«Cioran e l’utopia: prospettive del grottesco». Intervista con Paolo Vanini

Nella sezione Spazio Cioran, pubblichiamo un ampio dialogo tra lo studioso brasiliano Rodrigo Menezes e Paolo Vanini, docente a contratto in Storia della Filosofia presso l’Università di Trento, dove è stato anche assegnista di ricerca con un progetto dedicato a Emil Cioran. Ha partecipato a vari convegni cioraniani promossi dall’Istituto Culturale Romeno di Bucarest.
Attualmente Paolo Vanini si occupa del rapporto tra utopia, scetticismo e umorismo tra Rinascimento e Novecento. Ha pubblicato, infatti, diversi articoli su autori come Thomas More, Erasmo, Montaigne, Swift, Kierkegaard, Pirandello e Bergson. È l’autore di Cioran e l’utopia: prospettive del grottesco (Mimesis, 2018).

Rodrigo Inácio R. Sá Menezes, laureato in Filosofia presso la Pontificia Università Cattolica di São Paulo (2009), Master in Scienze della Religione (2007) e dottore in Filosofia (2016) presso la stessa PUC-SP, è l’editore del Portale E.M.Cioran/Brasile. https://portalcioranbr.wordpress.com/



Rodrigo Menezes:
Caro Paolo, è passato molto tempo dalla prima volta che ho letto il tuo libro. Quando ci siamo incontrati a Napoli, nel 2019, e mi hai regalato una copia, non potevo immaginare che mi sarebbe piaciuto così tanto. È senza dubbio una delle migliori esegesi di Cioran che abbia letto. Il tuo mi sembra un approccio così originale, che spicca come una delle migliori tra le esegesi pubblicate su Cioran, per i suoi argomenti, riferimenti (particolarmente Swift) e conclusioni ermeneutiche. Prima di entrarci, vorrei sapere: come hai scoperto Cioran? Quando l’hai letto per la prima volta? Che libro era? Come ti ha influenzato?

Paolo Vanini: Caro Rodrigo, grazie per questo invito che mi obbliga a un po’ di nostalgia. A farmi scoprire Cioran è stato Leonardo Zunica, un pianista e amico fraterno, con cui collaboravo per un festival di musica e arte contemporanea che si chiamava Eterotopie: Altri Luoghi. Era il 2006 e avevo da poco cominciato l’università.
Un giorno Leonardo mi invita a pranzo a casa sua e mi mostra un libro Adelphi dalla copertina azzurra leggermente consumata, intitolato Squartamento: «Credo dovresti leggere questo libro, ti piacerebbe molto. Ma te lo presto solo a due condizioni: 1) ricordati di restituirmelo; 2) promettimi di non leggerlo tutte le sere prima di andare a letto».
Ho disatteso entrambe le condizioni, però Leonardo aveva ragione, e a distanza di anni non mi sembra un caso che a farmi conoscere Cioran sia stato proprio un pianista: sappiamo tutti quanto fosse importante la musica per Cioran. E Leonardo, tra le altre cose, è anche un interprete eccezionale di Schubert e Chopin…
Faccio comunque fatica a dirti quale influenza ha avuto su di me la lettura di Squartamento. Fu soprattutto una rivelazione, la sensazione di aver trovato uno spirito affine. All’epoca soffrivo molto di insonnia, e forse ho proiettato la mia insonnia su quella di Cioran. Si potevano avere probabilmente idee migliori, ma come direbbe lo stesso Cioran, «ognuno si aggrappa alla sua cattiva stella»...

R.M.: Come ti è venuta l’idea centrale della tua tesi? È stata guidata da zero dall’interesse per il tema dell’utopia dalla prospettiva del grottesco? A proposito, potresti dirci qualcosa sui tuoi studi di dottorato su Cioran? Dove l’hai fatto, in quale dipartimento?  Hai passato un po’ di tempo all’estero, in Francia o in Romania, a fare ricerche su Cioran?

