Silvio Guarnieri: Per un nuovo umanesimo

Nel 2022 ricorrono 30 anni dalla scomparsa di Silvio Guarnieri (Feltre, 5 aprile 1910 - Treviso, 28 giugno 1992), uomo di lettere, docente universitario, scrittore, critico letterario e d’arte che diede un notevole contributo alla vita intellettuale del Novecento, dall'esordio presso la fiorentina «Solaria» al decennio trascorso in Romania quale direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Timisoara, fino alle ultime opere pubblicate.

La ricchezza e la vitalità del pensiero di Marx sono comprovate non solo dal fatto che non vi è oggi corrente ideologica la quale non sia costretta a confrontarsi con esso, ma anche dalla molteplicità e dalla diversità delle posizioni assunte da coloro che ad esso si riferiscono, che da esso derivano. Ciò significa che le varie interpretazioni della nostra realtà attuale e le proposte a queste conseguenti, per la risoluzione della crisi da cui tale realtà, la società umana sono sommosse, trovano appiglio e convalida, quasi una necessaria premessa, in una o altra posizione in esso esemplata, in uno o in altro momento del suo lungo e complesso svolgimento.
Di queste diverse posizioni non possiamo non tener conto, anche se tra esse intendiamo fare una scelta precisa di quella che più ci convenga o ci convinca, in un dibattito il quale si propone come tema l’attualità dell’umanesimo. Poiché, se noi ammettiamo che la società attuale, la nostra civiltà occidentale, sono in crisi, ma che ancora ad esse non si contrappongono altre società, altre civiltà, radicalmente antagoniste, organate in proprie ben definite strutture realizzantisi in un diverso costume, capaci di una propria cultura, diversa e definitivamente superiore a quella precedente, tali infine da proporsi come esemplari tra vecchio e nuovo, tra ciò che lasciamo e ciò cui aspiriamo; ci si pone il problema di quanto, di che cosa della vecchia società, del vecchio costume, della vecchia cultura, si debba e si voglia salvare perché ancora validi, ancora recuperabili per la nuova civiltà; di necessità dobbiamo preliminarmente considerare se questo recupero non possa risolversi in una mistificazione; se ciò attraverso esso, implicitamente, magari inconsciamente, non ci si proponga di salvare e di riaffermare proprio ciò che della vecchia società, della vecchia civiltà era più caratteristico, ciò che più e meglio la improntava, la sua prima ragione, i suoi più intrinseci valori. Proprio quelli che la crisi attuale insidia, mette in dubbio, dichiara non atti a conformare e a reggere una nuova condizione umana.
In altre parole l’umanesimo e i principi dell’umanesimo, i valori umani rivendicati dall’umanesimo possono essere fatti propri da una società che si voglia conformare in democrazia socialista, o sono invece caratteristici e perspicui della società borghese dalla quale sono nati e della quale hanno sempre costituito la base di fondo, la prima giustificazione, i termini cui tale società si confrontava, che sempre teneva presenti per saggiare la propria coerenza, per controllare il proprio svolgimento?
Io credo che noi tutti siamo figli dei nostri padri, che ogni epoca è figlia della precedente, che la storia che ci ha portato sin qui, sino ad oggi, è lunga e che essa esiste ancora dietro a noi. E credo soprattutto che noi abbiamo il dovere di conoscerla a fondo, questa storia, in tutti i suoi elementi, senza farne una condanna indiscriminata; poiché una tale condanna, una tale volontà di assoluta e definitiva cancellazione di tutto il nostro passato potrebbero finire col porci in balìa di esso; poiché potrebbe avvenire che esso, proprio per le vie più strane e incontrollate, potrebbe infine riemergere in noi stessi proprio quando noi riterremmo di averlo soverchiato e distrutto.
