ha lasciato. Il suo saggio Eros e Thanatos ne «I Racconti di Canterbury» di Pier Paolo Pasolini haottenuto la «menzione speciale al merito letterario» al VII Premio Internazionale Salvatore Quasimodo. 
Rosella Lisoni, nata nel 1964 a Marta (Vt), è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne e Contemporanee presso l'Università degli Studi della Tuscia con una tesi sul cinema di Pasolini. Per anni ha scritto recensioni cinematografiche sulla rivista «Cinema60». Ha collaborato con diversi quotidiani online di Viterbo fino all’anno 2020. Attualmente collabora con la rivista culturale «L'Ottavo» di Viterbo e con la rivista culturale della Tuscia «La Loggetta». 


L’ultimo Pasolini tra forma e realtà



Rebibbia, la zona cioè del carcere che sorge al di là dell’Aniene sulla Tiburtina, oltre Ponte Mammolo e il Ciriola, il galleggiante sul Tevere sotto Ponte Sant’Angelo sono i due luoghi che fungono da cornice al nome e alla figura di Pasolini.  Qual è il rapporto tra ‘periferia’ e ‘centro’, cioè tra ‘vita’ e ‘letteratura’ per Pasolini?

Il 28 gennaio 1950 Pasolini, con l’adorata madre, lascia la sua amata Casarsa per approdare a Roma. I primi anni li trascorre in totale indigenza, vivendo in una borgata vicino Rebibbia, in una casa molto modesta, dal tetto divelto. Sono anni duri, difficili, che segneranno profondamente l’animo del grande intellettuale che per guadagnarsi da vivere lavorerà insegnando in una scuola di Ciampino per 27.000 lire al mese, ma saranno anche gli anni in cui entrerà in contatto con il popolo dei ‘borgatari’, i fratelli Citti, Ninetto Davoli. Personaggi che esercitano la loro intelligenza trascorrendo le giornate nei bar di borgata, i quali diverranno suoi amici al pari di Moravia, la Morante, Dacia Maraini, Gadda, Bertolucci, i più grandi intellettuali del ’900.
Dai ‘borgatari’ apprenderà la loro lingua, divenendo egli stesso uno di loro, e un sarcasmo che non gli appartiene ma lo diverte. Si immedesimerà con loro al punto tale da scrivere un romanzo, Ragazzi di vita, usando un linguaggio rivoluzionario, il «discorso libero indiretto», un linguaggio romanesco perfettamente aderente a quello dei borgatari, lasciandosi alle spalle sia il romanzo borghese, con attente descrizioni di stati d’animo dei personaggi, che quello neorealista animato da lotte di classe, dal predominio del più forte sul più debole.


Montale sosteneva pressappoco che, probabilmente, per molti anni la poesia avrebbe taciuto e che si sarebbe scritto prosa. Come considera inserita nel Novecento la poesia di Pasolini?