P.V.:  A essere onesti, ho capito di voler focalizzare la mia tesi sul tema del grottesco soltanto durante il secondo anno di dottorato: più precisamente, verso la fine del secondo anno. Insomma, decisamente in ritardo rispetto alle tempistiche previste!
Come molti lettori di Cioran, sono stato sin da subito affascinato dal suo stile ‘grottesco’, cioè dal fatto che Cioran non solo scrive in modo ‘diverso’ da qualsiasi altro filosofo, ma che scrive anche qualcosa di ‘impensabile’ per gli altri dottori dell’Essere, ossessionati dall’onere della serietà e dell’oscurità linguistica. Voglio semplicemente dire che, leggendo Cioran, succede spesso qualcosa che non accade quasi mai con gli altri filosofi: si ride. A dispetto del contenuto tragico delle sue riflessioni, del disincanto totale emanato da alcune pagine, e dell’elenco non certo gaio dei temi trattati (la morte, il suicidio, il nulla, l’insonnia, l’esilio, il dolore, ecc. ecc.), Cioran ha elaborato uno stile che si connota per il suo tono ‘umoristico’ e anti-metafisico – per una certa predisposizione alla satira, alla boutade folgorante, all’osservazione blasfema e al «dettaglio meschino» (per riprendere un suo aforisma). E non è un caso, infatti, che lo stile di Cioran sia aforistico e frammentario, essendo la prolissità il nemico numero uno dell’umorismo.
Premesso questo, c’è un passo di Storia e utopia che ha sempre attirato la mia attenzione e che evidentemente ha orientato la mia ricerca: è quando Cioran definisce l’utopia come «il grottesco in rosa». Si tratta di un ossimoro, e uno potrebbe semplicemente leggerlo come una battuta provocatoria, come un modo molto originale per dire: le utopie sono ridicole nelle premesse filosofiche (creare un mondo perfetto grazie alla ragione umana) e mostruose nelle conseguenze (da ideali utopici derivano necessariamente società distopiche). L’utopia, dunque, rappresenterebbe una realtà grottesca in quanto ridicolamente mostruosa: una specie di mostro carnevalesco con la faccia da bambola innocente, gli artigli da demone feroce e gli occhi da guardiano sanguinario. Eppure, quando ho provato ad approfondire il significato di questa definizione, mi sono accorto che relazionare il grottesco all’utopia non era semplicemente il frutto di una suggestione stilistica: ‘utopia’ e ‘grottesco’ sono due sostantivi che trovano le proprie origini in epoca rinascimentale e che, in qualche modo, sono legati all’immaginario del «mondo alla rovescia», del carnevale e delle inversioni simboliche.
Cioran, insomma, non stava semplicemente facendo una battuta poco seria sulle utopie; viceversa, stava suggerendo qualcosa di molto importante sulla storia e sulle origini del simbolismo utopico. Io volevo continuare la mia ricerca in questa direzione, perché credevo che uno studio approfondito sul simbolismo utopico rinascimentale mi avrebbe aiutato a comprendere diversi aspetti poco esplorati del pensiero cioraniano. Fortunatamente il mio relatore di tesi al Dipartimento di Lettere e Filosofia all’Università di Trento, il Prof. Fabrizio Meroi, non si occupa solo di filosofia novecentesca, ma è anche un esperto di pensiero rinascimentale. Fabrizio ha sempre sostenuto la mia idea di approcciare il pensiero di Cioran a partire dalle utopie cinquecentesche; ed è stato sempre Fabrizio a consigliarmi di fare un periodo di ricerca all’Università di Lione sotto la guida di Bruno Pinchard, autore, tra le altre cose, di importanti studi su Rabelais e l’Umanesimo. A Lione, inoltre, ho avuto la fortuna di lavorare con Aurelien Demars, uno dei curatori delle opere di Cioran per la Pléiade. Grazie a Aurelien, infine, ho conosciuto Mihaela-Genţiana Stănişor, che insegna all’Università di Sibiu in Romania e che mi ha aiutato molto nel comprendere alcuni legami tra i testi giovanili di Cioran scritti in rumeno e quelli scritti poi in francese. Il confronto con tutti questi ricercatori è stato decisivo per lo sviluppo della mia tesi di dottorato, ed è difficile esprimere a parole la mia gratitudine nei loro confronti.


R.M
.: Hai fatto i tuoi studi post-laurea all’Università di Trento, e ora insegni in quella stessa istituzione. Insegni discipline su Cioran? È incluso in qualcuna delle discipline che insegni? A proposito, hai organizzato un evento accademico internazionale nel 2015: Cioran e l'Occidente: Utopia, esilio, caduta. Puoi parlarci un po’ dell’evento e della tua attività accademica come professore?

P.V.:
All’Università di Trento io sono docente a contratto in Storia della filosofia in due corsi di laurea triennale, il primo relativo alla Filosofia rinascimentale e il secondo alla Filosofia del Novecento. Come puoi facilmente intuire, Cioran rientra spesso come riferimento durante le mie lezioni, però non ho mai fatto un intero corso su di lui. Nonostante questo, posso confermarti che Cioran è un autore che affascina molto gli studenti, e ho già avuto la fortuna di seguire due tesi di laurea dedicate alla sua opera.
Per quanto riguarda il Convegno del 2015, invece, è stata una delle esperienze più belle e divertenti del mio dottorato; ed è stato anche un onore, visto che si è trattato di uno dei primi convegni di filosofia dedicati a Cioran in ambito accademico italiano.  Da un punto di vista strettamente personale, l’organizzazione di questo convegno è stata importante perché mi ha permesso di conoscere altri studiosi di Cioran con cui non solo ho collaborato costantemente in questi anni, ma con cui si è anche creato un rapporto di stima e amicizia reciproca. Penso in particolare a Amelia Bulboacă, Horia Cicortaş, Massimo Carloni, Antonio Di Gennaro, Giovanni Rotiroti e Alessandro Serravalle. Soprattutto, penso a Mattia Luigi Pozzi, un amico senza il quale faccio fatica a immaginare gli ultimi anni e ai cui suggerimenti la mia tesi di dottorato deve moltissimo. Mattia mi ha aiutato particolarmente nello sviluppare alcune mie intuizioni sul rapporto tra umorismo e metafisica in Cioran, e sarebbe alquanto difficile elencare tutti i testi che ho scoperto grazie alle sue indicazioni.