L’operazione più onesta per la fondazione di una nuova società, di una nuova civiltà, di una nuova cultura si è quella di un continuo, attento confronto tra ciò che è possibile realizzare, fra il proposito concreto che ci muove nella realizzazione di tale società e ciò che del vecchio costume, della vecchia cultura ci appare conforme al proposito che ci muove e alle nuove possibilità. Si tratta di un’opera paziente, tenace, attenta, aliena sia da velleitarismi esclusivistici, sia da compromessi e da cedimenti. Anche se il passaggio dal vecchio al nuovo, dalla vecchia alla nuova società abbia ad essere rapido, improvviso, anche se esso abbia a realizzarsi per una via rivoluzionaria, io ritengo che molto lente e pazienti devano essere la fondazione e la realizzazione di una nuova società, e ritengo pure che ogni intervento intempestivo e brutale, volto a togliere all’uomo ciò ch’egli ancora considera a sé vitale, di cui ancora egli si nutre possa provocare in lui una reazione che ne impedisca o ne ritardi l’evoluzione, la sua emancipazione, il suo inserimento attivo nella nuova società. I limiti e la misura di un simile intervento devono essere calcolati nel modo più coraggioso sì ma anche più rispettoso della realtà degli uomini; così da aiutarli effettivamente a cancellare da sé quanto è ormai morto, quanto sta per morire, perché si sentano più liberi, per sé e per gli altri. E questi limiti possono e devono essere continuamente spostati in avanti nel senso della nuova civiltà, ma sempre dopo il sicuro controllo che quanto fu già realizzato è divenuto sicura e cosciente conquista per tutta la società.

Ora, se noi ci riferiamo ai principi dell’umanesimo, noi sentiamo che la forte accentuazione, che può apparire persino primaria in esso, di un’accezione individualistica, dell’individuo come depositario di una forza e di una capacità quasi divine o addirittura divine, che lo rendono capace non soltanto di dominare la natura, ma di emergere e di imporsi, di raggiungere con i propri mezzi un’eccellenza la quale può finire col dare una ragione alla sua volontà di distinguersi definitivamente e di dominare gli altri, deve per noi, a confronto di una società retta a democrazia socialista, non solo subire una rettifica, ma anche essere completata e svolta in un senso rispondente alle esigenze che vengono poste oggi da chiunque si proponga un rinnovamento della nostra società.
Insomma, quel principio che in una società cittadina italiana agli inizi della civiltà borghese poteva avere un suo ben valido significato di rottura, che poteva significare una conquista e un avanzamento anche nel senso di un riscatto delle capacità, della dignità dell’uomo, oggi, nella nostra società, nella società borghese, ma anche in una società socialista può acquistare tutt’altro valore, tutt’altro significato a quelli originari – e sono soprattutto quelli del respingere o del ritardare la promozione sociale, addirittura l’acquisizione di una coscienza di sé da parte delle masse lavoratrici, da parte dei più. O anche della deviazione, della distorsione di ogni loro più coraggioso e conseguente impulso di solidarietà.
Direi quindi che tale principio fondamentale dell’umanesimo deve da noi venire ricuperato svolgendolo secondo le nostre esigenze attuali: e cioè da un lato esso deve conservare tutta la sua validità per quanto significhi la difesa dell’individuo, della persona umana del suo diritto alla vita, a manifestarsi per quello che egli è – evidentemente sino a che tale suo manifestarsi, il suo esprimersi non si urtino, non contrastino con quelli degli altri, o meglio non impediscano e offendano quelli degli altri; ma d’altro canto esso deve dilatarsi in un senso che superi il vecchio concetto; la capacità, la forza, la ricchezza individuali a noi ora risultano tali quando non siano messi a servizio del solo individuo che le esprime, per suo unico vantaggio, ma quando esse diventino forza, capacità e ricchezza per molti, per tutti. E in tal senso pure, il rapporto è e deve essere reciproco, in quanto noi sappiamo, non possiamo dimenticare che a un certo momento un individuo può eccellere, manifestarsi in una anche splendida pienezza solo perché altri hanno operato e lavorato per lui, gli hanno offerto le premesse necessarie a tale esplicazione; nessun risultato individuale positivo nasce per l’esclusivo impegno o per l’esclusiva capacità di una persona; ma nasce dopo una lunga storia, per un comune apporto che in una persona trova la sua possibilità catalizzatrice, di espressione. E perciò appunto tale risultato, tale termine devono essere e divenire patrimonio di tutti; e l’individuo, cosciente di ciò, deve sentire come il proprio debito deva essere pagato, ch’egli deve essere portato, naturalmente portato, a ritrasferire agli altri quanto dagli altri ha avuto; deve sentire come il proprio risultato, il proprio successo devano immediatamente trasformarsi in un risultato e in un successo degli altri, validi concretamente per gli altri.
