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Roberto Chiesi: «Uno dei lasciti più significativi, la ricchezza rinascimentale dell'opera di Pasolini»
A dicembre si conclude il nostro Speciale Centenario Pasolini, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, che riunisce i contributi di numerosi studiosi italiani e romeni: Smaranda Bratu Elian, Antonio Catalfamo, Donato Di Poce, Angelo Fàvaro, Rosella Lisoni, Daniela Marcheschi, Giommaria Monti, Renzo Paris, George Popescu, Federico Sollazzo.
In questo numero vi proponiamo l’intervista a Roberto Chiesi, responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini presso la Cineteca di Bologna, critico cinematografico e insigne studioso pasoliniano, membro del Comitato di redazione del mensile «Cineforum», componente del Comitato scientifico di «Studi pasoliniani». Ha collaborato al Dizionario critico dei film dell’Enciclopedia Treccani (Roma 2004), ai volumi Pasolini und der Todt (Monaco, Pinakothek der Moderne, 2005), Pasolini O sonho de uma coisa (Lisbona, Cinemateca Portuguesa – Museu do Cinema, 2006) e al Progetto Petrolio (Bologna, CLUEB, 2006). Inoltre, ha curato la realizzazione di Pasolini: il cinema in forma di poesia (Torino, Museo del cinema di Torino, 2006) e delle monografie Hou Hsiao-hsien – Cinema delle memorie nel corpo del tempo (Recco, Le Mani, 2002), Marcello Mastroianni, attore di teatro (Recco, Cineteca di Bologna – Le Mani, 2006), Pasolini, Callas e “Medea” (Bologna, Franco Maria Ricci, 2007).
Il nostro dialogo parte dal suo recente Pasolini, il fantasma del presente (1970-1975), con la prefazione di Dacia Maraini (Vallecchi, Firenze, 2022).
Pier Paolo Pasolini, negli ultimi anni dell’intensa e prolifica attività di scrittore e regista, condanna i lineamenti della contemporaneità. Per quali ragioni persevera nel vivisezionare la realtà a lui coeva nei suoi scritti ma si rifiuta di filmare nel suo cinema?
Pasolini si rifiuta di filmare il presente dell’Italia per il disgusto che prova nei confronti della contemporaneità, un disgusto che deriva da un sentimento di rifiuto esistenziale, ideologico e fisico: il «corpo» dell’Italia degli anni ’70 (i corpi dei giovani, i loro vestiti, il corpo paesaggistico della penisola) lo ripugna al punto che non solo non lo filma ma non ambienta nessun suo film in quel periodo e preferisce ricorrere al passato come dimensione metaforica, di dissimulazione, dove (nel caso di Salò) rimandare al presente, ma come orrore.
Negli ‘ultimi’ cinque anni, dal 1970 al 1975, realizza sei lungometraggi. Qual è il filo rosso che li annoda?
Il filo che unisce i sei film è la dialettica drammatica, anzi tragica con il presente, affrontato e denunciato (12 dicembre), negato (la Trilogia della vita) o trasfigurato (Salò). Il presente incombe sempre e comunque, come un incubo, il termine di negazione e caduta di tutte le utopie.
Il rifiuto del presente, di filmare e raccontare l’Italia contemporanea. A quale passato pensava Pasolini? Quali erano i connotati, anche fisici e concreti, del mondo che rimpiangeva così disperatamente?
In realtà anche se lo ripugna, anche se lo condanna, il presente è dominante nei suoi scritti, è oggetto di accanite, ossessive analisi, sia nei testi di critica della modernità (Scritti corsari, Lettere luterane) sia in ampie parti del romanzo incompiuto Petrolio. Quindi Pasolini non evita di affrontarlo, anzi si misura continuamente con il presente. Ma nella forma della scrittura, per sviscerarlo, descriverlo in tutta la sua degradazione.
I connotati del mondo che rimpiangeva si identificano all’Italia contadina e in generale all’Italia popolare, quando non poteva essere confusa con la piccola borghesia perché era un mondo con una sua cultura, un suo linguaggio, una sua mimica, una sua espressività, con i suoi codici, perfino con un suo umorismo incompatibili con quelli della piccola borghesia italiana. È il mondo popolare che aveva trovato a Roma, nelle borgate, un mondo di emarginazione, criminalità, violenza ma irriducibile ai codici piccolo-borghesi. Dalla seconda metà degli anni ‘60, con il trionfo del consumismo e la diffusione della televisione, ogni mondo popolare, a parte infime minoranza, viene assorbito e omologato dalla borghesia.
La dialettica fra passato e presente diviene drammatica. A quarantasette anni dalla morte di Pasolini cosa si cela proprio in questa dialettica fra nostalgia e condanna?
Si cela la disperazione. Una disperazione vitale, non arresa, rabbiosa, ma sempre dolorosa. La condanna deriva dalla profondità amarissima della delusione, della disillusione.
Quanto alla città pasoliniana ‘per caso’, come si riflette Bologna nel suo immaginario cinematografico?
Nel cinema di Pasolini, Bologna è la dimensione dell’inizio della vita (la formazione) cui alludono le immagini che precedono il finale di Edipo re, sotto il segno della circolarità: «la vita finisce dove comincia». Ma non sono le ultime immagini, come un’apparente logica vorrebbe, perché per Pasolini la vita onirica («il mare d’erba») precede quella concreta della veglia. In Comizi d’amore (la sequenza girata all’università) Bologna è invece la città borghese, la città-città, ossia uno spazio che lo interessa e ispira infinitamente meno rispetto ai margini, le periferie e le campagne.
Pasolini è parte costitutiva dell’immaginario collettivo italiano? Stante la notorietà di taluni aspetti della sua vita, come valuta la effettiva conoscenza della vicenda culturale da parte dei non addetti ai lavori?
Sì, Pasolini oggi è diventato un simbolo, il simbolo di tutto quello che l’Italia ha perso, anche di un idealismo consapevole, della intransigenza e della paradossale coerenza di chi paga di persona per le proprie convinzioni.
La conoscenza da parte della maggior parte del pubblico è legata a degli stereotipi che in parte sono la banalizzazione del suo pensiero ma che contengono anche degli elementi del suo immaginario (come, per esempio, quel mondo popolare, emarginato, povero, promiscuo, che viene definito «pasoliniano»).
Da critico, quali sono le sue considerazioni sulle opere cinematografiche che sono state finora dedicate alla figura di Pasolini, tra film e documentari?
Recentemente ho apprezzato il documentario di Paolo Fiore Angelini, Pasolini cronologia di un delitto politico, il miglior film-saggio sull’omicidio. Interessante anche Il giovane corsaro di Emilio Marrese, sul rapporto con Bologna.
Si sta per chiudere l’anno Pasolini. Può fare il punto sul lascito dell’insegnamento pasoliniano?
Uno dei lasciti più significativi consiste, secondo me, nella ricchezza rinascimentale della sua opera, nel suo respiro fra antico e postmoderno, nel suo sperimentalismo e nella ecletticità linguistica. Un altro lascito è senz’altro la critica della modernità, che si adatta al presente di oggi ancora più di quanto non si riferisse agli anni ’70, perché ormai i fenomeni analizzati da Pasolini sono cresciuti fino a raggiungere proporzioni macroscopiche.
A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 12, dicembre 2022, anno XII) |
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