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«Male a est», segnalato al Premio Strega. In dialogo con Andreea Simionel
Nell'ambito dell'inchiesta esclusiva sulla scrittura migrante romena in Italia, Afrodita Cionchin dialoga con la giovane scrittrice Andreea Simionel. Il suo primo romanzo, Male a est (Italo Svevo Edizioni, 2022), è stato segnalato all’edizione di quest’anno del Premio Strega. Gioacchino De Chirico lo presenta così: «Il libro d’esordio di Andreea Simionel merita tutta l’attenzione che gli dedicano le pagine culturali di quotidiani e periodici, radio e televisioni. Male a est racconta la lacerazione dell’emigrazione. Ne rende visibili e tangibili le opportunità e le perdite, ma soprattutto, evidenzia i traumi di una lingua nuova che si misura e combatte con la lingua madre, anche se il romeno ha la stessa radice latina dell’italiano. Ogni parola, ogni neologismo, ogni ricordo risulta così profondamente legato alla realtà che se in un primo momento può disorientare il lettore, ben presto si rivela un prezioso strumento di narrazione. È la letteratura».
L’autrice è nata nel 1996 in Romania e nel 2007 si è trasferita con la famiglia a Torino, dove vive, lavora e scrive. Suoi racconti sono apparsi su varie riviste letterarie, tra cui «effe – Periodico di Altre Narratività», «Altri Animali», «Verde», «l’inquieto» e «Nazione Indiana». Nel 2021 il racconto Addio Sicilia è stato tradotto in tedesco all’interno dell’antologia Literatur Tandem letterario.
Andreea, sei nata in Romania e vivi in Italia da diversi anni. Come ti definisci, scrittrice «migrante», «italofona» o in un altro modo?
Ho cominciato a scrivere quando ero in Italia e ho lottato tanti anni per entrare in controllo dell’italiano a livello letterario. Non ho mai pensato di scrivere in romeno, anzi, più mi impossessavo dell’italiano più lo perdevo, anche se resta comunque una parte preziosa di me. Allo stesso tempo, non scapperò e non negherò mai i miei temi, che forse saranno sempre gli stessi, declinati in mille storie: la mancanza di una lingua o di un genitore, l’incomunicabilità, l’assenza. Mi definirei italofona.
Ritieni che in Italia ci sia sufficiente attenzione verso la cosiddetta «letteratura migrante»?
L’attenzione verso le storie c’è sempre stata, penso a un titolo ormai vecchio ma sempre attuale come Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda. Mi sembra però crescente l’interesse verso quello che i migranti possono fare con e all’italiano. Nel 2018 fu candidato nella dozzina del Premio Strega il libro Dal tuo terrazzo si vede casa mia dell’albanese Elvis Malaj. Penso anche a scrittrici come Elvira Mujcic, Helena Janeczek, Nadeesha Uyangoda.
Quale pensi che sia l’apporto della scrittura migrante alla letteratura italiana dei nostri giorni?
Fino a qualche anno fa ci si limitava al gradino della testimonianza: si narrava come si era arrivati in Italia, come era andata l’accoglienza, l’integrazione. Oggi però, con il fatto che dai primi movimenti migratori sono passati venti e più anni, e a scrivere sono persone perfettamente integrate, camuffabili, si può fare letteratura: ovvero non più raccontare un fenomeno, ma la vita, le persone che abbiamo intorno.
Secondo te, che cosa differenzia uno scrittore «migrante» da uno «stanziale»?
Lo scrittore migrante ha la possibilità di trovarsi in una posizione inedita nei confronti della lingua, guardarla da fuori e da lontano, metterla in dubbio e, perché no, odiarla, prima di decidere di abitarla.
Quando hai cominciato a scrivere testi letterari in italiano e con quale motivazione?
La prima volta è stata a tredici anni, in seconda media. Avevo una professoressa di italiano che dedicava un’ora a settimana alla lettura e una alla scrittura. Ci dava degli esercizi di scrittura per casa e mi fece credere una cosa che mi fu fatale, ovvero che ero brava, forse avevo del talento. Durante le medie e il liceo scrivere è sempre rimasto confinato a un sogno. A diciannove anni stavo leggendo Vita di Alfieri, quanto mi sono messa in testa che avrei scritto sul serio. Ho iniziato a scrivere racconti e mandarli alle riviste.
Sul piano dell’identità e della crisi dell’identità individuale, che opera con concetti quali «doppia identità», «identità in movimento» o «identità in rottura», in quali di questi concetti ti riconosci di più?
Ricordo che a proposito di Divorzio di velluto, il libro di Jana Karsaiova, candidato al Premio Strega 2022, un giornalista o una recensione aveva usato l’espressione a «cavallo tra due mondi». È un modo di dire che sento spesso e con cui non riesco a fare pace. Visivamente la associo a un clown o a un giocoliere, che ha ciascun piede su un globo terrestre diverso e li fa rotolare cercando di non perdere l’equilibrio. La letteratura deve rendere chiaro che il mondo, come l’identità, è sempre uno solo, rotto in due, tre o mille pezzi.
Il tuo libro d’esordio, Male a est, è stato segnalato all’edizione di quest’anno del Premio Strega. Come nasce il romanzo e qual è il significato più profondo del titolo?
L’idea nasce dalla lettura di un libro di Paolo Nori, Bassotuba non c’è. Mi sembrava che il protagonista, Learco Ferrari, avesse male a un mucchio di cose, male alla vita. Mi sono detta che anche io avrei voluto avere un male letterario ed è subito nato il concetto, Male a est.