R.M.: Un’ultima domanda prima di entrare nel tuo libro: quali difficoltà e ostacoli vedi, oppure hai sperimentato, nei confronti dello studio accademico di Cioran? Ho in mente fattori inerenti ai testi di Cioran, difficoltà derivanti dalla natura delle sue opere, ma anche fattori esterni, come la mancanza di riconoscimento e di ‘credenziali accademiche’ di un autore come Cioran, che nonostante tutto ha voluto rimanere oscuro, marginale, un autore ‘in penombra’...

P.V.:
È una domanda difficile la tua, a cui si potrebbero dare molte risposte. In primo luogo, sono gli stessi studiosi di Cioran a rivendicare la natura anti-accademica della sua opera, evidenziando sì la necessità di uno studio critico dei suoi testi ma affermando nel contempo l’impossibilità di costituire una «scuola di pensiero» cioraniana. A questo poi aggiungi che, studiando Cioran, si cade facilmente nella tentazione opposta di farne un eroe romantico, un paladino del nichilismo o un «kamikaze del pessimismo» (scusa l’espressione). 
Nello stesso tempo, Cioran è molto più complesso di quanto possa sembrare a prima vista. In Cioran, il rifiuto della filosofa nasce da una profonda conoscenza della tradizione filosofica, e dalla consapevolezza che l’essenziale stia sempre un passo al di là di ciò che è filosoficamente esprimibile. Da cui i continui riferimenti alla poesia, all’arte, all’aneddoto biografico, al silenzio, alla musica – a tutto ciò che è refrattario alle spiegazioni definitive.
Cioran resta un autore frammentario, eppure i suoi frammenti rivesto un’indubitabile rilevanza filosofica. La cosa più difficile e più stimolante, dal mio punto di vista, è riuscire a muoversi con equilibrio tra la necessità di interpretare il suo pensiero e il dovere di non forzarlo eccessivamente in nome di qualche teoria particolare. Cioran è come un labirinto: studiarlo significa accettare il fatto che spesso la sua intenzione è di condurci in vicoli ciechi. Ma tra un vicolo cieco e l’altro, ci può accadere di trovare una nuova prospettiva da cui affrontare alcune questioni che tuttora segnano il dibattito filosofico contemporaneo. E con cui è bello entrare in dialogo.


R.M.:
Sarebbe giusto dire che il tuo studio combina estetica, etica e antropologia filosofica? Pensi che queste diverse prospettive di indagine scientifica siano inseparabili, soprattutto estetica ed etica – più o meno come in Wittgenstein – nel pensiero di Cioran? Se è così, questa inseparabilità ha qualcosa a che fare con la natura inclassificabile e atopica delle sue opere? Infine, quando si tratta della nozione d’inseparabilità, non è difficile vedere come essa ci conduca facilmente a una certa impurità evocata da Cioran, che è da sola «un segno di realtà», riducendo a un miscuglio impuro e putrefatto la tradizionale opposizione tra ‘il sacro’ e ‘il profano’...


P.V:
Quando si parla di grottesco, è inevitabile parlare di impurità: si potrebbe anzi dire che il grottesco è una forma d’arte promiscua, che rivendica il diritto di contaminare tra loro modi d’essere, forme di vita o espressioni artistiche apparentemente inconciliabili. Non è un caso se, tutti gli studiosi che si sono occupati della questione, hanno osservato che il grottesco comporta innanzitutto una commistione di realismo e fantastico da un lato e di sacro e profano dall’altro. E questo, ovviamente, vale anche per Cioran, autore ‘grottesco’ come pochi altri.
Ora, per tornare al tema dell’utopia, a me sembra che uno dei meriti di Cioran sia proprio quello di non farci confondere l’utopia con l’idealismo: l’utopia è un equivoco, e per comprendere tale equivoco è necessario riconoscerne l’ambiguità di fondo. Da un lato, come ben sappiamo, Cioran condanna l’utopia come progetto politico e considera ridicolo e pericoloso chiunque creda davvero di poter cambiare il mondo, dato che il mondo ha la cattiva abitudine di cambiare in peggio. Dall’altro lato, e da una prospettiva estetica – ossia come la capacità di mettere radicalmente in questione «questo mondo», immaginandosi un fittizio «mondo capovolto» dove tutto funziona al contrario rispetto alla nostra realtà – Cioran non condanna l’utopia, anzi, ne è profondamente affascinato. Perché l’utopia è una specie di anomalia che rivela qualcosa di fondamentale rispetto alle costitutive aporie dell’essere umano: «l’animale razionale», secondo la tradizione filosofica; «un animale anomalo» e «incapace di coincidere con sé stesso», secondo Cioran. E infatti, in questo frangente, l’utopia riveste per Cioran un valore squisitamente antropologico: è il sogno impossibile a cui è fisiologicamente condannato un animale impossibile. Un sogno che diventa incubo nel momento in cui si cristallizza in dogmatismo ideologico; un sogno che diventa prologo di satira quando si limita a mostrare il destino tragicomico degli esseri umani, i quali, in nome «dell’idea di felicità», si ergono e si esiliano in nuovi e inquietanti arcipelaghi di infelicità.
Per dirla in un altro modo, e per riprendere esplicitamente la tua domanda, Cioran critica il pensiero utopico nella misura in cui si fonda su una concezione falsa della natura umana: perché l’uomo non è un animale di «pura ragione», ma un animale costituito da molte impurità. Quando l’utopia, in modo umoristico, riesce a riflettere tali impurità proiettandole sullo sfondo narrativo di un mondo inesistente, allora la questione cambia: ed è qui che l’utopia diventa un gesto scettico. La rivendicazione etica ed estetica della necessità di dubitare – del nostro mondo, delle nostre certezze, di noi stessi. In tale frangente il dubbio presuppone la capacità di immaginare possibilità diverse, e lo si potrebbe dunque descrivere come un «dubbio utopico»: un dubbio, cioè, che ci proietta in un altrove fantastico per poterci permettere di confutare lo status quo della realtà attuale.