Pasolini nasce poeta, scrive la prima poesia all’età di sette anni dedicandola alla madre. Il suo sguardo sulla vita e sulla società contemporanea sarà sempre da poeta. L’analisi da lui effettuata sul presente storico è un’analisi che non procede con gli occhi del filosofo proiettati sul futuro, né con quelli del sociologo, che produce statistiche, bensì è l’analisi fatta da un poeta, da colui che, grazie alla scelta della parola, apre finestre sul mondo e ricrea la realtà.
Nella produzione in versi pasoliniana la tematica dell’impegno, cioè di una poesia capace di parlare alla realtà, di riflettere le contraddizioni del presente storico, è già rintracciabile nelle iniziali Poesie a Casarsa (1942) dove la visione mitica di personaggi, luoghi ed eventi tengono la storia tutta fuori dall’orizzonte poetico pasoliniano. Il poeta mostra un’attenzione partecipe al mondo contadino e popolare risolta con un tracciato realistico di immagini nate dalla memoria a evocare una religiosità arcaica, interamente sottoposte a una operazione di forte stilizzazione formale.
I motivi centrali del primo Pasolini-poeta sono: dissidio tra istinto e ragione; il tema della vita tragicamente intrecciato a quello della morte; il legame materno, fisico, con la propria terra che giustifica l’idea di comporre in dialetto friulano, idioma tramite cui è possibile immergersi nel cuore delle cose.
Sarà la successiva scoperta di Marx a consentire a Pasolini una più attenta considerazione delle determinazioni storiche, non solo biologiche, in cui si trova preso l’individuo. Siamo alla produzione de Le Ceneri di Gramsci (1957), felice innesto dell’ideologia marxista sul troncone delle predisposizioni giovanili pasoliniane, soprattutto su quel Cristianesimo da Pasolini inteso come mito primigenio, mentre l’ideologia marxista è vissuta come sentimento.
Con L’usignolo della Chiesa Cattolica (1958) si fa più evidente a livello tematico il contrasto tra il desiderio di una vita arcaica e la volontà di non negarsi del tutto alla storia.
L’età giovanile, età felice nelle composizioni in lingua dialettale, si colora, nelle poesie in italiano, di un senso di peccato. Il rapporto purezza-peccato rimanda al tema vita-morte de La meglio gioventù (1954) con il mito della natura «sensuale», mentre ne L’usignolo della Chiesa Cattolica assistiamo alla comparsa della religione «fanciulla».
La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di rosa (1964) segnano un’ulteriore svolta nel percorso creativo pasoliniano, il poeta sente che allo spietato avanzare della civiltà del capitale non è più possibile contrapporre i miti «positivi» di un tempo. L’elegia lascia il posto all’invettiva, all’ironia di chi approda al tono retorico della poesia civile.
Trasumanar e organizzar (1971), la raccolta in versi che apre gli anni Settanta, sembra svuotare ogni cosa del suo significato reale, la poesia risulta incapace di rappresentare il reale e testimonia il suo fallimento totale, non avendo più nessuna funzione salvifica, decretando la sua inutilità. Da qui l’approdo all’universo orrendo di Salò.


Pasolini è noto, per lo più, per aspetti massmediatici e politici piuttosto che per i riverberi sentimentali, lirici e pirateschi di un individuo che ha speso la sua vita nel combattere una rivoluzione sia estetica che linguistica. Per quale ragione, ancora oggi, risulta prevalente l’interesse per le polemiche civili, giornalistiche, letterarie e, infine, per l’assassinio?

Pasolini, l’intellettuale attraversato da innumerevoli contraddizioni, «l’ossimoro vivente» rappresenta appieno l’uomo moderno, con i suoi limiti, le sue ombre, i suoi demoni, ma con una forza che permette di trasformare i drammi personali, le sofferenze in grandezza, in immensità, in produzione artistica.
Il ricordo di Pier Paolo Pasolini, l’ultimo poeta decadente della letteratura italiana, il poeta maledetto italiano, l’esistenzialista, lo scrittore animato da uno spirito ottocentesco che considerava la letteratura come strumento per cambiare e guarire il mondo, è ancora vivo ed è la sua assenza che rimanda alla sua presenza. Manca alla nostra società una figura di intellettuale graffiante, sincero, coraggioso, leale come lui, un uomo che ha fatta della sua debolezza, dei suoi limiti il suo punto di forza, un uomo che ha pagato di persona la sua sete di verità. Manca un uomo animato dal suo modo di interpretare la società italiana, sempre pronto a scandalizzare con la sua logica.
Scandalizzò la sinistra ancorata agli schemi del neorealismo con il suo libro Ragazzi di vita, il clero conservatore con il film Il Vangelo secondo Matteo, gli italiani innamorati della società dei consumi asserendo che «il consumismo era una forma di totalitarismo», scandalizzò il potere evidenziando i suoi giochi di Palazzo e scandalizzò perfino i giovani del ‘68 che scendevano in piazza a manifestare, schierandosi dalla parte dei poliziotti figli del popolo e contro i sessantottini figli di borghesi e animati dalla loro stessa presunzione.
Pasolini, un’anima divisa in due, ma incredibilmente vero e animato da una curiosità e da un coraggio fuori dal comune. Un uomo profondamente amante della vita che non sdegnava di sfidare la morte, recandosi ogni sera nei luoghi più pericolosi e degradati.


