Pontiggia: manuale di resistenza all’arte

«Ho una resistenza tenace a visitare mostre.»: incipit  fulminante di un articolo scritto da Giuseppe Pontiggia per il «Corriere della Sera» nel 1995, raccolto ora nel volume dell’Isola volante (1);  è una dichiarazione chiarissima, apodittica: Pontiggia recalcitra davanti alle mostre; forse vedeva nell’ingresso delle sale espositive strisciare  quell’enorme pitone di stucco, con la pelle screziata di colori, che  il cugino  Ezio Frigerio, l’eroico Sandokan dei giochi salgariani giovanili a Erba, aveva assemblato  per il piacere di atterrire  un suscettibile personaggio del luogo. Quel serpentone edenico teneva fuori Pontiggia da mostre e rassegne, una sorta di monito acuito anche dalla stroncatura delle sue velleità pittoriche giovanili proprio da parte del cugino Ezio, futuro grande scenografo scaligero. L’episodio viene rievocato nel racconto Sandokan raccolto nel Residence delle ombre cinesi:
«Ezio allora genio in incognito della scenografia, aveva alimentato una mia vocazione immaginaria per le arti figurative. L’equivoco era nato dalle biografie romanzate di Raffaello, Michelangelo e Leonardo scritte per ragazzi da Luigi Ugolini, che mi avevano stregato intorno ai dieci anni». (2) Pontiggia, sotto quell’influenza prendeva a mazzate un masso in giardino per farne  scaturire un Prigione  michelangiolesco, oppure s’immaginava nelle vesti del Salaino  per sottrarre a un Leonardo compiacente  il segreto della sua pittura.
«Ezio aveva deciso che io fossi un pittore […] Lavoravamo insieme a un cartone della Deposizione. Ma quel Golgota – a metà tra la Passione dei Fiamminghi e la passione dei Fumetti – era in realtà una passione sua. E suoi erano i miglioramenti di cui attribuiva a me, con gioia contagiosa, la paternità.» (3) L’episodio viene raccontato e commentato in maniera assai più tranchant da Daniela Marcheschi nella prefazione al Meridiano: «L’‘opus magum’ di questo periodo è una Via Crucis a matite colorate e pastelli, che Ezio gli criticherà poi spietatamente, spegnendo ogni sua ambizione nel campo della pittura». (4) Ma questa precoce delusione dell’«artista in Erba» può essere vista anche come l’inizio della sua attività di scrittore: infatti il Peppo – tale l’affettuoso diminutivo che si sarebbe portato dietro per tutta la vita – incanalò diversamente le sue energie creative, dedicandosi alla stesura di un romanzo «alla Salgari».

