«Scrivere è essere sopravvissuti a se stessi». Donato Di Poce e il suo Pasolini

Nel nostro Speciale Centenario Pasolini interviene anche Donato Di Poce, poeta e scrittore di poesismi, critico, artista poliedrico e innovativo, autore di 33 libri (tradotti anche in inglese, arabo, romeno e spagnolo), 20 ebook e 40 libri d’arte Pulcinoelefante. Dal 1998 è teorico, promotore e collezionista di ©Archivio Internazionale Taccuini d’Artista e Poetry Box.
Tra le sue raccolte più recenti si annovera Tracimazioni (Eretica Edizioni, 2021), un libro che, oltre a essere un esempio di poesia civile, è una scelta antologica (2000-2020) di alcuni poemetti dell’autore, che ha visto in maestri come Pier Paolo Pasolini, Giordano Bruno, Dino Campana, Antonin Artaud, Roberto Roversi e Tomaso Kemeny, autori e padri dichiarati di riferimento, studiati e indagati anche in recenti pubblicazioni di critica letteraria: P.P. Pasolini: L’ossimoro vivente (I Quaderni del Bardo, Lecce, 2021) e Un Poeta al rogo: Giordano Bruno, il poeta-philosophus dei poetici furori (Eretica Edizioni, 2021).
 

«Tracimerei visioni d’altri mondi
Accumulerei silenzi mai scritti
Se solo avessi una lacrima in cui specchiarmi
Un rigo di bellezza da salvare».
(Donato Di Poce)

Tracimazioni è una scelta antologica di alcuni suoi poemetti, lei che pur ha sperimentato nei decenni la canzone libera leopardiana, il verso libero, l’elegia, la poesia d’arte e negli ultimi anni, i ‘poesismi’. Da chi è stato influenzato? Si possono scorgere mentori?

Sicuramente dal mio «Maestro» Roberto Roversi e dal Pasolini di Le ceneri di Gramsci, perché il poemetto permette di affrontare tematiche civili e storie brevi in versi, donando musicalità e tono elegiaco a tematiche etiche e civili. Poi non bisogna dimenticare la lezione dei poeti maledetti (Rimbaud, Una stagione all’inferno, poema in prosa; Verlaine con i Poemi Saturnini; Mallarmé con Il pomeriggio di un fauno.Nell’era moderna assistiamo al diffondersi di altre 5 caratteristiche principali del poemetto: il poema diventa sempre più breve; i temi si allargano a destinatari universali; si affrontano temi come il lavoro, l'emigrazione, la sessualità, l'infanzia, la natura, amore, morte, insomma tematiche sempre più conviviali, esistenziali, filosofiche, civili e persino onirico-surreali; l’oralità cede sempre più il passo alla contaminazione di testualità, recitazione, immagini verbo visuali (Le Corbusier) e ai cultori della Poesia Totale e performativa (Totino, Pignotti, Fontana, Frangione, Carlacchiani ecc.); frammentazione testuale in canti, stanze, prose, quartine storico/orfico/esistenziali (Cvetaeva, Campana, Pessoa, Breton, Bertolucci, Pasolini, Roversi).
Tra i libri, poeti e movimenti dell’era moderna che più mi hanno lasciato grandi emozioni, insegnamenti e suggestioni, devo ricordare Baudelaire con I poemetti in prosa, Valery con Il cimitero marino, Artaud (Van Gogh. Il suicidato della società); Breton (I vasi comunicanti); Pessoa (I Poemi di Alberto Caeiro); Rilke (Il libro d’ore), i poeti italiani di Officina (Pasolini, Roversi, Leonetti, Fortini, Majorino), Volponi (I Poemetti). Una segnalazione a parte meritano Le Corbusier (Le poème de l’angle droit è un poema in formato extralarge, 32 per 42 centimetri, in cui versi – scritti a mano in corsivo – e immagini – disegni inseriti tra le righe del testo e 19 litografie a colori – si mescolano in una sintesi di forme e di parole che è ricapitolazione del suo pensiero intorno alla creazione artistica e architettonica ma non solo; L’angolo retto è anche definizione di senso dell’umano, linea verticale sull’orizzontalità della terra); ma soprattutto L’Urlo di Allen Ginsberg, il libro ciclostilato e rilegato a mano, donatomi da Roberto Roversi, Descrizioni in atto 1963-1970, e il poema epiconirico del mio amico e maestro Tomaso Kemeny (La Transilvania liberata).


