Vittorio Sereni: L’oltre della poesia, Pedro Salinas e Paul Celan

Bisogna anzitutto intendersi sul titolo di questa conversazione. Che cosa si è voluto indicare parlando di un oltre della poesia? La risposta potrebbe essere: si è inteso designare la poesia che va oltre sé stessa non cessando per questo di essere poesia o almeno di conservarne l’aspetto. In certi casi la premessa potrebbe essere addirittura un rifiuto della poesia in quanto valore a sé stante; in altri semplicemente il rifiuto di forme note e acquisite in vista di sostituirvene altre. Cade, nei casi più autentici, ogni aspetto di operazione letteraria e, in apparenza, la ricerca stessa di un risultato estetico. Il fine o l’obiettivo trascende i normali limiti di questo. L’operazione in taluni casi si pone come operazione spirituale in rapporto alla tensione di una particolare esperienza interiore; in altri ha o vorrebbe avere conseguenze sull’azione pratica fino a rivestire un peso e un significato politico. Nel primo caso un chiaro quanto inquietante ascendente è racchiuso nel nome di Rimbaud; nel secondo in quello di Majakovskij. Partecipa dell’uno e dell’altro aspetto, o ha avuto fasi della propria opera e del proprio agire in entrambe le direzioni, un poeta come René Char. Sono i casi in cui diventa più dubbia da parte del critico e del lettore l’applicazione di un metro strettamente estetico, in quanto il fine sembra estraneo ai mezzi apparenti e d’altro canto non può respingerne l’uso, cioè l’impiego dei mezzi che in un certo senso si vorrebbero abolire dopo averli distorti o stravolti. Pende su queste situazioni e segna il più delle volte la fine dell’avventura la minaccia del silenzio totale: oppure l’ombra del paradosso per cui, sia rispetto alla ricerca di una realtà sostitutiva sia rispetto al tradursi della poesia in un’azione capace di mutare la realtà, si sovrappone alla fine, una volta ancora, come realtà unica e superstite, la poesia. I due esempi che ho scelto questa volta sono Pedro Salinas da una parte, Paul Celan dall’altra, che hanno in comune solo l’oltranza delle rispettive esperienze, l’eccezionalità che per vie diverse propongono al lettore. Per il resto sono del tutto diversi sia in fatto di aree culturali e linguistiche sia per il tempo in cui la loro opera si è svolta. Della poesia di Pedro Salinas, madrileno, nato nel 1891, morto in esilio a Boston nel 1951, dice Vittorio Bodini, suo eminente traduttore in Italia, che essa rappresenta la favolosa proiezione nell’intimità più profonda, tanto da essere poesia non soltanto metafisica ma addirittura metapoetica. Nella traduzione di Bodini leggo una poesia a me molto cara fin da quando l’ho scoperta insieme ad altre nell’antologia dei lirici spagnoli curata da Carlo Bo nel 1941 per le edizioni di «Corrente»:

Io non ti vedo

Io non ti vedo. So bene
che tu sei qui, che sei dietro
una parete fragile
di mattoni e di calce, alla portata
della mia voce, se io ti chiamassi.
Ma io non ti chiamerò.
Ti chiamerò domani,
quando non più vedendoti,
penserò che tu sia
qui vicino, al mio fianco,
e che basti oggi la voce
che ieri non volli dare.
Domani… quando tu invece
sarai lontana, al di là
d’una parete fragile
di venti, di cieli e d’anni.

In un modo ancora semplice rispetto ad altre poesie si manifesta qui una costante della poesia di Salinas: l’abolizione dell’immediato visibile e sensibile nella tensione verso qualcosa che lo trascenda. Viviamo tra le apparenze, ci appassioniamo a esse, ne siamo dominati, conquistati, derisi, sopraffatti. La verità è altrove, possiamo percepirla attraverso gli indizi che le apparenze sono lì a rappresentare, spesso fallaci, tanto che è sul loro rovescio che dobbiamo cercare quanto importa e resiste o può resistere in noi. Si giunge all’essere passando attraverso l’esistenza a patto di riconoscere il sostanziale non-essere di questa; a patto soprattutto di sapere che niente di quanto ci sta davanti o attorno o a fianco è davvero posseduto da noi. Il vento che soffia in un film, in una storia da noi lontana quanto può essere quella che si svolge in una pellicola cinematografica, è più vero di quello che ci ha investiti direttamente poco fa, o tempo fa, nel nostro vivere momento per momento; ma vive nella sua lontananza, nella sua solitudine, è tanto più vero quanto meno è nostro. Così nella poesia che ha per titolo Far west:

Far west

Che vento a ottomila chilometri!
Non vedi come tutto vola?
Non vedi i capelli sciolti
dell’amazzone Mabel
che socchiude occhi limpidi
lei, vento, contro il vento?
Non vedi
la cortina tremante,
il foglio che mulina
e la solitudine violata
fra lei e te dal vento?
Sì, lo vedo.
Lo vedo e nulla più.
Quel vento
è dall’altra parte,
in una sera lontana
di terre che non calpestai.
E sta agitando dei rami
senza dove,
sta baciando le labbra
senza chi.
Non è più vento, è il ritratto
d’un vento che morì
ed io non lo conobbi,
e ora è interrato nel vasto
cimitero dell’arie
vecchie, dell’arie morte.
Lo vedo, ma non lo sento.
Si trova lì, nel suo mondo,
vento di cine, quel vento.

Nella poesia di Salinas si potrebbe ritagliare un canzoniere d’amore, essa è anzi quasi per intero un canzoniere d’amore. Ma, si badi, molto sui generis: all’insegna, vorrei dire di Marcel Proust. (E questa volta non è un caso che Salinas abbia tradotto Proust nella propria lingua.) Cioè: il misterioso «tu» al quale ci si rivolge sta alla fine di un processo di scomposizione, di scorpori, di spoliazioni della fisicità, di sostanziale ammissione che nulla, persona o cosa, si può veramente possedere. La morte attraversa la vita uccidendo gli attimi, le ore, gli anni che volta per volta ci hanno fatto credere di essere vivi.
La vita si ricompone alla fine, altrove, in un altro tempo, mediante una serie di sdoppiamenti. La si riconosce come tale solo attraverso successivi disconoscimenti di quanto sul momento abbiamo guardato, toccato, illudendoci di guardare e toccare, possedere qualcosa di vivo e di reale. Do qui un esempio estremamente suggestivo, della fase negativa del processo che ho tentato di descrivere:

Morti

Prima fu nella voce che ti scordai.
Se ora parlassi qui,
al mio lato,
domanderei: «Chi è?».
Poi fu la volta del tuo passo.
Se di carne ora nel vento
mi schiva un’ombra,
io non so se sei tu.
Tutta perdesti foglie a poco a poco
davanti ad un inverno: fu lo sguardo, il sorriso,
il colore dell’abito, il numero
delle scarpe.
Sempre più ti struggesti:
ti cadde via la carne, il corpo.
E mi restò di te, sette lettere, il nome.
Seguitavi tu a vivere;
tu, agonizzando disperatamente,
in esse, anima e corpo.
La tua ossatura, il contorno,
la tua voce, il tuo riso, sette lettere sole.
E dirle ormai, tutto quanto il tuo corpo.
Ho scordato il tuo nome.
Ora le sette lettere vanno divise,
non si conoscono più.
Passano annunzi sui tram; lettere
si accendono a colori nella notte,
vanno sulle buste e dicono
altri nomi.
Lì andrai tu,
già disfatta, dissolta ormai ed impossibile.
Andrai tu, andrà il tuo nome, che eri tu,
elevata
fino a cieli melensi,
in una gloria astratta d’alfabeto.

Passo ora (e mi si perdoni l’inevitabile schematismo) all’esempio positivo, o meglio ricostruttivo, di recupero:

Seconda vita

Sì, tu nascesti quando mi si cancellò
la tua forma.
Finché io ti ricordai,
com’eri morta!,
chiusa dentro i tuoi limiti.
Ti si poteva seguire
come su un atlante, chiarissima,
a nord
con la voce asciutta, boreale,
tepida, abbandonata, al sud,
sul litorale, il sorriso.
Vivevi, quanto basta,
nel tuo colore, i tuoi gesti,
chiusa fra le misure.
Ma un giorno di novembre,
lasciasti vuoti i tuoi atlanti,
si abolirono le tue frontiere,
sfuggisti al ricordo.
Eri ormai, senza i tuoi limiti,
persa nella non-memoria.
E dovetti inventarti
– fu nel secondo giorno –
nuova,
con la tua voce o senza,
con la tua carne o senza la tua carne.
Faceva lo stesso.
Eri ormai mia, incapace
di vivertene senza di me.
Sulle misure mie di dentro
ti andai inventando, Afrodite,
perfetta di tra l’obblio,
vergine e nuova, sorta
dall’obblio della tua forma.