Eppure come una vena carsica il rovello di tornare a dipingere riemerge in una delle Vite di uomini non illustri, quasi un balenio autobiografico, ma si sa: ogni scrittore trasfonde quel ramo di lago interiore nella scrittura romanzesca. Pontiggia racconta nella sua prosa personalissima l’impersonalità biografica di un uomo minimo, comune: l’insegnante di storia dell’arte Tornaghi Luigi. Attraverso una scansione diaristica in terza persona da registro di classe, l’insegnante scandisce Unasettimana sulla Loira, dove la sua vita prende l’abbaglio fortissimo di un innamoramento senile: «Scopre il 30 luglio del 1985, sul treno Milano-Parigi delle 23 e 11, di nascere in quel momento.» (5)
Lei è di trentacinque anni più giovane, e il professore è «travolto da un insolito destino» fra gli argini della Loira. Dopo la rapida chiusura del rapporto da parte della ragazza, il vecchio professore sente riemergere in quel fendente del distacco come un taglio di Fontana, la forza magmatica sottostante che suppura fra le labbra non suturate della ferita. Ma il professor Tornaghi è un uomo qualunque, il suo passato non è lavico, semplice è la ricerca dell’anima che non è in un baratro, ma in una pozzanghera, anzi nel cassetto di un armadio: «21 giugno 1986, a metà del pomeriggio, estrae dall’ultimo cassetto di un armadio la cartella dei suoi vecchi disegni. Crocifissioni, titani, nudi michelangioleschi, primi piani grotteschi, a carboncino. A distanza di trent’anni scopre che le influenze non solo si notano, ma che non si nota nient’altro. Si accascia nella poltrona di cuoio, mentre i fogli scivolano sul pavimento. Cosa aveva in mente? Chi era?» (6) Se il professor Tornaghi, nonostante l’esiguo esito artistico di quella vecchia Crocifissione, ritornerà alla pittura con risultati modestissimi ma vendibili, che lo rallegrano, Pontiggia lucido come il taglio di un laser  afferma: «E nell’arte, più che conoscere le alternative, è necessario scoprire la strada che le esclude.» (7) E lui le diserta; in un articolo su Van Gogh e Collodi – apparso sul «Corriere della Sera» il 7 gennaio 1990 e poi raccolto nell’ Isola volante – rivolge la sua penna acuminata contro la voga giornalistica degli anniversari, stigmatizzando l’assurdità di mettere assieme come un paio di buoi alla cavezza  il  suicidio  dell’artista olandese e la morte dell’autore di  Pinocchio , solo perché entrambi  sono defunti per puro caso nello stesso anno. Ma neppure una parola sarà sprecata sull’arte di Van Gogh. Nell’articolo Pontiggia trama una digressione su un nodo centrale della sua poetica: ammettere che rispetto ai classici, «noi» siamo gli inattuali, «perché siamo noi che ci industriamo di esistere, loro sono vivi». (8)
Interpellata, la moglie Lucia, la perla nascosta dei legami famigliari di Pontiggia, svela come il marito amasse Hopper ed Escher, di cui lo scrittore aveva visitato le mostre. In particolare, Pontiggia era attratto dai dipinti di Hopper, dove gli edifici – stanze, bar, distributori di benzina – sono così ostinatamente «cosali», come sempre appaiono nella pittura puntigliosamente quotidiana dell’artista americano, ma dove tutto si smarrisce. Poi c’era l’amore per le stampe giapponesi; «ne aveva acquistate cinque fra Hirosige, Taki Neguri e Yoshotoshi» prosegue Lucia Pontiggia «per una cifra considerevole ai tempi, nella galleria di Helena Markus, studiosa e specialista di arte orientale e specificamente nipponica. All’epoca questa galleria si trovava nel piano sotterraneo delle Messaggerie Paravia, una libreria vicina alla Chiesa di San Pietro all’Orto qui a Milano. Ci passavamo di fronte per andare alla sede della casa editrice Adelphi dove Peppo era consulente.» Lucia prosegue condendo il riferimento con un filo sottile di ironia: «Peppo di certo non si lasciava sfuggire un piano di quella libreria, neppure il sotterraneo! Ed è qui da Helena Marcus che abbiamo comperato le cinque stampe giapponesi.»