R.M.:
Nella tua ricerca svolgi una storia delle espressioni estetiche del grottesco e anche una storia della psicologia della malinconia, entrambe manifestate nelle arti e nei discorsi di vario genere. Come si colloca Cioran in queste due storie, e qual è l’importanza delle sue opere per quanto riguarda la connessione tra malinconia e lucidità come «antidoti grotteschi» contro le sirene dell’utopia?

P.V.:
Tutti sanno che «utopia» è un sostantivo coniato da Thomas More per indicare un «buon luogo» che non sta «da nessuna parte»: insomma, un «non luogo» ipotetico, tanto ideale quanto fittizio. Meno nota, però, è la storia del termine grottesco. Etimologicamente, il grottesco si richiama a un luogo lontano dalla luce: con il termine grottesche gli storici rinascimentali ribattezzarono alcuni affreschi del palazzo dell’imperatore Nerone, riscoperti a Roma verso il 1480 durante degli scavi archeologici. Le grottesche furono denominate in tal modo per la semplice ragione che furono ritrovate sottoterra; da allora, a causa di un fraintendimento ricco di significato, ciò che originariamente doveva designare un tipo di decorazione in cui venivano rappresentate delle graziose fantasie e delle impossibilità simmetriche e anatomiche, divenne anche un nome per indicare le deformità più occulte dell’immaginario umano.
Per noi contemporanei, infatti, l’aggettivo «grottesco» è connotato in chiave romantica e facilmente ci fa pensare alla questione poetica del «sublime». Secondo i Romantici, per raggiungere la visione del sublime, bisogna prima passare per la visione di qualcosa che eccede i canoni della bellezza, della bruttezza e della normalità; qualcosa che ci appare al contempo come terribile, occulto, ridicolo, deforme ed eccentrico, irregolare fino a diventare caricaturale, eppure avvolto da un’innegabile aurea di sacro. Questo, approssimativamente, è il «grottesco». Ora, non a tutti è permesso di vedere il grottesco, anche perché – va pure detto – sono in molti a rinunciare volentieri alla ricerca del sublime. Però, se si dovesse tracciare il profilo di qualcuno più predisposto degli altri ad accettare i rischi del grottesco, forse un altro nome ci verrebbe in mente: il melanconico, colui che a forza di sentirsi «estraniato» o «esiliato» da questo mondo, riesce a vedere di questo mondo gli aspetti più contraddittori, indecifrabili e surreali.
Qui non abbiamo il tempo di abbozzare una storia della melanconia dalla teoria rinascimentale dei quattro umori fino al Romanticismo ottocentesco. Ci limitiamo invece a dire che Cioran ritrae il melanconico come qualcuno che si sente esiliato dalla realtà in quanto la percepisce come una grottesca sovrapposizione di errori e illusioni: come qualcuno che «respira irrealtà», per parafrasare una sua espressione, e che si trova perciò costretto a vivere in una perenne condizione di dubbio. 
Da questa prospettiva il melanconico è suo malgrado scettico, nella misura in cui è consapevole del carattere illusorio di tutte le convinzioni e certezze che ci «radicano» in questo mondo e che ci permettono di percepirlo come un orizzonte dotato di senso. In questo senso malinconia, lucidità e scetticismo sono modi per relazionarsi all’altro e al mondo che si implicano vicendevolmente, dato che per ‘prendere le distanze’ dalla realtà che ci circonda bisogna innanzitutto prendere le distanze dalle nostre stesse credenze, evitando così di cadere nelle trappole del dogmatismo o del fanatismo ideologico.
Nello stesso istante, però, Cioran sottolinea che il melanconico, a forza di isolarsi dalla realtà, corre il rischio di precipitare nel baratro dell’irrealtà, ossia nella follia. Il mondo diventa ‘irrespirabile’ quando si dubita eccessivamente; e anche il melanconico, per quanto scettico, deve respirare. Credere il contrario, significherebbe ingannarsi in nome dell’ideale della lucidità, quasi che il melanconico diventasse vittima di un inconsapevole e ridicolo autoinganno. Per questo l’umorismo e l’ironia sono indispensabili, per Cioran, perché ci permettono di non prendere troppo sul serio anche il nostro ‘disincanto’ – dato che persino il disincanto può diventare una forma di illusione.         