In tal senso direi che noi recuperiamo una duplice esigenza sempre manifestata dalla civiltà cristiana, ma dandole un’impronta che è assolutamente nostra, e cioè da un lato togliendo alla volontà della difesa della persona umana ogni elemento di commiserazione, di pietà, per rafforzare in essa la rivendicazione di una capacità e di un diritto di apporto positivo alla comunità, all’umanità da parte di ciascuno; dall’altro, sempre su questa linea, spostando il fulcro dell’iniziativa dall’individuo alla collettività, non per umiliare, non per smorzare ogni spinta, la vitalità individuale, ma anzi per privilegiarla nel senso di allargare e potenziare lo spazio della sua azione; per far sentire all’uomo come egli si esprima e possa esprimersi in tutta la sua possibilità solo attraverso gli altri, facendo sé rispondente agli altri e gli altri rispondenti a sé. Insomma tale concetto umanistico, fatto nostro, distaccandosi dal concetto cristiano, dall’umanesimo ricupera soprattutto la fiducia nella vita, la fiducia dell’uomo nel proprio destino umano, in quanto di umano egli può realizzare nella vita, nel suo mondo, per l’impronta umana ch’egli può dare alle cose del mondo.

E ancora direi che noi dobbiamo tradurre in termini nostri, attuali il principio umanistico dell’uomo partecipe della natura e dominatore della natura, nel senso che la natura per l’uomo conta, vale, esiste in quanto essa rientra nella sua vicenda umana, in quanto si fa umana, in quanto risponde a un’esigenza umana. Proprio in quanto l’uomo è natura, fa sempre parte della natura, egli tende a dare alla natura, a tutta la natura, la sua impronta umana, a indirizzarla secondo le sue attuali esigenze umane; e di essa conosce, di essa ricupera, di essa scopre quanto, positivamente ma anche negativamente, risponde a tali sue esigenze. Gli scacchi che egli subisce da parte della natura, la quale spesso pare improvvisamente di divenirgli ostile, sono scacchi ch’egli subisce da parte di se stesso, che egli ha reso possibili per la sua avventatezza o per la sua improntitudine, per essersi inoltrato sprovvedutamente per un cammino ancora a lui stesso incerto, e quindi per una sua non compiuta e non equilibrata valutazione delle proprie forze. Per noi la storia, che esiste nel senso di una ragione e di uno svolgimento, è storia dell’uomo, della natura che si è fatta uomo e dell’uomo che vuole farsi in un certo senso e che quindi vuole indirizzare la natura in un certo senso, tutta la natura, tutta la realtà, tutto l’essere.
Ma per noi, di necessità, rapporto con la natura significa rapporto con gli altri, con gli altri uomini, con la natura che si esprime attraverso gli uomini, che è negli uomini; e ogni allargamento e potenziamento delle nostre conoscenze, delle nostre capacità e delle nostre possibilità non sono che allargamento e potenziamento dei nostri rapporti con gli uomini, dei rapporti fra gli uomini. Il ricupero di qualunque momento, di qualunque elemento della vitalità dell’uomo, degli uomini, la conoscenza di essa, il darle fiato, possibilità di espressione, di realizzarsi e il rendere tale momento, tale elemento concordi o comunque in rapporto con gli altri uomini, con i nostri simili, rappresentano un più ampio, un più profondo ricupero all’uomo della natura, di una nuova parte della natura; ma anzitutto di una nuova parte dell’uomo, di un’energia, di una possibilità di iniziativa che erano latenti nell’uomo, che costituivano un suo patrimonio celato ma che, attraverso quest’operazione, diventano conquista concreta, elemento di civiltà, per arricchire e far progredire la civiltà di tutti gli uomini.