Poemetti eretici e sociali 2000-2020, eppure la sequenza dei poemetti del suo libro non è in ordine cronologico. Per quale ragione?

Semplicemente mi sono abbandonato alla danza interiore del ritrovamento e della memoria e poi perché hanno tutti il filo conduttore dello stile e delle tematiche eretiche e sociali. Volevo vedere la forza straripante e tracimante di vederli raccolti insieme (oltre l’occasionalità) in una sorta di preghiera laica che pianta croci di senso sul tempo che passa inesorabile.


Clandestini e Le lavagne di Santiago, Ipazia e Giordano Bruno, Le grate del cielo e Vita, Antonin Artaud e Carmelo Bene. Qual è il filo rosso che lega le tematiche sociali e civili di cui scrive?

Sicuramente la necessità di dare voce agli ultimi (clandestini o desaparecidos) e valore linguistico e poetico ai grandi autori eretici, come Bruno, Artaud, Bene e Pasolini, ma anche il desiderio a volte riuscito, spero, di aver dato voce alle mie istanze esistenziali, estetiche e filosofiche.


Il poemetto è una derivazione moderna del Poema di origine greca. Ebbene, valicando i secoli, qual è la sua personale interpretazione di questa forma stilistica?

Credo una volontà di dare un corpo a una frammentazione linguistica ed esistenziale in atto, analizzando nel dettaglio alcune tematiche sociali e civili di particolare significato, solitamente banalizzati dai media e da molti autori contemporanei che seguono troppo le mode sia tematiche che stilistiche. Nel tempo ho imparato a gestire in parallelo e contemporaneamente varie forme espressive e stili diversi, alternando saggi critici, verso libero, canzoni etc… approdando negli ultimi anni a un genere che è sto definito dalla critica «poesismi», avendo messo insieme l’ironia tipica dell’aforisma e la riflessione etica  e metapoetica della poesia, in una forma breve, una sorta di flash poetico che fa da contraltare significante e stilistico al dilagare schizofrenico dei tweet e dei linguaggi asemici, criptici e farciti di acronimi dei giovani d’oggi.


Tracimazioni: può spiegare il titolo che ha adottato?

Tracimazioni allude alla parola come acqua sorgiva che tracima dagli argini del silenzio. Alcuni di questi poemetti sono stati scritti dieci o vent’anni fa, ma è straripante la loro forza evocativa e la loro drammatica attualità. Inoltre la parola rivela la volontà di azione insita nell’atto linguistico e poetico. Ci ricorda che la poesia oltre a essere testimonianza, visione e incanto, è sempre e soprattutto l’unione di ESSERE, PENSIERO e AZIONE. A titolo esemplificativo voglio riportare questo passaggio:

«… Ci sono coloro che scrivono
Senza avere nemmeno iniziato a pensare
Senza aver vissute tre vite
E senza essere morti dentro.
Scrivere è essere sopravvissuti a se stessi
Scrivere è restare vivi e rinascere
Ma prima bisogna aver vissuto
La mattanza di un amore
La mattanza della vita e della morte.
Alla fine l’ultima cosa che desideri
È scrivere, dipingere ed essere amato
E goderti gli ultimi spasmi
Del corpo che reclama la vita…»




Al nome e alla figura di Pasolini fungono da cornice due luoghi: Rebibbia, la zona cioè del carcere che sorge al di là dell’Aniene sulla Tiburtina, oltre Ponte Mammolo e il Ciriola, il galleggiante sul Tevere sotto Ponte Sant’Angelo. Qual è il rapporto tra ‘periferia’ e ‘centro’, cioè tra ‘vita’ e ‘letteratura’ per Pasolini?

Direi che Pasolini per tutta la vita ha cercato di mettere insieme vita e poesia, cinema e letteratura, e che la sua vita e la sua opera letteraria e poetica erano nel segno della contaminazione (si vedano ad esempio Ragazzi di vita, Poesia in forma di rosa e Mimesis). Pasolini ha messo al centro la poetica dei ragazzi poveri ed emarginati della periferia romana con la loro vita quotidiana e il loro linguaggio dialettale e la letteratura innovativa e sperimentale realizzando un esistenzialismo etico e filosofico di grande intensità.
Nei suoi romanzi il centro era la denuncia di una «mutazione antropologica» e linguistica (l’affermazione del dialetto in letteratura), di cui l’Italia di allora (non solo sociale ma anche intellettuale), faceva fatica ad accettare. La «mutazione antropologica» era invece la vera ossessione sociale (Gramsciana) e linguistica (plurilinguismo Continiano) di cui Pasolini cercò di parlare trasversalmente e contemporaneamente, nelle sue poesie (Le cenerei di Gramsci e La religione del mio tempo), nei suoi film (Accattone e Mamma Roma) e nelle sue riflessioni critiche (da Passione e Ideologia sino alle Lettere Luterane).