R.M.:
Uno dei punti salienti della tua esegesi mi sembra il parallelismo tra Cioran e Jonathan Swift, una figura chiave nell’orizzonte intellettuale di Cioran, eppure normalmente trascurata. Grazie al tuo libro sono diventato un assiduo lettore di Swift: le sue satire, opuscoli, diatribe. Quali affinità ci sono tra Cioran e Swift, secondo la tua indagine? Entrambi sono stati accusati di misantropia. Qual è il problema intorno alla loro presunta misantropia? È corretto pensare che entrambi ricorrano a un discorso retoricamente misantropico per smascherare l'ipocrisia dell'umanesimo e dimostrare fino a che punto filantropia e misantropia possono essere scambiate l'una per l’altra?

P.V.:
Cioran, proprio come Swift, è convinto che tendenzialmente odiamo il nostro prossimo perché ci siamo creati un’immagine troppo idealizzata dei nostri simili: dunque li odiamo per rinfacciare loro di non essere sufficientemente all’altezza del nostro idealismo. In questo senso la filosofia è colpevole di averci fatto odiare l’uomo per averlo dipinto come un essere troppo razionale e perfetto: un essere che poteva solo deludere le nostre aspettative.
Da questo punto di vista, Cioran ama Swift perché nessuno più di Swift ha denunciato le aberrazioni etiche della filantropia: quando definiamo e dipingiamo l’uomo come un animale troppo buono, diventiamo incapaci di accettarne le imperfezioni nel momento in cui ci relazioniamo con i singoli individui in carne e ossa. E dunque, in nome della filantropia, diventiamo misantropi nostro malgrado. Meglio proiettare la misantropia sul lato teorico (l’uomo come «animale aberrante»), così da non essere poi ‘disgustati’ dagli uomini che realmente incontriamo nella nostra vita (non è un caso che disgusto e fascinazione per il fenomeno umano siano costanti del pensiero cioraniano).


R.M.:
Nel terzo capitolo (Le isole di Saturno. L’utopia tra scetticismo e misantropia), introduci il concetto di anamorfosi, nel contesto di un dialogo tra Cioran e Swift sul tema dell’utopia. Potresti spiegare come funziona questo concetto nella poetica del grottesco di Cioran? Ricordo di aver letto da qualche parte nel tuo libro qualcosa sul fatto che gli scritti di Cioran sono assolutamente comici, e dovrebbero esserlo. Il principio estetico dell’anamorfosi ha qualche relazione con l’inquietante comicità di Cioran?