E quindi direi anche che le diverse concezioni del rapporto dell’uomo con la natura: quella dell’estraneità di una natura dominatrice dell’uomo, condizionatrice dell’uomo cui l’uomo si deve adattare e anche sottomettere, e quindi di un’esistenza e di una conformazione della natura al di fuori e al di là dell’uomo; e quella di una natura che può essere conosciuta dall’uomo, le cui leggi rispondono e sono comuni, o almeno in parti comuni con quelle dell’uomo, e che l’uomo indaga e tenta per trovare una via che gli permetta di rispondere ad esse, di innestarsi in esse, a proprio vantaggio, o almeno a propria difesa; e quella infine di una natura che l’uomo riesce non solo a conoscere, ma a dominare, almeno in parte a dominare, anche ad assecondare, e quindi a indirizzare nel suo senso, a far rispondere ai suoi fini, ai fini della sua intelligenza e della sua volontà; rispondono a tre momenti della storia umana. Le posizioni filosofiche, gnoseologiche rendono espliciti tre diversi modi di essere dell’uomo, il suo successivo affermarsi come uomo. E proprio in tal senso esse corrispondono a tre momenti successivi della civiltà umana, e quindi dell’organizzazione della società umana; esse perciò esprimono essenzialmente un fatto umano, di rapporti tra gli uomini. Un tale svolgimento, un tale progresso sono resi possibili, sono possibili solo se tra gli uomini si stabiliscono dei rapporti che li possono sostenere, se si crei una società che nella sua struttura renda possibile tale svolgimento e tale progresso, se ne appropri veramente, li faccia suoi, ne divenga depositaria, li senta come un proprio patrimonio, e in essa ciascuno li senta e ne senta ogni momento, ogni elemento come un proprio personale patrimonio, cui non possa rinunciare se non voglia rinunciare a se stesso.
È evidente che tale discorso, nella sua conseguenza, tende a mettere in evidenza la necessità di una società integrata, di una società cioè che risulti dall’integrazione di tutti gli individui tra loro e nella quale ciascun individuo possa essere integrato, al di fuori evidentemente da ogni costrizione, da ogni sopraffazione, da ogni violenza; per libera scelta; ancor più, direi per necessità iniziale, in quanto appunto ognuno sente di poter dare, di poter rendere il massimo di se stesso soltanto se partecipe di questa società.

Ora, di una tale società cui tendiamo, che comunque ci proponiamo di realizzare, esistono le premesse, esistono oggi le condizioni? E dove si pone con maggiore urgenza, con maggiore impegno un tale proposito? E dove esso viene mistificato, dove ad esso si sostituiscono soluzioni subdolamente devianti?
Ma a questo punto io non posso dimenticare la nostra condizione, di noi qui, oggi, radunati in questo convegno, per questo dibattito, provenienti dai più diversi paesi; di noi che ci definiamo intellettuali, che ci consideriamo scrittori; e che, forse proprio per essere scrittori, sentiamo con maggiore ansia e con maggiore preoccupazione come la risoluzione di questo problema ci si ponga quale premessa necessaria per il nostro lavoro, per restare fedeli al nostro compito; per fondarlo su di un terreno capace di nutrirlo.
Direi che in noi scrittori si fanno acuti e preminenti due momenti, due modi d’essere e di atteggiarsi, che evidentemente sono comuni a tutti gli uomini: l’uno è il testimoniare, l’altro è l’impegnarsi. Io penso che nessuno possa dichiararsi scrittore se non senta l’esigenza continua di rispondere, di far fronte e di mettere in evidenza in sé e l’uno e l’altro di questi momenti. Ora, oggi, tenendo presenti queste due pietre di paragone, questi che sono strumenti di un rapporto continuo e necessario dello scrittore con gli altri uomini, dove, in quale paese troviamo una società così organizzata, così integrata da permettere allo scrittore il suo pieno inserimento in essa, di tener fede cioè a quel suo compito, a quelle esigenze di cui è necessariamente portatore?