Pasolini abiurò dalla Trilogia della vita per approdare all’universo orrendo di Salò, primo lavoro filmico di quella Trilogia della morte. Perché mai rinnegò le tesi da lui stesso elaborate?

L’Abiura pasoliniana indica il passaggio da un ottimismo (sebbene temperato dalla nostalgia) tipico della precedente Trilogia della vita a un definitivo pessimismo. L’abiura pasoliniana è un atto di fedeltà assoluta al partito preso del perturbamento di tutti conformismi e non rinnegamento o tradimento di tutta la sua filosofia di vita.
Pasolini rivendica il diritto dell’intellettuale a ribellarsi contro sé stesso nel momento in cui le sue tesi diventano strumento di propaganda per il raggiungimento, da parte della borghesia, di obiettivi completamente opposti. Il termine abiura impiegato da Pasolini va compreso quindi in tutte le sue connotazioni: che non implicano soltanto palinodia, cambiamento d’opinione, bensì fine di «un’eresia».


Il suo ultimo lavoro contiene l’analisi de Scritti Corsari. Tale straordinaria opera può essere paragonata a un moderno Satyricon?

Petrolio venne definito dallo stesso Pasolini un moderno Satyricon. Egli dal 1973 al 1975 svolge attività di pubblico agitatore d’idee, isolato sì, ma non rassegnato al silenzio. Produce una serie di articoli, recensioni (sia di argomento letterario che culturale) sempre però attinenti alla sfera del costume, della politica, dei comportamenti pubblici e privati che pubblica sul «Corriere della Sera», «Il Tempo illustrato», «Epoca», «Il Mondo», «Paese Sera» raccolti in un unico volume di Scritti Corsari (la seconda parte dei quali è costituita da Documenti e Allegati, cioè le anticipazioni critiche di Descrizioni di Descrizioni). Essi sono un esempio dell’invettiva inesauribile e del suo stile saggistico e polemico, della sua arte retorica e dialettica. In questa critica della società industriale Pasolini ha inventato un linguaggio giornalistico, un «genere».       


Storia personale e storia professionale serrate in intimo connubio. Riflettendo, in particolare, su Salò, reputa che Pasolini abbia plasmato la sua intera produzione a propria immagine e somiglianza?

Il desiderio di scandalizzare e contraddire, la rabbia antiborghese tornano in Salò decantate della rabbia autobiografica e delle proprie passioni. Anche in questa ultima fase della sua vita il connubio tra biografia e produzione artistica è molto forte, il dolore provocato dalle sue ferite personali, dagli abbandoni subiti si riflette nella sua opera e si salda a essa.
Salò rappresenta, col senno di poi, il suo testamento morale, sebbene opera di un regista nel pieno del suo percorso creativo, grido disperato di un uomo che ha smarrito la speranza nella vita e nel valore salvifico della poesia, di un uomo che vede all’orizzonte soltanto morte e degrado.


Tutta l’ultima produzione pasoliniana ruota attorno all’idea di una «mutazione antropologica» in corso. Può chiarirne i temi e la sensazione di pericolo dichiarata?

Pasolini degli anni Settanta è consapevole del processo di adattamento generale alla degradazione della società da cui il nostro paese cerca di liberarsi solo nominalmente. Di fronte alle masse di giovani criminali e alle loro azioni violente, stanno coloro che non si accorgono di nulla, o sdrammatizzano tutto perché incapaci di assumersi responsabilità. Egli si accorge della mutazione antropologica che stava avvenendo nella società italiana, una trasformazione della società arcaica, antica, a società dei consumi priva di ogni forma di umanità, il passaggio da popolo a massa, da suddito a consumatore.





Eros e Thanatos ne
«I Racconti di Canterbury» di Pier Paolo Pasolini


Canterbury Tales è la fonte letteraria alla quale Pasolini si è ispirato per la realizzazione del suo film. Quali caratteristiche possiede la narrazione di Chaucer e in qual maniera è assorbita e adottata da Pasolini nella produzione cinematografica in esame?