P.V.:
Da alcuni studiosi di letteratura l’utopia è stata definita come un «trompe l’œil narrativo», ossia come un gioco letterario che sfrutta il piano della finzione narrativa per creare una specie di «inganno prospettico» sulla realtà storica che si vuole criticare. Il trompe l’œil è per l’appunto una tecnica pittorica finalizzata a riprodurre l’illusione della tridimensionalità su una superficie piana, spesso utilizzata nella raffigurazione di nature morte (armadi o custodie aperte, di cui si deve mostrare il contenuto interno) o per amplificare illusoriamente uno spazio architettonico (finestre o porte che danno la sensazione di condurre a uno spazio esterno, per esempio un giardino o a un'altra stanza). Si tratta di un ‘trucco’ artistico, grazie al quale lo sguardo dello spettatore – posto di fronte al quadro – viene ingannato, così da fargli percepire come reale uno spazio che è soltanto illusorio.
Il problema è che questo ‘trucco’ è fondato su basi matematiche e geometriche, quelle che a suo tempo aveva elaborato Leon Battista Alberti per la teoria della prospettiva lineare: teoria che stabilisce le regole da rispettare per ‘modificare’ (e dunque deformare) le proporzioni naturali di un oggetto in modo tale che se ne posa riprodurre un’immagine ‘realistica’. Gli artisti rinascimentali che si dedicheranno al trompe l’œil tra Quattro e Cinquecento sviluppano in modo sistematico le intuizioni albertiane per mostrare una cosa: la ragione umana, per riprodurre mimeticamente la realtà che si trova ‘di fronte’ ai nostri occhi, deve prima scovare e definire le ‘regole’ con cui deformarla. Insomma, il realismo è l’effetto di una falsificazione prospettica: conclusione che, a livello filosofico, implica l’impossibilità di stabilire con certezza la distinzione tra verità e finzione, realtà e immaginazione, ragione e follia (pensiamo a Erasmo o a Montaigne, in questo frangente).
Ma se questo è vero, che cosa accade quando gli oggetti che osserviamo non sono ‘di fronte’ a noi, ma posti lateralmente rispetto al nostro sguardo? In altri termini, cosa succede quando lo spettatore non è più al centro dello spazio pittorico ma spostato verso i margini, laddove gli oggetti appaiono necessariamente più sproporzionati perché sono visti ‘di sbieco’? Sembra una domanda banale, ma dalla cui risposta deriveranno le anamorfosi. L’anamorfosi, infatti, è una tecnica pittorica che consiste nel distorcere prospetticamente un oggetto, fino a renderlo irriconoscibile e del tutto deforme, in modo tale che la sua visione corretta si possa ottenere soltanto da un determinato punto di vista, cioè tramite una visione obliqua o per mezzo di uno specchio cilindrico o conico (che ne riflette l’immagine). Per chi fosse interessato, consiglio la lettura di Anamorfosi o Thaumaturgus opticus (Adelphi, 1978): un meraviglioso libro di Jurgis Baltrušaitis, dove l’autore mostra l’importanza delle anamorfosi nella storia dell’immaginario europeo. In particolare, Baltrušaitis sottolinea come il procedimento matematico alla base della anamorfosi comporti una «trasfigurazione» fantastica della figura rappresentata.
In relazione al confronto tra Swift e Cioran, è proprio il valore allegorico di questa trasfigurazione a interessarmi. Molte anamorfosi, se viste frontalmente e non di sbieco, non solo sembrano figure deformate, ma spesso anche caricature del modello originale: volti con il mento a sciabola, con nasi elefanteschi, con lingue di serpente, con orecchie d’asino o con vere e proprie facce da cavallo… Ora, se una figura del genere viene rappresentata nel momento in cui pecca – quando si dedica alla lussuria, al furto o alla frode – le deformazioni anamorfiche fungono da moniti allegorici contro le aberrazioni di una vita empia, perché l’anima del peccatore potrebbe diventare altrettanto ridicola e mostruosa di questi spettri grotteschi. Qui la visione corretta del quadro produce un effetto comico: credevo fosse un asino, invece era un peccatore. Ma l’effetto potrebbe essere anche sublime, qualora l’oggetto della rappresentazione sia teologicamente elevato: per esempio, credo di osservare un’immensa macchia di fango sull’agitata superficie di un lago al tramonto, ma poi, spostandomi lateralmente, mi accorgo che da quella macchia emerge il profilo del Figlio di Dio. In entrambi i casi, a ogni modo, la vera essenza della realtà umana è ‘rivelata’ da una deformazione prospettica che espone il lato più ridicolo e più inquietante del profilo umano: una rivelazione che ci mostra il lato migliore dell’uomo solo dopo averlo letteralmente ‘smembrato’…
David Oakleaf, uno dei più autorevoli studiosi di Swift, ha paragonato i Viaggi di Gulliver a un’anamorfosi narrativa che gioca con le deformazioni prospettiche del corpo umano, evidenziando come la caricatura swiftiana dell’uomo e della cultura filosofica europea costringa il lettore a mettere radicalmente in discussione l’idea stessa di progresso e razionalità umana. Ed è qui che l’immaginazione utopica viene sfruttata in chiave anti-utopica: proprio come Gulliver finisce sempre su un’isola sbagliata, dove si scopre immancabilmente ‘fuori luogo’, così gli uomini si rovinano a forza di creare nuove utopie, per ritrovarsi immancabilmente in un mondo peggiore di quello che avevano lasciato. È interessante notare che Swift, nella sua opera, si richiama spesso alla metafora degli specchi aberranti e che Gulliver, in ognuno dei suoi viaggi, evita sistematicamente di guardare la sua immagine riflessa negli specchi o su una superficie d’acqua, quasi che avesse ribrezzo della sua figura di essere umano: a dire il vero, si riconosce ben più volentieri nel profilo di un cavallo che in quello di uno yahoo. Si sono invertiti i ruoli: adesso è la faccia dell’animale razionale a diventare l’anamorfosi del sublime volto da puledro. Infatti, tornato in Inghilterra dopo il lungo soggiorno nella terra degli Houyhnhnms, Gulliver non può sopportare né la vista né l’odore della moglie e dei figli, a tal punto che si mette a vivere in stalla con due cavalli. Quando si arrende all’evidenza di dover accettare la presenza di altre persone, Gulliver decide di esercitarsi quotidianamente a guardarsi allo specchio, «per avvezzarmi, se pur possibile, a sopportare la vista di una creatura umana».
Cioran, nei Cahiers, commenta così questo passo: «Gulliver è tornato a casa dopo cinque anni di assenza e, quando abbraccia sua moglie, sviene dal disgusto. Arrivava dal paese dei cavalli, e non poteva sopportare il fetore dell’animale umano. L’uomo ha un cattivo odore, è un mostro che puzza, questa è la conclusione di Swift».
Un mostro che puzza e che denigra filosoficamente il proprio corpo, per ostentare la purezza di una fantomatica anima priva di spessore. E infatti in Cioran, proprio come in Swift, la satira della «humaine condition» parte necessariamente a un capovolgimento gerarchico tra corpo e spirito, grazie a cui si afferma la priorità del fisiologico sullo spirituale, a dispetto di tutti gli idealismi possibili. E credo che sia per questo che Cioran, riferendosi a un altro grande misantropo come Diogene, abbia potuto parlare dell’«orrore testicolare del ridicolo di essere uomini».  


