I sentieri delle Ninfe. In dialogo con Fabrizio Coscia

La Ninfa. Il dispiegarsi del sentiero del discorso amoroso attraverso l'evoluzione di un archetipo della perdita e dell'assenza, rintracciato nella letteratura, nell'arte, nella filosofia, nella musica, nella fotografia e nel cinema. È questo il filo conduttore del libro I sentieri delle Ninfe nei dintorni del discorso amoroso (Exòrma Edizioni, 2019) di Fabrizio Coscia, critico letterario e teatrale, collaboratore del quotidiano «Il Mattino». Ha pubblicato il romanzo Notte abissina (Avagliano, 2006), la raccolta di saggi narrativi Soli eravamo e altre storie (ad est dell’equatore, 2015, tradotta in tedesco), La bellezza che resta (Melville Edizioni, 2017, finalista al Premio Brancati 2017), Dipingere l’invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon (Sillabe, 2018). Nel dialogo con Giusy Capone che pubblichiamo in Orizzonti Donna, Fabrizio Coscia ci parla delle varie sfaccettature assunte dalle ninfe nel suo saggio.


Omero con Calipso come HH, Humbert Humbert, il protagonista di Lolita, colti dalla mania della ‘ninfetta’. Chi è la «ninfa»?

La Ninfa, secondo la mitologia, è una creatura mortale di origine divina, nata dalla spuma di sangue e sperma caduta in mare dalla castrazione di Urano. Ma è una creatura che, dai tempi dell’antica Grecia, continua a sedurci, a parlare alla nostra modernità attraverso le immagini, magari nascosta dietro l’icona di Bettie Page, la pin-up vestita solo di lunghi guanti di pelle nera, con un frustino in mano, sguardo dritto all’obiettivo, immortalata dagli scatti di Irving Klaw; oppure incarnata nell’eterna Marilyn Monroe, con la gonna del vestito bianco sollevata dal getto d’aria che esce dalla grata della metropolitana di Lexington Avenue. O la possiamo sorprendere nelle anonime modelle seminude delle pubblicità degli intimi e dei profumi sui muri della città o sugli edifici in ristrutturazione; o forse appena allusa in qualche immagine postata su Instagram, in qualche foto-profilo su Facebook, nei selfie ammiccanti che lasciano però solo un fugace segno nel mare della Rete, dove l’aura dell’incanto si perde, svapora nel trionfo di un effimero ripetibile all’infinito. È in ognuna di queste immagini che si possono seguire le deboli tracce della sua sopravvivenza. La ninfa moderna è solo il fantasma di ciò che un tempo è stata quella creatura mortale di origine divina, ma resta il fatto che essa è ancora viva, in quanto fantasma erotico, ed ecco perché, come tale, è pura immagine e parla attraverso le immagini, ma è un’apparizione che però rimanda immediatamente alla sua assenza, alla sua mancanza. Per questo le Ninfe sono «esseri di fuga», come l’Albertine di Proust, o la stessa Lolita di Nabokov, creature inafferrabili, che ci sono e allo stesso tempo non ci sono, rivelando dunque l’impossibilità del possesso nella relazione d’amore, e perfino il carattere intransitivo dell’amore stesso. Ci si innamora di un’immagine che nasconde un abisso. Per Platone però cadere preda della Ninfa, essere colti dalla mania, guardare in questo abisso ci permette di accedere a una dimensione superiore. Ecco, forse il mio libro cerca di capire, di indagare questo Altrove che sperimentiamo nell’ossessione amorosa.

Il mito elenca diverse categorie di Ninfe: ce ne offre una panoramica esemplificativa e ci indica la differenza con le Muse e le Moire?

Ogni Ninfa cambia nome a seconda dello spazio che abita: i boschi di montagna sono popolati dalle Oreadi, che possono vivere dentro gli alberi (come le Driadi o le Amadriadi); le fonti e i corsi d’acqua dolce sono il regno delle Naiadi: nelle sorgenti vivono le Pegee, nelle fontane le Creniadi, nei fiumi le Potameidi, nei laghi le Limniadi. Nelle profondità del mare nuotano le Nereidi; il cielo è popolato dalle Aurae, ninfe della brezza, e dalle Pleiadi. Il discorso amoroso è, pertanto, un movimento attraverso i luoghi delle Ninfe, che sono spesso emanazioni di un potere occulto, anche pieni di insidie, di inganni; ed è un movimento destinato a restare nei dintorni, nei paraggi, senza mai arrivare a destinazione, per così dire. Per quanto riguarda il loro rapporto con le Muse e le Moire, è difficile districarsi nella mitologia: le Muse, secondo le teorie più diffuse, sono considerate ad esempio «Ninfe dei monti», e le stesse fonti iconografiche più antiche che ci restano le rappresentano come Ninfe; così come le Moire, che tessono il filo del fato di ogni uomo e infine lo tagliano segnandone la morte, in effetti potrebbero essere apparentate alle Ninfe. Almeno così sembra suggerirci Omero, nel libro dell’Odissea in cui descrive, raccontando l’approdo di Ulisse a Itaca, l’antro delle Ninfe, dove si trovano, misteriosamente, anche dei telai di pietra. Queste Ninfe tessitrici sembrerebbe alludere proprio alle Moire, che decretano la vita e la morte dell’uomo. E del resto, quale fantasma erotico non è anche, allo stesso tempo, una musa ispiratrice (pensiamo alla Marthe di Pierre Bonnard, la modella più dipinta della storia dell’arte) e allo stesso tempo una raffigurazione di Thanatos?