È lo stesso Pasolini ad asserire nella «Revue du cinéma image et son» a proposito del suo film I Racconti di Canterbury che egli non ha mai avuto l'ambizione di fare un film in inglese come se fosse un film in inglese, in quanto sapeva già prima di iniziarlo che sarebbe stato il punto di vista di un italiano che ha letto I Canterbury Tales e la notte ha sognato I Canterbury Tales.
Portando sullo schermo I Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer nel 1972 egli getta lo sguardo a un'opera letteraria lontana nel tempo («sono una forza del passato, solo nella tradizione è il mio amore» dirà il poeta in Poesia in forma di rosa), come se soltanto nel passato potesse ritrovare una dimensione gioiosa e incontaminata del vivere quotidiano e l'immagine di un eros liberamente vissuto.
I testi letterari ai quali attinge nei tre film de La Trilogia della vitaIl Decameron, I Racconti di Canterbury e Il Fiore delle 1000 e una notte diventano nelle mani di Pasolini dei pre-testi, delle tracce narrative sulle quali costruire il suo personale discorso poetico, a volte distante dall'ideologia dell'autore preso in esame. Certamente con La Trilogia della vita Pasolini fa esplodere certe tensioni presenti fin dall'inizio della sua produzione poetica, quello che ne La religione del mio tempo viene definito come «L'innocente bene della vita» Pasolini lo trovava un tempo nell'Africa nera (Appunti per un'Orestiade africana) e nell'India (Appunti per un film sull'India), terre vergini ma non in grado di sottrarsi all'intervento di un Capitale che ne deforma il volto. Negli anni ’70 Pasolini si volge a riconsiderare un passato lontano dove ha origine la letteratura popolare, quindi una realtà autentica e sarà questa la filosofia che attraverserà per intero La Trilogia della vita.
Il desiderio di comunicare per far nascere la riflessione lascia ora con il film I Racconti di Canterbury il posto al piacere di fare, di raccontare per il piacere di raccontare. Ricerca nostalgica quella di Pasolini, che sfugge alla logica della decadenza e rimanda a un universo transtorico, per questo il Chaucer di Pasolini perde quasi del tutto ogni connotazione storica.
Pasolini si muove su due direzioni contrapposte: da un lato ignora la pagina chauceriana, il fatto cioè che il testo di Chaucer risenta di un'epoca gaudente che esce dalle paure medievali e si avvia a una concezione umanistica della vita e dall'altro Pasolini coglie, con colori lividi e atmosfere cupe, il momento in cui si afferma la società borghese, quell'economia mercantile che inesorabilmente finisce per imporre la propria logica perversa all'universo popolare e ai valori che lo caratterizzano.
Pasolini deideologizza il testo di partenza, ma dello stesso conserva la visione di un'età di trapasso epocale che porta con sé certezze passate e dubbi future. Pasolini comprende che Chaucer prevede tutte le vittorie della borghesia, ma anche la sua fine. Egli parla di una ricostruzione chauceriana visionaria, non un pretesto per ricostruire un mondo lontano dal punto di vista storico, in quanto la storia nel suo film è pura visione.


L’immaginario letterario e l’attività giornalistica di Paolini nella sua produzione cinematografica. Ha ritrovato segni, rimandi, riverberi?