R.M.:
Cioran è spesso paragonato a Nietzsche, quando non lo riducono a un autore nietzschiano o post-nietzschiano (come Susan Sontag). A tuo parere, qual è il nesso storico-filosofico tra il pensatore tedesco e il pensatore rumeno? È interessante notare che Nietzsche non è una figura di spicco nella tua esegesi, ciò che segnala la sua singolarità, l’originalità dell’approccio ermeneutico, piuttosto che una carenza teorica. Pensi che l'influenza di Nietzsche su Cioran sia sopravvalutata oppure approcciata in modo improprio?

P.V.:
Ci sono diversi studi, e molto ben documentati, sulle influenze che Nietzsche ha avuto su Cioran e anche sulle divergenze che ci sono tra i due pensatori. Come è evidente da quanto ho appena detto, a me interessava soprattutto un aspetto che Cioran recupera da Nietzsche (e Schopenhauer), ossia la priorità ontologica del corpo sull’anima. Eppure, in Nietzsche, la rivendicazione di questa priorità serve da prologo a una nuova idea di filosofia e a una nuova immagine di uomo, di cui lo stesso Nietzsche avrebbe dovuto essere il profeta: l’Oltreuomo, per l’appunto.
In Cioran, soprattutto nel Cioran dei testi francesi, è proprio la stessa possibilità di immaginare un Superuomo che diventa oggetto di satira. Il che non vuol dire che Nietzsche non sia importante per Cioran: lo è indubbiamente. Ma Cioran va oltre Nietzsche, nella misura in cui rinuncia completamente all’idea di proporre una nuova filosofia. Mi sembra che, a differenza di quanto accade in Nietzsche, in Cioran il lato «dionisiaco» o tragico del suo pensiero si apra quasi inevitabilmente verso una visione umoristica e del tutto disincantata della condizione umana: Cioran si fa portavoce degli yahoo, non del Superuomo. Ed è per questo che credo sia necessario riferirsi a Swift, e non solo a Nietzsche, per comprendere lo stile ‘umoristico’ di Cioran e la sua ossessione per le utopie.


R.M.:
Pensi che i testi di Cioran mostrino un’autentica preoccupazione per il problema del male, in una concezione metafisica (eterodossa, dualista, gnostica)? Se sì, è giusto parlare di una filosofia del male in Cioran (sebbene non sistematica)?

P.V.:
Di sicuro in Cioran non vale il principio per cui il male è «mancanza di bene»: bisogna immaginare il male come un fondamento, non come un’assenza. Eppure mi sembra che, in Cioran, se il male ha la prima parola, non necessariamente debba avere l’ultima. Voglio dire che non ho mai considerato Cioran un nichilista o un pessimista assoluto. Preferisco vederlo come uno scettico: e uno scettico, quando parla del rapporto fra bene e male, non può evitare di notare un dettaglio: in nome del «bene» si compiono spesso le azioni peggiori. E allora vale forse la pena di focalizzarsi sulla centralità del male.
Da qualche parte Cioran scrive che, in pratica, anche l’ultimo arrivato può far concorrenza al Diavolo ma che, in teoria, è molto più difficile: perché l’uomo compie facilmente il male, ma molto difficilmente se ne assume le responsabilità. Credo che una parte degli sforzi di Cioran siano precisamente orientati a farci ammettere il nostro lato peggiore, quello più «demoniaco»: non per incitarci al male, bensì per farci evitare di giustificarlo in nome di qualche ideale ipocrita. Cioran non è tanto un apologeta del male, quanto un nemico della «buona coscienza». E mi sembra ci sia un forte valore etico in questa sua posizione.


R.M.:
Un altro punto saliente, a mio parere, è il quarto capitolo: «Antropologia di un licantropo. Cioran alla scuola di Maistre e Platone», in cui immagini un confronto tra Cioran e Trasimaco, il personaggio sofista della Repubblica di Platone. Il capitolo si chiude con una riflessione parallela su Cioran, Maistre e Carl Schmitt. In che modo il pensiero di Cioran comunica con quello del sofista contemporaneo di Platone? Sei d’accordo con Marta Petreu quando dice che Cioran diventa una sorta di «sofista errante», dopo aver consumato il suo dogmatismo in inutili imprecazioni – contro il suo popolo, il mondo, Dio, sé stesso? Secondo lei, «la postura del sofista – cioè del professionista della meontica, del relativismo gnoseologico e di ciò che si può comunicare, quindi del virtuoso dell’argomentazione, della lingua, degli effetti manieristici brillanti, generatori di stupore e incanto – è assunto da Cioran apertamente nel Sommario di decomposizione e ha caratterizzato tutta la sua opera francese».