 Certo in Pontiggia non mancano le citazioni esemplari di Raffaello o Leonardo, come quando con un lampo aforistico lo scrittore scrive della Gioconda: «Il mistero del (suo ndr.) sorriso è diventato il sorriso del mistero. Un volto rassicurante, un’espressione famigliare. Niente come la soluzione dell’enigma lo nega.» (9); o Rembrandt, di cui nel 1944, per festeggiare il suo decimo compleanno, il fratello Gianpiero gli donerà un corposo e costoso volume illustrato; nell’epoca in cui i due fratelli leggevano a man bassa Salgari, la scelta di regalare  un volume d’arte è indicativa.
Passano poi da una cruna di un ago alcuni nomi di artisti contemporanei di cui Pontiggia parla: primo fra tutti Salvo.
È un interesse guardingo e pieno di cautela quello del primo appressamento a Salvo. Lo scrittore ce lo racconta nella Biblioteca di Salvo, il suo scritto nel catalogo Salvo-Archeologie del futuro edito da Mazzotta nel 1993.  L’artista Salvatore Mangione, che come un supereroe affronta l’arte con il nome di battaglia, Salvo, invia a Pontiggia il catalogo di una sua mostra che si tiene a Lucerna e Lione nel 1983, accompagnata da una letterina dallo spirito ironico e corrosivo: «Egregio Sig. Pontiggia, certi amori, si sa, non solo non sono ricambiati, ma nemmeno mai dichiarati; io elimino questa seconda ipotesi inviandole questo, fresco di stampa, mio catalogo. Mi piace immaginare che l’interesse, l’emozione che ho provato per i suoi scritti, Lei li possa provare per i miei quadri. Salvo». (10)   Pontiggia rimane perplesso di fronte alla punta scanzonata della dedica: «Allora avevo una reazione abbastanza confusa; il momento in cui avviciniamo per la prima volta un autore non è affatto così limpido e trasparente […] Il nuovo scatena violente quanto occulte difese […] il consenso […] si accompagna a una certa resistenza, a una perplessità divisa tra attrazione e dubbio.» (11) Eppure dopo lettere e telefonate l’incontro avviene e il rapporto  fra l’artista e lo scrittore si corrobora proprio nella gaia scienza  che li accomuna: il piacere di collezionare libri. Pontiggia rammenta le loro passeggiate fra i bouquinistes di Torino, dove il siciliano Salvo risiedeva: «Ho scoperto il suo interesse maniacale per i libri. Ritrovo nei suoi occhi cupidi, luccicanti, mentre sfoglia rapidamente un libro estratto dallo scaffale, lo sguardo concentrato e mobile , irrequieto e fulmineo del vizio  che ci unisce.» (12)
Quattro gli aggettivi di Pontiggia per descrivere l’attacco repentino; eppure, meditato in modo maniacale di chi è posseduto dal vizio assurdo del bibliomane.  Conscio dei pericoli, Pontiggia cerca di porre argini alla follia di Salvo, ma non ci riesce, rimanendo però ammirato delle cifre esose che l’artista sborsa per rifornirsi di «roba letteraria», tanto da cementare il legame  di complicità con Salvo in  una chiosa  araldica: 
«Amare i libri significa dilatare il futuro». (13)
E così Pontiggia parla dell’arte di Salvo solo incistandolo nella propria poetica letteraria, come accadrà presentando l’arte di  Emilio Tadini e Giampaolo di Cocco, assorbendo gli artisti per i canali linfatici della letteratura.  

 Il rapporto di Pontiggia con Salvo  trova un’ affinità di poetica nella scelta controcorrente , quasi scandalosa dell’artista , di tornare ai pennelli e alla classicità nell’epoca dell’ arte concettuale e povera  fra anni’70 e ’80, in cui aveva esordito come artista.
«[…] alcune sue opere mi colpivano; certi paesaggi urbani notturni, di un realismo fiabesco, certi paesaggi di un esotismo familiare, che accostavano cubi e minareti, flora mediterranea e piante di mostruosa vitalità, capaci di viluppi tentacolari quanto dominati dalla simmetria e dall’ordine;» scrive Pontiggia nel catalogo « e soprattutto le rovine dei templi greci, senza elegie archeologiche e caducità degli antichi imperi , ma un’estasi incontaminata del presente tra albe acriliche e tramonti visionari.» (14)
Paesaggi dai contorni netti custodi di un segreto che guarda al passato, colori zenitali senza ombre.   La bellezza della pittura classica mossa da un’anima contemporanea.