Se noi consideriamo i paesi dell’area occidentale, in cui ancora domina una società borghese nella sua espressione capitalistica e imperialistica, noi sentiamo purtroppo come in essa l’integrazione, e non solo dello scrittore ma anche dell’uomo, avvenga il più spesso con la violenza o, se non con la violenza, con la mistificazione; e dobbiamo dire che né l’uno né l’altro modo rispondono al nostro principio dell’integrazione. Come possiamo non renderci conto che gli scrittori più vivi, più validi, quelli che hanno lasciato una traccia più profonda in noi con la loro opera, diciamo pure con il loro messaggio, e sin dagli inizi di questo secolo, in Europa e anche negli Stati Uniti e nell’America Latina, restino soprattutto testimoni di una profonda lacerazione, di una drammatica disintegrazione, di un’alienazione che pare non possa essere superata? E ricordiamo i nomi di un Joyce, e di un Kafka, ma anche, più recenti, di un Camus, di un Beckett, di un Borges, di un Burroughs, anche di un Céline.
Ma, se anche, prendiamo in considerazione l’opera di quanti scrittori, nei paesi dell’Europa occidentale e dell’America, non raggiungono un tono così esacerbato ed esasperato, e paiono comunque avere stabilito un rapporto, aver mantenuto un dialogo con la loro società, con il loro paese, e ne vogliamo approfondire l’esame, ci rendiamo conto come perlopiù essa conservi, magari sommessamente, tacita mente, il segno di una profonda desolazione, della rinuncia e magari dell’umiliazione. E tanto è attuale e inevitabile la coscienza della disintegrazione nei paesi del capitalismo più avanzato che persino la letteratura strumentalizzata dall’industria culturale, quella solita ad assecondare le esigenze del pubblico più facile, alla ricerca dell’immediato successo, ha finito con il far propri quei principi dai quali più dovrebbe essere distante e ripugnante: quelli appunto dell’alienazione e della disintegrazione.
Ancor più; diciamo che, se questi scrittori ancora rispondono in modo magari allucinante, nell’esigenza di raggiungere e di rappresentare un ultimo termine, al loro compito di essere testimoni in essi si è spento, o è stato soffocato o è stato stravolto quello dell’impegno, quello di un’indicazione comune intesa a superare quella condizione negativa che è loro e della società in cui vivono. Addirittura può accadere che questi scrittori, o taluno di essi, finiscano con l’essere condizionati definitivamente dallo stato alienante della società in cui vivono, e ad un certo momento non riescano a vederne se non tale lato negativo, esclusivamente quanto in essa vi è di negativo; addirittura, e nel modo più doloroso, ch’essi ormai siano portati a esemplarsi la realtà, qualunque realtà, solo sotto tale aspetto, sotto tale modo negativo, condannandosi così a una desolata ripetizione, anche conculcando a sé stessi ogni propria più generosa spinta, ogni aspirazione e ogni speranza. E si veda in tal senso la posizione di quelli che noi oggi consideriamo i due più validi e rappresentativi scrittori del nostro paese, rappresentativi non solo di una condizione italiana, ma di quella che purtroppo è una condizione di tutto il mondo occidentale: Eugenio Montale e Carlo Emilio Gadda.