P.V.:
Sono assolutamente d’accordo con questa osservazione di Marta Petreu. Aggiungerei solo un dettaglio: Cioran è un sofista che, prima ancora di rinnegare il vero e il sublime, li rimpiange. Da buon romantico. E forse il suo tono umoristico nasce anche da questa dissonanza tra il suo lato sofistico e il suo lato romantico.
Per quanto riguarda il suo lato «platonico», Cioran sembra capovolgere la domanda di Platone nella Repubblica. Non ci si chiede più «che cosa bisogna fare per realizzare il bene?», ma «perché non si dovrebbe far nulla per non creare ulteriore male?». Il punto è che anche questa seconda domanda svolge per me una funzione paradigmatica, nella misura in cui ci costringe a mettere in discussione i presupposti etici della tradizione filosofica moderna. Ed è proprio qui che ho trovato alcuni parallelismi con la figura di Trasimaco, che rimprovera a Socrate di non aver capito che sono le leggi (stabilite dai più forti) a fondare l’etica, e non viceversa. Una sorta di ‘scandalo’ morale che mi ha permesso di comprendere meglio alcune riflessioni di Cioran sul rapporto tra rivoluzione e reazione.


R.M.:
A tuo avviso, è giusto descrivere Cioran come un pensatore reazionario, oppure no – in quanto scettico, cinico, nichilista (atteggiamenti che risultano opposti a qualsiasi pensiero e mentalità di tipo reazionario)? Se non è un reazionario, pensi che la categoria dell’antimoderno, così come elaborata da Antoine Compagnon, gli si addica meglio?

P.V.:
La modernità si fonda sull’idea di «progresso», e da questo punto di vista Cioran è senz’altro «antimoderno». Premesso questo mi sembra che ogni tentativo di incasellare Cioran in una categoria precisa comporti una forzatura, e quindi preferisco non farlo. Per rispondere alla tua domanda direi che Cioran, in un periodo storico (quello della Guerra Fredda) in cui la maggioranza degli intellettuali si atteggiava da «rivoluzionari», abbia deciso di giocare un gioco diverso, per mostrare che anche una rivoluzione, in quanto ideologia, non è esente dal rischio di cristallizzarsi in dogmatismo reazionario. E per fare questo ha mostrato in che modo una rivoluzione può diventare la caricatura di sé stessa. Dal mio punto di vista, come ti dicevo, si tratta di un esercizio scettico (e non tanto di un gesto antimoderno).


R.M.:
Per concludere, che consiglio potresti dare a tutti coloro che desiderano intraprendere studi accademici su Cioran? Quali domande e controversie rilevanti ritieni meritevoli di essere investigate? Come vedi il futuro degli studi su Cioran?

P.V.:
Non sono particolarmente bravo a dare consigli. In questo momento, oltretutto, la mia ricerca accademica non si focalizza su Cioran. Infatti, a partire dai miei studi su Cioran e l’utopia, adesso sto cercando di studiare in modo comparativo il rapporto tra utopia, umorismo e antropologia in età moderna, a partire dalla figura dei «cannibali» così come la ritroviamo in diversi testi di letteratura utopica o romanzi d’avventura. È un tema che mi appassiona molto e a cui non sarei mai arrivato se non fossi partito da Cioran. Ma per il momento, dopo quasi dieci anni dedicati a Cioran, mi sto dedicando principalmente ad altri autori, tra cui More, Montaigne, Swift ovviamente, ma anche Melville e Samuel Butler. E mi sto avvicinando agli studi di antropologia di Philippe Descola, i cui lavori dedicati al rapporto tra natura e cultura hanno orientato in una nuova direzione la mia ricerca sull’utopia.
Insomma, queste sono al momento le questioni per me rilevanti. Per quanto riguarda, invece, gli studi su Cioran, direi che siamo in buone mani: ogni anno escono nuove traduzioni, nuovi testi inediti e contributi di critica sempre interessanti e originali. E sono certo che questo lavoro di ricerca collettiva su Cioran proseguirà anche nei prossimi anni, con la medesima passione che ho potuto vedere da quando mi sono avvicinato al mondo cioraniano.

R.M.: Caro Paolo Vanini, ti ringrazio ancora una volta per questa preziosa intervista. La tua esegesi è speciale e dovrebbe essere conosciuta dai lettori di lingua portoghese di Cioran. Sebbene non sia disponibile in portoghese, spero che questa intervista possa fornire una visione comprensiva del suo contenuto per tutti coloro che sono interessati a Cioran e in particolare al modo in cui ti avvicini alle sue opere.


Intervista realizzata da Rodrigo Inácio R. Sá Menezes
(n. 9, settembre 2023, anno XIII)





NOTE

PETREU, Marta, Il passato scabroso di Cioran. Trad. di Magda Arhip e Amelia Natalia Bulboaca. A cura di Giovanni Rotiroti e postfazione di Mattia Luigi Pozzi. Napoli/Salerno: Orthotes, 2015, p. 361.