Immagine che contiene arte, dipinto, disegno  Descrizione generata automaticamente
Salvo, Paesaggio con rovine, 1984 (dall’Archivio Salvo)

Come non risentire nella scelta à rebours di Salvo la lezione fondamentale di Pontiggia  nel suo saggio I Contemporanei del futuro? Anche lo stesso titolo della mostra di Salvo, Archeologie del futuro, allude alla grande modernità di una tradizione che corrobora ancora la posterità.
Elena Pontiggia, la storica dell’arte di solidissima formazione, nipote di Giuseppe, così puntualizza  in una nostra chiacchierata questo parallelismo  di  scelte: «Il  passaggio di Salvo dal concettuale (con aderenze all’arte povera) al figurativo presenta  analogie con il ritorno al romanzo da parte di mio zio, dopo la fase sperimentale derivata dall’adesione al Gruppo 63. Per lui è stata una forma di riacquisizione della leggibilità; la sfida era mantenere la complessità di significati attraverso la ricerca di un linguaggio che non fosse banale, ma chiaro e semplice: un riavvicinamento  a  espressioni  classiche,  al piacere del testo,  recuperando una  scorrevolezza che toccava  la  profondità. Vedo in questo recupero del canone, contro l’imposta canonicità della sperimentazione, un chiaro parallelismo con il ritorno al figurativo di Salvo.»

Nel 1989 Pontiggia dedica a Salvo il capitolo XXVII capitolo de La grande sera.
Siamo quasi all’epilogo del romanzo, c’è un sentore di miseria umana che appesantisce l’atmosfera noir dell’incontro fra Bonghi, il bulimico detective alla Nero Wolfe e il «faccendiere» Colleoni: l’appuntamento è fissato presso la mostra di Salvo allestita alla Rotonda di via Besana a Milano.  «Quando Colleoni accaldato entrò nella Rotonda luminosa, con le finestre circolari in alto e i quadri di Salvo appesi alle pareti, cercò l’uomo che gli aveva dato appuntamento davanti al quadro Notturno 1979» (15)
Niente di meglio di quel preciso senso di vuoto del Notturno di Salvo, per caricare la situazione di suspense; ma Pontiggia non resiste e demolisce la trama opaca con   la zampata ironica, affidandola a una osservazione di Bonghi; il detective invita sottovoce  Colleoni a uscire con lui dalla mostra; secondo le  migliori  tecniche giallistiche  di depistamento, gli dice di camminare indifferente, distratto «a meno che… lei non voglia visitare la mostra.»
«No», rispose Colleoni impacciato. «Non sono un esperto.»
«Peccato» rispose Bonghi, aggirando una copia di turisti. «È un grande pittore.» (16)
La vertigine satirica è raggiunta nel capitolo dal titolo esplicativo La natura ristrutturata, che Pontiggia dedica alla passione «up to date» per il design sfoggiata dalla moglie di Terragni, il potente finanziere, mente nera degli intrighi economici del romanzo e creatore di un decalogo per il perfetto gaviale in agguato nelle paludi dell’alta finanza, la cui caratteristica sovrana doveva essere «la stupidità intermittente.» (17)
«Quella casa era stato un dono (di Terragni ndr) per sua moglie, innamorata del cosiddetto stile rustico, cioè del modo di sopprimerlo.
Un architetto era stato incaricato della ristrutturazione., termine che sta alla conservazione dell’ambiente come l’imbalsamazione alla sopravvivenza degli animali. […]; i punti dove l’architetto aveva dimostrato polso e gusto erano la stalla trasformata in una biblioteca definita «a misura d’uomo», perché i libri erano afferrabili anche da persone di piccola statura. […]