Dunque, solo la poesia può dare o ridare realtà agli esseri? Nessuno, oggi, lo ripeterebbe e non so se Salinas si sarebbe speso in un’affermazione del genere. È da notare piuttosto quanto egli diceva – ed è quello che conta – sul movimento, sulla regola interna della sua poesia: «La poesia è un’avventura verso l’assoluto. Si arriva più o meno vicino, si fa più o meno strada, ecco tutto. Bisogna lasciar correre l’avventura, con tutta la bellezza del rischio, della probabilità, del gioco».
Ed eccoci a quello che sembra proprio un caso-limite se non il caso-limite in assoluto della poesia contemporanea. Paul Celan. Dico subito che non oserò nemmeno da lontano tentare di giungere all’essenza, al cuore della sua poesia. Mi limito a proporre il caso, abbastanza fresco in Italia, salvo che per gli studiosi di contemporaneistica tedesca. Una scelta in volume delle poesie di Celan è apparsa per la prima volta da noi nella collezione mondadoriana dello «Specchio» a cura di Moshe Kahn e di Marcella Bagnasco. Ma il nome e l’opera di Celan godevano già di fama europea, anzi mondiale. Celan, che ha dato fine prematuramente ai suoi giorni gettandosi nella Senna intorno al 16 aprile 1970, si chiamava in realtà Paul Antschel ed era nato nel 1920 a Cernovitz (Cernăuți) da genitori ebrei di lingua tedesca. Cernovitz è in Bucovina, cioè in uno di quei territori chiave che più hanno sofferto, tra caduta dell’impero asburgico, incorporazione nella Romania, occupazione nazista e successivamente sovietica, delle invasioni e delle deportazioni, insomma della tragedia che si è abbattuta sull’Europa nel secolo scorso. Aveva perso i suoi nei campi di concentramento, conosciuto i lavori forzati e quindi l’esilio prima a Vienna e infine a Parigi dove risiedeva stabilmente a partire dal ’48 e fino alla morte. Questi dati sono importanti non perché la valutazione dell’opera di Celan vada fatta alla luce di essi; ma perché sarebbe difficile e anche ingiusto non tenere conto del quadro che essi formano. Ha scritto un recensore: «suona ridicolo e blasfemo ripetere in continuazione il luogo comune dell’esperienza del lager nazista perché qui non affiora nemmeno l’ombra di una qualche denuncia... per le medesime ragioni va eliminato subito il discorso sulla sua condizione di ebreo. Il fatto che Celan si sia suicidato a Parigi pochi anni fa contribuisce alla ripetizione della prevaricazione autobiografica solo perché troppi critici o semplicemente i lettori non si sono ancora liberati da un’idea romantica della poesia». Ciò non toglie – dico io – che, se non dal suicidio, non si possa e non si debba prescindere dalla forte premessa costituita dai dati che ho riferito perché questi sono in relazione diretta sia col tipo di cultura sia col particolare e drammatico rapporto che l’autore intratteneva con la lingua da lui usata: il tedesco. Ce lo dice con molta chiarezza e con molta forza di persuasione Claudio Magris nell’introdurre un discorso riguardante tutt’altro libro: «Paul Celan, il poeta che proprio in questa settimana i lettori italiani stanno scoprendo in tutta la sua tragica ed ermetica grandezza, sapeva che la sua lingua madre, il tedesco, era la lingua degli assassini di sua madre, dei nazisti.
Fra le molte violenze scatenate dalla guerra mondiale c’è anche la perdita di ogni patria spirituale per milioni di uomini... interi gruppi di uomini hanno trasferito a migliaia di chilometri di distanza la propria lingua che non coincide più con quella della realtà che li circonda». Si ha cioè una duplice scissione avvertibile anzitutto negli scrittori: da una parte la lingua in cui ci si esprime non è più identificabile con quella della patria; dall’altra la lingua impiegata nella scrittura non è più quella usata nell’esistenza quotidiana. Continua Magris: «Questa scissione ha colpito soprattutto la grande simbiosi culturale ebraico-tedesca: l’esule o sopravvissuto tedesco o austriaco d’origine ebraica ha perduto per sempre la spontanea identità tra la propria lingua e il proprio mondo: anche se soltanto in quella lingua egli può continuare a dire il dramma del proprio mondo, anche se soltanto in quella sua lingua madre egli può continuare, come Celan, a dire il suo orrore per la lingua degli assassini di sua madre».
Questo è il quadro o se si vuole il movente esistenziale cui va riportata, come al suo sfondo naturale, la figura di Celan; ma va anche detto che un equivoco sulla sua arte può nascere nel ravvisare in tale quadro o movente l’oggetto costante ed esclusivo della sua poesia. Se mai lo è stato – intendo come oggetto e non come presupposto – lo è stato per intero una volta sola e in un certo senso una volta per tutte, in una poesia presto divenuta famosa tanto da infastidire, come spesso avviene, lo stesso autore giustamente in posizione di rifiuto al vedersi con insistenza rappresentato da un unico testo.
Il titolo di questa poesia è in italiano:

Fuga di morte

NERO latte dell’alba
lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino
lo beviamo la notte beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai
suoi mastini
fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda ora suonate alla danza
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria
là non si giace stretti
Lui grida vangate più a fondo il terreno voi e voi cantate e suonate
Impugna il ferro alla cintura lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare
alla danza
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti
Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco
lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell’aria
e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell’aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco
i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith

Ma per riportarci all’oggetto della conversazione, cioè all’oltre, all’oltranza del titolo dovremmo leggere altre e altre cose. Celan muove da un mondo frantumato, ma non si limita a dire di questa frantumazione. Si può parlare di una corrispondente disgregazione della lingua che egli usa, ma al tempo stesso occorre avvertire il flusso energetico che percorre tale disgregazione e vi immette per vie insolite una carica positiva. Soprattutto in casi come questo il metro del bello e del brutto, della poesia e della non poesia, si rivelano ben presto insufficienti, estranei alla natura dell’esperienza affrontata dall’autore. «Il fenomeno Celan» scrive un nostro valido germanista, Roberto Fertonani, «rimane un esempio irripetibile, un caso-limite dello sforzo della poesia moderna di liberarsi del valore semantico usuale, per collocarsi essa stessa a livello della realtà, di una realtà sempre più enigmatica, dove il vibrare del sentimento si perde senza eco nello squallore di uno spazio vuoto, privo di ogni luce di trascendenza. Tuttavia il Deus absconditus – nascosto perché inesistente – è figura onnipresente nel magma di una natura che trae le sue linfe dagli oggetti concreti, i quali hanno perduto il loro significato usuale per assumerne un altro, di metafora o di simbolo.» È il flusso energetico del quale vi parlavo. Anche più esplicitamente Peter Szondi, uno dei più autorizzati esegeti di Celan, afferma: «La poesia cessa di essere mimesis, rappresentazione, essa diviene realtà... testo che non segue più una realtà, ma si proietta esso stesso, si costituisce in realtà». Ho abbondato – e me ne scuso – in citazioni da altri senza dare altri esempi poetici. Ma di fronte al fenomeno che è la poesia di Celan si fanno più gravi le perplessità riguardanti la lettura non eseguita sul testo originale. Di Celan, di questo caso-limite, non ho voluto o saputo dare altro che una notizia appena appena orientativa, che tuttavia vuole essere un invito a cimentarsi col testo stesso. Sarebbe – o sarà – un’esperienza del nuovo, di quelle che ripagano a distanza, molto simile a quella da me compiuta a suo tempo, e di cui vi ho parlato, sull’Allegria di Giuseppe Ungaretti.


Vittorio Sereni
(n. 3, marzo 2023, anno XIII)



* Il testo è tratto da una conversazione di estetica tenutasi il 27 maggio 1980 presso la Fondazione «Corrente», edita in «Incognita», a.1, n.1, 1982, pp.47-62, e in «Poetiche», fasc. 3, 1999, pp. 331-351.