Fu lo stesso Pasolini ad affermare che «un poeta scrive sempre la stessa poesia e un regista gira sempre lo stesso film». Gli assunti della sua poesia, dei suoi romanzi, dei suoi scritti corsari animano i suoi film. L' amore viscerale per la propria terra e in seguito per le borgate romane, il tema dell'eros mai disgiunto da thanatos, il dissidio tra istinto e ragione, la critica ai valori della borghesia divenuti per Pasolini dei disvalori, assunti tipici delle sue poesie (Poesie a Casarsa, La religione del mio tempo) e dei suoi romanzi (Ragazzi di vita, Una vita violenta) confluiscono nel suo cinema. Sia nel cinema degli esordi, in cui è descritto il mondo sottoproletario e il suo cammino verso la morte (Mamma Roma, Accattone), che nel film «storico»: Il Vangelo secondo Matteo, in cui la storia del Cristo aderisce all'ottica dei film prima analizzati, con evidenti richiami al mondo contadino, il cui dialetto era stato analizzato nelle prime produzioni poetiche (Poesie a Casarsa e La meglio gioventù), che nel cinema di denuncia (Teorema), che nei i film in cui riecheggia la realtà storica a la propria biografia esistenziale servendosi del mito (Edipo Re, Medea) che infine nei 3 film de «La trilogia della vita»: Il Decameron, I Racconti di Canterbury e Il Fiore delle mille e una notte, in cui l'eros è un valore da contrapporre all'odiato presente, a quell'universo borghese che degrada la realtà. La differenza tra letteratura e cinema, sottolineerà il Pasolini teorico del cinema, sta nel maggior grado di realtà che quest'ultimo rispetto a quella riesce ad assicurare. Il confronto con la morte, inteso come assunto ossessivo, è un dato ricorrente nell'intera produzione pasoliniana, è l'espressione del suo sentire profondo. Nel film I Racconti di Canterbury l'idea della morte ci accompagna lungo tutto il corso del film e la morte vestirà i panni del protagonista nel Racconto dell'indulgenziere. Sarà la morte ad avere la meglio su tutti, quasi a sottolineare che nel duello con la morte si esce sempre perdenti e che la vita termina là dove regna il denaro, cioè la corruzione. Il morire evocato sugli schermi pasoliniani si rivela come un non senso precipitato, quasi un improvviso non rendersi conto, pensiamo alla morte del quarto marito nella Novella della Donna di Bath. È quello degli anni ‘70 un Pasolini «corsaro» critico della modernità derivante dall'omologazione delle conoscenze e della cultura operante direttamente dal potere e indirettamente dai mass-media, ma sempre in maniera contraddittoria («per chi è crocefisso alla sua razionalità straziante, la rivoluzione non è più che un sentimento»). La qual cosa non gli impedisce di far salve le ragioni della poesia. Sarà lo stesso Pasolini a distinguere un cinema di poesia, al quale egli stesso tende, un cinema nel quale la macchina da presa fa sentire la sua presenza attraverso le riprese in soggettiva, da un cinema di prosa in cui certi procedimenti stilistici sono assenti.


Chaucer, probabilmente, offre a Pasolini un’occasione per elevare e glorificare il corpo nella sua dimensione più appagante e favolosa. Quale idea emerge in relazione all’eros?

L'operazione che compie Pasolini ne I Racconti di Canterbury è ridurre il «dialogismo» chauceriano e convertirlo in fatto visivo. La riconquista del reale va vista nei procedimenti tecnico-espressivi impiegati dal regista, cioè nelle scelte di scrittura che rendono autonoma un'opera che trae pur sempre spunto da un testo letterario.
Se il visibile è sottoposto alle leggi sociali e il discorso è limitato da un ordine imposto da un sistema ideologico, gli scarti tra l'uno e l'atro rappresentano i momenti in cui Pasolini può proporre l'autentico, la verità che il sociale reprime.
Far vedere il corpo nella sua integrità, mostrare l'atto erotico sullo schermo sono pratiche attraverso le quali l'intelletto fa irruzione sullo schermo, nella sua completa oscenità, in una società che tiene distante la sua esibizione.
Il regista interviene in maniera significativa sulla pagina scritta: ricondurre il dialogo sulla sfera del visivo non significa solo rendere omaggio a un cinema che non esiste più, ma anche tenere cose e figure umane in campo mute, affinché il gesto, la corporeità fisica, anziché la parola, diventino elemento primario significante.
I Racconti di Canterburiy all'idea del corpo come vitalità, che era già stato del Decameron e che ritroveremo nel Fiore delle 1000 e una notte aggiungono un'immagine di questo stesso corpo completamente opposta. Aleggia infatti all'interno del film un'idea di morte, di disfacimento fisico, di caducità dell'esistere che è presente soltanto parzialmente nel testo letterario di Chaucer.
Nel film sono presenti un corpus di novelle in cui l'eros è mostrato quale momento di liberazione e pienezza di vita, gioia del corpo e al contrario altre in cui l'eros sfocia nel thanatos, in cui emergono valenze tanatologiche nel momento in cui la società reprime la carica erotica, vitale dell'eros.
Allorché i corpi dei protagonisti delle novelle appaiono coperti esprimono una mercificazione e in ombra esprimono il peccato, come nel Racconto del Mugnaio, nel Racconto del Mercante, Racconto della Donna di Bath, mentre quando i corpi sono mostrati nudi e illuminati dalla luce del sole indicano una valenza positiva.
Nel Racconto del Fattore, la figlia del Mugnaio, la sola capace di dire la verità, ci appare nuda e illuminata dalla luce del sole. La sola figura femminile investita di un ruolo positivo e capace di esprimere un sentimento autentico, sganciato cioè dalla morale mercantile.
Nell'insieme però nel film il linguaggio del corpo non riesce a trasmettere una solare vitalità, comunica un senso di inerzia, di morte, di oppressione, unica eccezione la danza di Ninetto Davoli nel Racconto del Cuoco, danza che appare come una vana speranza.