Infine, se noi consideriamo quanti scrittori, in ogni modo, nel nostro mondo, nella nostra società occidentale, hanno voluto mantener fede a un impegno, hanno voluto continuare a nutrire una fiducia in se stessi e negli uomini, la convinzione della possibilità di un intervento capace di mutare la società, di indirizzarla in un giusto verso, per una diversa via, noi dobbiamo constatare che essi sono di solito degli isolati: un Sartre, un Norman Mailer, un Enzensberger e quanti altri, nella loro presenza, nella loro lotta non sentono la possibilità di legarsi né ad un partito costituito nel loro paese, né – il che forse è ancor più grave, – comunque alle masse proletarie in esso, a quelle che dovrebbero essere il primo supporto, le prime portatrici di ogni volontà di un radicale rinnovamento; come se esse per uno o per altro verso risultassero ormai prive di ogni capacità e volontà di iniziativa, incluse, conglobate in un sistema che riesce a imporsi, a farsi accettare anche da esse.
Ancora, se vogliamo superare i limiti che sin qui ci siamo posti, se vogliamo considerare non solo l’opera degli scrittori, ma, più ampiamente, quella dei filosofi, degli artisti di qualunque arte i quali operino nel nostro mondo occidentale, non potremo non renderci conto come anch’essa rientri infine nei termini che più sopra ho cercato di mettere in evidenza. E per tutti si prenda l’esempio clamoroso e inquietante dei filosofi della cosiddetta scuola di Francoforte, di scrittori e saggisti tanto indicativi in tal senso quali Adorno e Marcuse.

D’altra parte, se veniamo a considerare l’opera e la posizione e di scrittori – e pure di pensatori, di artisti – del mondo occidentale i quali aderiscono e operano o hanno aderito e operato in uno e altro dei partiti della sinistra rivoluzionaria, ma soprattutto nel partito comunista, e mi riferisco a un Nazim Hikmet, a un Paul Éluard, ma più che ad altri a quello che resta per molti di noi l’esempio in tal senso più illuminante, a Bertholt Brecht; e pure di quelli che vivono e operano in uno o altro dei paesi socialisti – e penso a quanti noi consideriamo più vivi e stimolanti in tutti i sensi, a quelli che rispondono in modo più aperto e deciso a quelle due esigenze che più sopra ho posto, della testimonianza e dell’impegno – e possono essere un Tvardovskij come un Voznescenskij, un Solzenicyn come un Siniawskij, un Déry o uno Hlasko, ma gli esempi potrebbero essere molto più numerosi – noi non possiamo non avvertire loro, nei loro scritti non solo un disagio, un’inquietudine, ma addirittura una sofferenza che non sono e non appaiono occasionali ed episodici ma proprio connaturati, intrinseci alla loro prima spinta creativa, che la condizionano profondamente e continuamente.
E ciò ci risulta ancor più evidente se prendiamo in considerazione l’opera di pensatori, i quali si considerano marxisti, che intendono od hanno inteso agire nell’ambito del comunismo, portare un loro contributo al comunismo e che in tale loro azione, per la loro attività hanno incontrato e incontrano ostacoli e resistenze, le quali non possono non lasciare una traccia marcata nella loro opera – così per Ernst Fischer, per Lukacs, per Korsch, per Havemann, per Kolakovski, e anche per Garaudy.
Ma ancora è necessario dire che persino quegli scrittori, e vivano essi o no in un paese di struttura socialista, i quali sono tutti intesi all’affermazione e alla convalida di quanto là è stato raggiunto, nei quali appunto l’impegno esplicito a un certo punto persino forza o condiziona la testimonianza, o almeno sceglie la testimonianza più opportuna; quando, se pure a momenti, sentono il richiamo delle cose, la necessità di accogliere l’invito prepotente della realtà anche se essa non si inquadri, anche se non risponda al loro proposito, alla loro volontà dichiarata e convinta – come non solo un Neruda o un Aragon, ma anche uno Sciolokov e persino un Fadeev – improvvisamente e in un modo tanto più pateticamente disarmato, rivelano una loro intima condizione di ansia, di travaglio; insomma, quella necessità di dubbio e di ricerca che è e deve essere intrinseca alla condizione dello scrittore.