C’è stato poi un altro momento che ha ispirato la storia, quello in cui mi sono alzata in piedi al Consolato per fare il giuramento della cittadinanza italiana. Ho immaginato una scena di finzione in cui una ragazza non riusciva a giurare, per via di un dolore fisico al fianco ‘est’. Ma poi, nella realtà, io ho giurato.
Nel libro e nella tua esperienza di vita, come si risolve il contrasto tra la Romania in bianco e nero, un Paese a forma di Pesce, come lo definisci, un Paese difficile che però protegge, e l’Italia, il Paese a forma di Stivale che accoglie ma devasta?
In un primo momento il pesce e lo stivale sono legati dall’idealizzazione, quella idea strana e lontana che ci si fa di un paese da fuori, e dal capitalismo: l’Italia è i suoi prodotti, che arrivano nel pacco spedito dal padre, è la pizza, è fatta dai film con i commissari che parlano veloce alla tivù. La Romania resta invece sempre un posto puro e protetto, come lo è l’infanzia. Questo legame poi si spezza all’arrivo in Italia, quando le cose si ridimensionano e niente è come immaginato. Sono però convinta che la ferita causata da questi due paesi si sia rimarginata, almeno nel mio caso. Nei confronti della Romania proverò sempre quella cosa intraducibile a tre lettere, ovvero dor.
«Noi ci dobbiamo amalgamare, come le strisce di colore sulla carta. Noi dobbiamo stare nei contorni. Noi dobbiamo avere pronunce impeccabili. Noi dobbiamo smettere di esistere in una lingua, rinascere nell’altra. Noi ci dobbiamo integrare, diventare irriconoscibili». Quali sono, per te, le conseguenze emotive dell’emigrazione?
Avevo un professore al liceo che si rifiutava di battere le mani sopra la cattedra per imporre il silenzio, diceva che gli avremmo fatto venire le microfratture. È una cosa buffa, ci faceva ridere e mi è rimasta impressa. La vergogna, il bisogno di camuffarsi e amalgamarsi in una lingua o una cultura, nascondere il proprio nome o le proprie origini sono tutte le microfratture dell’emigrazione, che fanno ridere, perché non hanno dignità.
Quali sono i tratti peculiari del tuo linguaggio, spesso intriso di neologismi, di contaminazioni e anche di parole romene?
Nella domanda precedente sulle identità mi è venuto naturale dire che il clown jonglează cu lumile, ma in italiano non esiste un verbo del genere, si può dire destreggiarsi, fare il giocoliere. Direi che il mio linguaggio nasce da un misto di testardaggine e rassegnazione: laddove l’italiano non rende, gli giro intorno, ci gioco finché non mi soddisfa; se neanche questo basta, mi vendico con la crudità dell’italiano, lo spoglio: in Male a est, la slitta non travolge il cane, ma «i ferri gli entrano nella carne»; il lago di Eminescu è «acqua sporca e muschio verde»; «un cancro bolle sotto la pelle di tutti».
Il romeno però è molto creativo e alcune cose restano intraducibili, come il bou cu ţâţe o i covrigi, che sono sparsi per tutto il libro. Alla fine del libro, il romeno riesce quasi a mangiarsi l’italiano, e nascono parole come caţo, finestră.
Che rapporto hai oggi con la lingua d’origine e cosa significa per te scrivere in italiano rispetto a scrivere in romeno?
Sono rimasta bambina nei confronti del romeno. I miei genitori leggono quotidianamente i giornali romeni sul web, ricordo che una volta mi ero seduta davanti a una pagina rimasta aperta sul computer. C’erano parole lunghe e complesse come globalizzazione, industrializzazione. Ricordo di essere scoppiata a ridere, come se le vedessi per la prima volta. Ancora oggi mi fanno molto ridere le parolacce, da bambina erano proibite e tali sono rimaste. L’italiano è la mia lingua, ma per molto tempo ho scritto in modo strano, fuori controllo.
Cos’è più complesso, secondo te, scrivere o tradurre letteratura in italiano?
Ho una vecchia edizione di Balanţă di Ion Băieşu, dell’Editura Minerva, uno dei miei libri preferiti in romeno. Ogni due o tre mesi mi metto in testa di tradurlo, ma non sono mai andata oltre la prima pagina. Riuscire a trasmettere il tono, l’umorismo e le atmosfere di Băieşu, mentre contemporaneamente mi sforzo di trovare le parole mi sembra difficilissimo e impossibile. Mi rassegno a scrivere.
Tra autobiografia e finzione, nel tuo caso come cambia la vita per mezzo della letteratura?
La protagonista del romanzo ha il mio nome e spesso mi chiedono che cosa si prova a diventare personaggio, o a dare la tua vita a un personaggio. Io rispondo sempre che non si prova niente. Anche se molte scene fanno riferimento alla vita reale, ho cercato di allontanarle da me, darle a un’altra Andreea, in modo che qualcun altro possa riconoscersi in questa storia.
Sul significato della scrittura e anche della lettura ci si continua a interrogare nei modi più diversi.Quale potrebbe essere, per te, il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?
Direi raccontare la colpa e la vergogna dell’uomo. Ma se penso alla funzione che la lettura e la scrittura hanno avuto per me in tutti questi anni, direi che non hanno mai preteso nulla, se non amare e farsi amare.
A cura di Afrodita Carmen Cionchin
(n. 4, aprile 2023, anno XIII)
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