Eros e Thanatos: è un connubio necessario e imprescindibile? Inoltre, quanto è incisivo il contesto in cui si esprimono?

La morte, come più volte ricordato, rappresenta un assunto fondamentale nell'opera pasoliniana. Presenta già nei primi componimenti poetici (Poesie a Casarsa) e nei suoi romanzi (Ragazzi di vita, Una vita violenta), trova nel cinema la completa rappresentazione. Sarà lo stesso Pasolini ad affermare che la libertà è «libertà di scegliere la morte» e sarà proprio thanatos, come lato oscuro di eros, a rappresentare uno dei cardini de I Racconti di Canterbury.
Nel film è presente una morte medievale, allegorica e, come ricorda Pasolini, «morte nello stesso momento volgare fino all'abiezione». La strada affollata di uomini vivi del film diviene nel finale del film un gruppo mortuario, quasi una discesa all'inferno per gli uomini che hanno venduto le loro anime al diavolo per ottenere un profitto economico.
L'idea della morte che aleggia nel film non è associata all'idea del pellegrinaggio medievale, con mortificazione della carne, digiuni, silenzi, preghiere, ma al contrario siamo immersi in un'atmosfera paganeggiante, il cui principale interesse è costituito dal profitto economico.
Il senso religioso è svanito e l'umanità ha perso i suoi valori fondamentali la punto da vendersi il velo di Maria. Viene esaltato il valore della parola, come religiosità, come comunicazione ma soltanto per propagandare il valore del guadagno cioè thanatos. Fine di ogni valore e morte in senso allegorico dell'eros cioè della religiosità, morte dell'anima ma non della carne, non più in grado però di procurare all'uomo felicità.


Pasolini dichiarò: «I racconti di Canterbury sono stati scritti quarant’anni dopo il Decameron ma i rapporti tra realismo e dimensione fantastica sono gli stessi, solo Chaucer era più grossolano di Boccaccio; d’altra parte era più moderno, poiché in Inghilterra esisteva già una borghesia, come più tardi nella Spagna di Cervantes. Cioè esiste già una contraddizione: da un lato l’aspetto epico con gli eroi grossolani e pieni di vitalità del Medioevo, dall’altro l’ironia e l’autoironia, fenomeni essenzialmente borghesi e segni di cattiva coscienza.» Può commentare tale asserzione alla luce dei suoi studi?

The Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer costituiscono un punto di riferimento basilare per una teoria dei generi tra Medioevo e Rinascimento, poiché sono una summa di forme e stili. Con Chaucer la letteratura inglese del Middle English raggiunge la sua più alta espressione. Egli diviene, per le sue proprie qualità, uno scrittore dotato di risorse tecniche, versatile e universalmente ammirato in tutto il medioevo inglese.
Il Medioevo di Chaucer è un'epoca in declino, i capisaldi del mondo medievale: la Chiesa e l'Impero mostrano segni di decadenza. La borghesia, che con l'arma della satira trionfa sulle vecchie istituzioni, impone il richiamo alla religione.
Per il poeta il mondo dei sensi, lungi dall'essere una realtà intangibile, è un universo desiderabile anche nella sua caducità. In qualità di gaudente, egli sa apprezzare tutto ciò che è terreno, non facendosi influenzare da preoccupazioni ultramondane, ma al contrario godendo di una serenità non riscontrabile negli altri scrittori medievali e riuscendo a ricavare dall'osservazione ironica, ma anche comprensiva dei suoi simili, quel genere di divertimento del quale solo l'artista sa godere. L'ambiente economico e sociale con le sue inquietudini e i suoi sconvolgimenti viene filtrato attraverso il carattere dei personaggi e trasfuso in esempi individuali e di egoismo e furfanteria, descritti con quello stesso interesse e gusto per il comportamento degli uomini e per le loro debolezze che si ritroverà in Shakespeare.
Il punto di vista di Chaucer è sempre quello di un laico, nonostante le testimonianze di un genuino sentimento religioso. Egli nel suo complesso si mostra più attratto che scandalizzato dalle debolezze della natura umana. Non un giudizio duro o un'aspra critica muove la volontà di Chaucer, bensì l'accettazione e la giustificazione di ogni creatura umana e la scoperta in essa di una profonda umanità.
Chaucer è volto al divertimento ed esalta la borghesia, come classe sociale produttiva e socialmente utile. La grande capacità di Chaucer è la chiacchiera, i narratori più che narrare chiacchierano, le storie che raccontano sono un pretesto per dei meravigliosi pezzi di bravura comico-moralistica, con un'infinità di citazioni preziose, di magniloquente didattiche fintamente arcaiche.
Chaucer, all'interno dell'opera, ha una duale identità, sia di autore che di pellegrino, elemento fondamentale che, insieme alle sue doti di narratore e umorista borghese, lo rendono quasi un antenato dei romanzieri del settecento inglese.
Il suo punto d'osservazione, anche se ironico, è sempre centrale, il tono anche se comico, mai buffo e ognuno dei suoi personaggi rappresenta una qualche verità essenziale dell'uomo, da qui la sua estrema raffinatezza.




L’EREDITÀ DI PASOLINI


Pasolini in tutta la sua produzione articolò una domanda sul senso della vita, della sofferenza e della morte. Può fare il punto sul lascito dell’insegnamento pasoliniano?

Pasolini lascia un’immensa eredità: il suo infinito coraggio, unito a una sete di giustizia e alla forza del logos, elementi tutti che lo hanno resero immortale. L’uomo che subì 33 processi, costretto a presentarsi nelle aule di tribunale infinite volte dal 1950 al 1975, l’uomo solo contro tutti divenne un divo, quasi un’icona che a distanza di cento anni dalla nascita continua a far parlare di sé e a emozionare.
La voce contro, colui che era in grado di gettarsi nella lotta col suo corpo, il marxista animato da un profondo senso del sacro, da una visione religiosa della vita, colui che anche di fronte al crollo delle sue certezze non smette di lottare, consapevole che di lui rimarrà sempre il ricordo de «la sua disperata vitalità».


Attaccato e finanche osteggiato da tanti nel corso della sua vita, Pier Paolo Pasolini ha conosciuto post mortem una rivalutazione capillare. È da reputarsi un’icona pop?