Pertanto, se volessimo trarre una conclusione affrettata e avventata da quanto abbiamo sin qui constatato, dovremmo dire a questo punto che oggi lo scrittore, l'intellettuale, quando sia vivo di una propria forza, quando senta l’esigenza dell’iniziativa, sia sostenuto dalla necessità dell’iniziativa, di portare un proprio contributo alla risoluzione dei problemi fondamentali della società in cui vive, in qualunque paese viva e operi – e sia dell’occidente capitalistico come in uno di quelli che si richiamano ai principi del socialismo – viene respinto da essa, o perlomeno da essa non viene accettato, è costretto a una posizione di disintegrazione, di alienazione.
Ma tale conclusione non terrebbe conto dì un elemento che, a volerlo ricercare con spregiudicata onestà, è sempre presente in tutti questi scrittori o pensatori di indirizzo marxista, che furono o che sono legati al movimento dell’estrema sinistra al partito comunista, che comunque riconoscono un proprio posto, un proprio legame con essi, in qualunque paese operino. Ed è che essi, nella loro opera, nonostante tutte le vicissitudini da essi vissute, nonostante le ripulse subite, nonostante le polemiche e gli scontri avuti con il partito cui appartengono o appartenevano, mai hanno rinunciato al loro impegno, mai hanno accondisceso ad atteggiamenti di rinuncia, di un pessimismo definitivo, mai hanno accettato una condizione di disintegrazione come emblematica e intrinseca alla loro professione di scrittori. E tale convinzione, tale che infine risulta una rivendicazione delle possibilità e della capacità dell’uomo di inserirsi e di contare, di poter portare un suo valido contributo nel tessuto della società, non è soltanto frutto di una natura, di un carattere personale, non si fonda e non trova il suo nutrimento soltanto in un atteggiamento e in una rivendicazione individualistici, addirittura di titanismo, ma affonda le sue radici in una bene sviscerata e approfondita ragione storica, e cioè nel riconoscimento che quanto sinora è stato costruito in senso socialista in taluni paesi, che quanto taluni paesi hanno realizzato in tal senso –nonostante i modi usati per tale attuazione, nonostante le distorsioni e le violenze cui essa ha portato, proprio per l’esigenza prima, proprio per la convinzione che sosteneva gli uomini prepostisi a tale compito, e proprio in quanto per esso si esprimevano un’aspirazione e uno slancio impliciti e ineliminabili dalla condizione umana, espliciti e urgenti nelle masse popolari – rappresenta una conquista per tutta l’umanità, per l’uomo, per la sua definitiva liberazione da uno stato di sfruttamento e di alienazione.
Così persino in casi limite, come quelli di un Solzenicyn, di un Siniawskij, di uno Hlasko, i quali possono apparire al margini o addirittura fuori della società socialista dalla quale sono nati, nella pur drammatica lacerazione che la loro opera rivela, si affermano non l’abbandono all’informe, non la rassegnazione e la sottomissione al magma e quindi la sfiducia nelle possibilità e capacità dell’uomo, ma una volontà dolorosa e accanita di superare una condizione pur considerata come negativa, infine il diritto dell’uomo di credere in se stesso e di realizzare se stesso, al di là dei limiti impostigli dalla realtà presente.
Perciò l’impegno di questi scrittori, dichiarato ed esplicito, o anche sottaciuto, anche esprimentesi nella concitazione, in una fremente rabbia stilistica, è necessariamente inteso ad ampliare e a svolgere le conquiste raggiunte dalla loro società, anche a demistificare quanto in essa è in contrasto con i principi del socialismo, infine a rendere effettivo e concreto quanto è implicito in essi, così da raggiungere un costume, da creare una civiltà.