Anche  i bagni venivano presentati distrattamente agli ospiti con quel lessico mondano che trova il suo culmine in aggettivi come simpatico e delizioso , usati indifferentemente per un inginocchiatoio del Seicento o un planetario , una lucerna romana o una radio a galena.» (18) . L’ordinarietà è messa alla berlina da Pontiggia, il suo è un bersaglio etico contro chi conosce il prezzo di tutto e il valore di niente. Al ridicolo e cialtronesco pavoneggiarsi nella ricchezza fanno da contraltare le malinconiche osservazioni sulla vacuità e corruzione dei personaggi protagonisti, che Daniela Marcheschi definisce «maschere sfaccettate della solitudine odierna». (19)  E così Pontiggia nella Grande Sera paragona grottescamente l’ambigua sparizione del protagonista e la discesa nel maelstrom fra mediocrità e sotterfugi di tutto l’ambaradan di mogli amanti amici colleghi alla Zattera della medusa di Gericault (20).  
Con acutissima sensibilità Pontiggia punta il dito molto in anticipo contro quella riduzione della persona a una sola dimensione, quella dell’apparire pubblico, oggi ancor più conclamata nel proliferare di identità multiple: dai profili virtuali su Facebook, TikTok, Instagram, alla fantasmagoria di zombie che danzano nell’Intelligenza artificiale e nel metaverso, che ha preso il posto dell’universo. È questa perdita di spessore delle cose che contano a spingere Pontiggia a cercarne le cause anche nel mondo dell’arte. Scrive nel Giardino delle Esperidi:
«I greci credevano agli dei perché li vedevano. Quando si credette alla vista interiore la si chiamò fede. Ma tra i moderni, i ‘veggenti’ sono soprattutto quelli che vedono il vuoto. E nella civiltà dell’immagine al vedere si è sostituito il rivedere: l’imprevedibile, in cui dovrebbe condensarsi l’esperienza, viene ridotto a una immagine da aggiungere alle altre, in una collezione la cui caratteristica sembra la varietà, mentre è solo ripetizione.» (21)
Ecco perché Pontiggia teme le mostre d’arte: perché avverte che l’arte dovrebbe essere irrimediabilmente, inguaribilmente dotata di una forza dell’immaginario, dell’irrealtà. L’irreale non è meno reale del Reale, perché è l’insieme della tradizione, dei miti classici che rinascono; è la «scatola nera» sopravvissuta alla catastrofe che ci rende in grado di reinterpretare il presente. «Penso a mostre impossibili» scrive Pontiggia «in cui non solo interrogare i morti, ma rispondere a loro. In cui avvicinarli come si avvicinano i vivi, con insofferenza, con amore, con invidia e speranza. Come avviciniamo i morti in quelle mostre segrete che percorriamo dentro di noi.» (22)



Silvia Tomsi
(n. 7-8, luglio-agosto 2023, anno XIII)



NOTE

1. G. Pontiggia, Le allucinazioni delle mostre in L’isola volante, Pontiggia Opere, Meridiano a cura di D. Marcheschi, Mondadori Milano, 2004, p.1467.
2. G. Pontiggia, Residence delle ombre cinesi Mondadori, Milano 2004p.40-41.
3. Ivi, p.42.
4. D. Marcheschi, La letteratura in «Prima persona» di Giuseppe Pontiggia, prefazione a Pontiggia Opere cit, p. LXXII.
5. G. Pontiggia, Una settimana sulla Loira sta in Vite di uomini non illustri, Pontiggia Opere cit., p.1272
6. Ivi, p. 1286.
7. G. Pontiggia, Residence delle ombre cinesi, cit., p. 43 
8. G. Pontiggia Van Gogh e Collodi, articolo sul «Corriere della Sera» il 7 gennaio 1990, raccolto nell’Isola volante, Mondadori, cit., p. 1457
9. G. Pontiggia, Borges e la Gioconda in L’isola volante cit., p. 1303.
10. Salvo-Archeologie del futuro, mostra a cura di R. Barilli1993, cat. Mazzotta, Milano 1993, p. 57.
11. Ibid, p. 57.
12. Ivi, p. 58.
13. Ivi, p. 60.
14. Ivi, p. 58.
15. G. Pontiggia, La grande sera, Mondadori, Milano 1989, p. 287
16. Ivi, p. 288.
17. Ivi, p.73.
18. Ivi, p. 305-306.
19. D. Marcheschi, La letteratura in «Prima persona» di Giuseppe Pontiggia,cit., p.  XLVIII
20. G. Pontiggia, La grande sera, cit., p. 196  
21. G. Pontiggia, Il Dio ignoto della letteratura fantastica, in Il giardino delle Esperidi, Mondadori cit, p. 694.
22. G. Pontiggia, Le allucinazioni delle mostre, cit., p. 1470.