Quanto di peggio si possa fare è considerare Pasolini un’icona pop. Il rischio oggi è elevatissimo, ma spingendoci su questo terreno arriveremmo a snaturare il pensiero e l’ideologia del grande intellettuale del ’900. Il rigore del suo pensiero, la serietà e la visione obiettiva della società italiana degli anni Sessanta e Settanta, impongono di leggere le sue opere, di vedere i suoi film per rendere a Pasolini l’omaggio che merita. Il modo migliore per ricordarlo è leggerlo.
La sua vita ricca di drammi, il suo percorso critico che più volte l’ha condotto in aule di tribunale, il suo essere sempre la voce contro, il suo gettarsi nella lotta col corpo e non ultimo la sua morte violenta hanno contribuito a rendere Pasolini un personaggio complesso, discusso e scomodo. Già in vita egli era considerato un mito, appariva spesso in televisione, sui giornali, nei dibattiti televisivi, in Italia e all’estero.
Ostacolato in vita e quasi dimenticato nei primi anni successivi alla sua morte, riscuote da tempo un interesse forte e una grande rivalutazione. Lo scrittore italiano del ’900 più tradotto nel mondo, un regista che ha portato il nome dell’Italia alto nel mondo e simbolo di un’intelligenza vivace e di infinita vitalità.
Il ricordo di Pier Paolo Pasolini, dell’ultimo poeta decadente della letteratura italiana, il poeta maledetto, l’esistenzialista, lo scrittore animato da uno spirito ottocentesco, che considerava la letteratura come strumento per cambiare il mondo è ancora vivo ed è la sua assenza che rimanda alla sua presenza.


Gadda, Bertolucci, Bassani, Moravia, Morante, Citati, Penna: quanto è riconoscibile l’influenza degli «amici di Trastevere» nella produzione letteraria di Pasolini?

La storia d’amicizia e di comuni passioni lega Pasolini agli intellettuali con i quali si relazionava. Gadda, Moravia, Morante, Penna Citati, Bassani, Bertolucci che costituivano l’intellighenzia del tempo, erano uniti a lui da una comune visione della vita.
Moravia e Morante, alla quale era legato da un profondo senso di compassione per gli ultimi della terra, costituivano gli amici di una vita, compagni di viaggi indimenticabili. A Citati lo legava lo stesso amore per il sacro, per la lettura dei Vangeli, dei testi sacri, con Bertolucci e Penna condivide l’amore per la poesia vicina al reale, raffinata, distante dalla ricerca della parola metaforica.
Bassani è l’amico con il quale condivide idee e passioni. Stessa formazione letteraria bolognese, con lui ha un rapporto speciale di reciproco scambio. È da Bassani che Pasolini apprende i valori del passato e sarà Pasolini a insegnare a quest’ultimo come evidenziare le contraddizioni della classe borghese. La loro amicizia e stima reciproca mettono in luce una poetica condivisa, frutto di lunghe frequentazioni e idee condivise.


Esiste ed è definibile un’attualità pasoliniana per gli autori che sono arrivati dopo il 2 novembre 1975, giorno della morte di Pasolini?

Non credo che Pasolini lasci eredi, non ho contezza di scrittori o registi eredi di Pasolini. Manca alla nostra società una figura di intellettuale graffiante, sincero, coraggioso, leale come lui, un uomo che ha fatto della sua debolezza, dei suoi limiti il suo punto di forza, un uomo che ha pagato di persona la sua sete di verità. Manca un uomo animato dal suo modo di interpretare la società italiana, sempre pronto a scandalizzare con la sua logica.
L’intellettuale e l’uomo di borgata che dai ‘borgatari’ impara la loro lingua e un sarcasmo che non gli appartiene ma lo diverte e grazie alla loro frequentazione produce un libro: Ragazzi di vita che lo farà conoscere al grande pubblico per l’uso del suo «linguaggio libero diretto» lasciandosi alle spalle sia il romanzo borghese che quello neorealista.
Pasolini si avvicina alla politica da letterato, credendo nella forza del logos, del discorso, come forza in grado di ordinare il caos, per tornare sui suoi passi e produrre negli ultimi anni di vita l’Abiura. Deluso, ma indomito, continuerà nella ricerca linguistica formale che diviene ricerca di forma di vita e di ri-creazione del mondo.
Poeta, scrittore, critico teatrale e letterario, drammaturgo, saggista, regista, sceneggiatore, pittore, fine conoscitore di musica, lascia un vuoto enorme e una grande assenza.



A cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin
(n. 3, marzo 2022, anno XII)