Ed è a questo punto che devono innestarsi il nostro discorso e il nostro dibattito sull’umanesimo perché noi sentiamo che questi scrittori, nel loro impegno e nella loro azione, sono intesi a recuperare e ad affermare in una società socialista, nelle nuove società socialiste, i valori fondamentali dell’umanesimo, quelli che gli ultimi secoli ci hanno tramandato come conquiste ancor valide per la città umana; ancor più, necessariamente, questi scrittori, questi uomini di cultura, che intendono la cultura come fatto vivo, fatto creatore, intendono appunto svolgere, dare un ben più largo fondamento a quelle conquiste; in altre parole intendono far sì che quanto per le società dei secoli scorsi, e anche per la nostra società capitalistica occidentale, è conquista e patrimonio di pochi, e quindi finisce con il non esser il patrimonio di nessuno nella sua accezione più completa, diventa patrimonio di tutti. Essi operano insomma perché nei paesi che si intitolano al socialismo sia raggiunta una sempre più completa, sino ai limiti del possibile, integrazione dell’uomo nella società.
Evidentemente questi scrittori, questi pensatori, con la loro opera, con il loro disagio, anche con la loro denuncia, sono i testimoni di una integrazione ancora non realizzata nei termini che vorremo; nei termini che essi considerano poter essere raggiunti dalla società, nel paese in cui vivono; ma al tempo stesso, per quella loro implicita rivendicazione, essi ci indicano che, con loro e intorno a loro, altri uomini, direi addirittura le forze più vive e valide della loro società, nel loro paese non solo sostengono la loro ricerca, ma in uno o in altro modo la accompagnano, operano per darle un esito positivo.
A questo punto, proprio perché il loro travaglio e la loro fatica non abbiano ad essere ingrati e possano davvero tramutarsi in conquiste, in realizzazioni valide per tutti, in un senso socialista, ritengo sia necessario per loro, come per noi tutti che aspiriamo a considerarci scrittori, di rinunciare e di spogliarci da ogni attributo e da ogni qualificazione che mirino a individuarci come elementi appartenenti a un’élite, differenziati, messi in evidenza nei confronti del nostro popolo; di tutto il nostro popolo. Noi oggi abbiamo il dovere, nella nostra esistenza quotidiana, nella nostra attività quotidiana, di essere veramente partecipi delle condizioni di vita del nostro popolo, di condividerne le conquiste ma anche le difficoltà, i disagi, e di sentirlo quindi anche partecipe, come lo è, della nostra ansia verso una nuova condizione umana, nutrito di una forza ideale che talvolta non sa trovare la sua più giusta espressione, ma che per questo non è meno autentica e meno ricca, e che a noi spetta in ogni modo di catalizzare e rendere evidente a lui stesso.
Per questa partecipazione e per questa azione concorde, comune, per questa conquista quotidiana di nuovi termini, pur graduale e lenta e faticosa, e direi solo per esse, noi avremo posto la premessa necessaria per superare una nostra attuale condizione di non integrazione o di non completa integrazione, e avremo posto le basi prime, fondamentali per costruire una società che possa essere definita socialista non solo per l'’rticolazione delle sue strutture economiche, ma nel suo costume, nei suoi rapporti umani, nelle sue quotidiane abitudini come nel suo più profondo patrimonio culturale e di sentimenti.
Questo ritengo debba essere il nostro compito, di tutti noi; sia di quanti di noi operano in un paese del mondo occidentale, nei paesi di civiltà borghese capitalista, per sovvertirla, per un’azione rivoluzionaria, sia di quanti di noi operano in un paese che si intitola al socialismo, appunto per svolgere, per ampliare in essi la zona, le conquiste del socialismo. Ma a costoro forse compete compito più gravoso e importante, perché proprio dai risultati da essi ottenuti, da quanto essi con la loro testimonianza e il loro impegno, avranno realizzato insieme al loro popolo, dipenderà il nostro agire, il nostro progredire. La nostra raggiunta integrazione nella loro società, la riaffermazione dei rinnovati principi di un umanesimo innestato in una società socialista, nella quale l’umanesimo ha trovato il terreno per la sua più ampia e profonda affermazione, costituiranno un punto di riferimento valido, esemplare, per chi, come noi, ha ancora davanti a sé un lungo e certo ben difficile cammino per giungere a porre le basi di una società socialista.

Pisa, 1970


Silvio Guarnieri
(n. 6, giugno 2022, anno XII)