«Belle dame sans merci», la figlia della fata cantata da John Keats nella sua splendida ballata. La ninfa come una contemporanea incarnazione della femme fatale?

La femme fatale è una delle possibili incarnazioni della Ninfa: ha il suo archetipo primordiale in Lilith, principessa dei succubi, demone femminile di origine mesopotamica portatore di disgrazia, e vede il suo trionfo soprattutto nel Romanticismo e nel Decadentismo, con le figure di Salomè, le donne dannunziane, la Lulu di Wedekind, fino ad arrivare, se vogliamo, alla Lola di Marlene Dietrich ne «L’angelo azzurro», il film di von Sternberg, o alla donna pronta a spezzarti il cuore in due evocata dalla voce roca e profonda di Nico dei Velvet Underground. Anche qui, evidentemente, il fantasma ninfale si apparenta alla Moira, al suo potere di dare la vita e la morte.

Aby Warburg, ninfomane e ninfologo, storico dell’arte ebreo-tedesco ha fatto della Ninfa un’ossessione. La Pathosformel inseguita da Warburg con il suo atlante di immagini come rivoluzione del concetto stesso di storia dell’arte, adoperando proprio il fermo immagine della Ninfa?

Per tutta la sua vita di studioso, a partire dalle ricerche sui quadri del Ghirlandaio, Aby Warburg è stato ossessionato dalla figura della Ninfa. Un’ossessione che lo ha portato fino alla follia, letteralmente, ma che allo stesso tempo gli ha dato anche la forza di risalire dall’abisso della follia. L’ultimo suo progetto è stato Mnemosyne, un atlante di immagini montate una accanto all’altra su grandi pannelli neri, in cui veniva abolito, appunto, il concetto di «storia dell’arte», sostituito dalle corrispondenze, le metamorfosi, le sopravvivenze delle immagini artistiche nel corso del tempo, anche da epoche lontanissime tra loro. Sono immagini legate da associazioni libere, non da rapporti storici o filosofici, ma da analogie sotterranee che spesso ci sfuggono e che Warburg definisce «psicologia dell’immagine», qualcosa cioè di molto simile all’inconscio freudiano. Ora, in questo progetto a cui lavorerà fino ai suoi ultimi mesi di vita, Warburg torna alla sua antica ossessione, alla Ninfa, alla sua Pathosformel, come la definisce, ovvero un fermo-immagine, una formula di pathos – letteralmente – qualcosa di stereotipico ma carico di energia, che ritorna e si ripete attraverso i secoli, per dare forma alla «vita in movimento», al demoniaco della vita in movimento, ovvero a qualcosa che non potrà mai essere ingabbiato, ma che sempre continuerà a emergere nonostante le rimozioni e i tentativi di neutralizzarlo.

Nympha, come racconta Ovidio di Clizia, può essere vittima di Eros. L’amore perfetto è quello mistico?

Ninfa è, allo stesso tempo, predatrice e preda. Può far innamorare o innamorarsi. Nel mio libro parlo anche di Teresa d’Avila come una Ninfa di Dio. Dico che il suo amore mistico è perfetto, se amore perfetto può mai darsi, perché la sua estasi erotica, così ben rappresentata dalla scultura di Bernini, le permette di fare esperienza di qualcosa di straordinario: Teresa infatti esplora un godimento sessuale che la esilia da sé stessa, in un perpetuo trasporto verso l’Altro, però l’estasi, in questo caso, non è un’esperienza di trascendenza, ma al contrario di immanenza. Il godimento la fa uscire fuori di sé, per fondersi nell’Altro, confondersi nell’Altro, ma solo perché l’Altro, ovvero Dio, a sua volta si fonda e confonda nel suo corpo.
L’estasi di Teresa ci insegna, così, che non basta il cogito di Cartesio affinché esista l’io; che per «essere» occorre l’incontro con l’altro da sé, e se, come in questo caso, l’altro da sé è la divinità, allora l’infinito può dimorare in noi, attraverso il piacere che procura quell’incontro. Dio per Teresa smette di essere un’entità esterna, irraggiungibile, per diventare una realtà interiore e immanente. Se l’uomo posseduto dalle Ninfe può accedere al divino, ecco che la Ninfa posseduta da Dio scopre, del divino, la dimensione umana.










Intervista realizzata da Giusy Capone
(n. 7-8, luglio-agosto 2020, anno X)



L'intervista si può leggere anche sul blog letterario di Giusy Capone cliccando qui.