Montale sosteneva pressappoco che, probabilmente, per molti anni la poesia avrebbe taciuto e che si sarebbe scritto prosa. Come considera inserita nel Novecento la poesia di Pasolini?

Personalmente credo che Pasolini fosse poeta in ogni cosa che faceva e a prescindere dal linguaggio utilizzato (poesia, cinema, critico letterario, romanziere ecc.) e che del ’900 sia tra i nostri maggiori poeti insieme a Ungaretti, Montale, Saba, Penna, Caproni e Luzi. Tra i suoi libri di assoluto rilievo sono soprattutto le poesie dialettali giovanili, Le ceneri di Gramsci e Poesia in forma di rosa.


Pasolini in tutta la sua produzione articolò una domanda sul senso della vita, della sofferenza e della morte. Può fare il punto sul lascito dell’insegnamento pasoliniano?

Uno dei maggiori aspetti della sua poesia è il «Leopardismo» di cui ci sono evidenti parallelismi. Da notare, ad esempio, che La ginestra è scritto poco tempo prima della morte (sono gli ultimi tempi della vita di Leopardi), nei primi anni della stesura dello Zibaldone e quanto il canto fa e dice era anticipato nella prosa filosofica di Leopardi. Allo stesso modo Pasolini, quando scrive Il glicine (aprile 1960), aveva annotato tutte le sue riflessioni critiche e poetiche nei saggi di Passione e Ideologia.
C’è evidentemente in questo parallelismo metodologico (cercare la poesia nel respiro della prosa del mondo) un comune atteggiamento riflessivo, teorico e filosofico, e in questo sta a mio avviso il «Leopardismo» di Pasolini, non tanto a livello fonologico e linguistico, ma nell’atteggiamento esistenziale, e intellettuale e sociologico. Entrambi si ergono come due Titani sulle macerie del proprio tempo per gettare le basi di una rinascita morale, l’uno nel pessimismo cosmico, l’altro nella disperata vitalità, che restano i nuclei poetici fondanti di tutto il loro operare.
Un altro lascito importante di Leopardi e Pasolini che li accomuna è la critica antiprogressista che animava i due poeti, che era fortissima, ma mentre in Leopardi restava confinata in ambito letterario e filosofico (Lo Zibaldone), in Pasolini deflagrava in ogni ambito letterario, cinematografico, narrativo, poetico, critico e denunciava la perdita del sacro, della religiosità del mondo antico, della dimensione simbolica.


E, invece, qual è la sua lettura dell'uomo Pasolini?

La tesi centrale del mio libro è che Pasolini era un ossimoro vivente. A Pasolini non veniva perdonato proprio il fatto che non si accontentava di essere testimone del proprio tempo ma di esserne un protagonista corsaro e poetico, impavido, lucido e irriverente, capace di andare oltre se stesso, contraddirsi, attaccare il vecchio P.C.I., scoprire un artista come Scialoja e polemizzare con Calvino, e persino di scrivere recensioni a se stesso (celebre la sua Pasolini recensisce Pasolini in Il Portico della morte, in cui ci dà una lezione di critica e metacritica difendendo e sottolineando la svolta linguisti/poetica del suo libro Trasumanar e organizzar.
A un certo punto scrive: «…Insomma tutto il libro è pervaso ossessivamente dall’idea metalinguistica di sé. Ma proprio nel momento in cui Pasolini si fa più volontariamente letterario, ecco che egli può concedersi uno “sprezzo” per la letteratura mai avuto finora...» «…Ma la continuità è dovuta al persistere dell’oxymoron, cioè a definire le cose per opposizione… si può affermare che Pasolini vive storicamente per accumulazione, e che il suo conoscere, non dialettico, è dovuto all’eterna coesistenza degli opposti…. L’attualità del libro… sussiste unicamente in una esplosione (più o mene generosa, più o meno felice ) di vitalità…» (Il Portico della Morte, Garzanti, 1988, pag. 284).




A cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin
(n. 3, marzo 2022, anno XII)