Ci aspetta nel futuro. La parresia di Lorenzo Milani nel discorso del 1962
Pubblichiamo il secondo numero dedicato a Don Lorenzo Milani (1923-1967), il parroco ‘scomodo’ di Barbiana, in cui Sergio Tanzarella, ordinario dal 2009 di Storia della Chiesa alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, e dal 2007 docente della stessa materia all’Università Gregoriana, commenta il primo dei tre discorsi presi in considerazione, quello del 1962, dove Don Milani si sofferma sull’importanza di elevare l’italiano povero dei parrocchiani nel ricevere la predicazione evangelica: «Non è il muro di una lingua diversa, ma il muro della mancanza di parole comprensibili». 1. Un missionario in un paese straniero Dopo la premessa, consideriamo tre frammenti di tre registrazioni di Milani. Con il primo siamo nel gennaio del 1962, Milani si trova Barbiana dal 1954, ha lasciato San Donato di Calenzano dove aveva operato come cappellano dal ’47 al ’54: è stato così scomodo e così controcorrente che, invece di confermarlo successore del parroco don Pugi viene mandato via. I benpensanti di San Donato si sono uniti con dei preti delle zone vicine e hanno imposto alla curia di allontanarlo. Fu così che fu mandato a Barbiana. Sale quindi a inizio dicembre del 1954 in questa frazione sperduta dove non esisteva la strada e che non era nemmeno segnata sulle carte geografiche. È un provvedimento chiaramente punitivo, di isolamento totale. Una vera e propria sepoltura perché non nuocesse con quella sua parresia e con quella sua idea di formare le coscienze nell’Italia del collateralismo politico e della continuità padronale industriale e agraria dal fascismo alla Repubblica. Nonostante ciò si mette a lavoro creando una piccola scuola per i figli dei montanari del monte Giovi, per quelle famiglie che ancora resistevano e che non avevano trovato l’occasione e la possibilità di scendere al piano. Contemporaneamente aveva continuato al lavorare e perfezionare le Esperienze pastorali, diventato ben presto un caso nazionale soprattutto quando, nel dicembre del 1958, il Santo Uffizio interviene e chiede il ritiro dal commercio del libro: un provvedimento minore, certo tenue rispetto all’essere posto all’Indice. Infatti, non poterono fare nulla contro quel libro perché dal punto di vista dottrinale era inattaccabile e allora il provvedimento si limitò a stabilirne l’inopportunità, e si chiese all’editore di ritirarlo. Pur se giudicato soltanto inopportuno il provvedimento contro il libro si abbatté su Milani come una valanga. Nella Chiesa italiana dell’epoca anche tali provvedimenti minori marchiavano per sempre chi ne era colpito. Ma grazie a questa persecuzione del suo libro il caso interessò a lungo la stampa e Milani e le sue Esperienze pastorali furono molto conosciute e dibattute nell’Italia del pre Concilio. Così nell’inverno del 1962 Milani fu invitato a Firenze, la città dove era ancora sindaco Giorgio La Pira, dall’assessore alla Pubblica Istruzione Fioretta Mazzei che di La Pira era stretta e devota collaboratrice divenendo poi la sua biografa ufficiale [1]. Milani sostiene che non deve abbassarsi al livello dei suoi parrocchiani, ma che deve fare in modo che loro si alzino al suo livello, e dunque si deve impegnare per promuovere la loro liberazione. Ma come? Fornendo loro le parole che gli mancano. Non deve dimenticare le parole che sa, ma dare a loro le parole che non hanno. Questo è un passaggio decisivo, ci aiuta a capire qual è la scelta pastorale che ha sperimentato Milani sin dagli anni di San Donato, scegliere se far arrivare i parrocchiani al suo livello, o abbassarsi al loro linguaggio per non dire più cose alte. Già in Esperienze pastorali Milani aveva osservato questo vocabolario ridotto a un numero esiguo di parole al più capaci di intendere la Gazzetta dello Sport: «Leggere e intendere la Gazzetta è frutto di una “cultura” meccanica, limitata a formule e vocaboli convenzionali e specializzati. Formule e vocaboli che non aprono tutte le porte e soprattutto che non aprono porte elevate». [4] Quando a San Donato di Calenzano si trova a predicare si accorge ben presto che le persone che lo ascoltano così attente e comprese non hanno capito nulla di ciò che dice, constata quindi che fra lui e loro c’è un muro. Non è il muro di una lingua diversa, ma il muro della mancanza di parole comprensibili: «Fai conto che qui io mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato loro la parola? I missionari dei sordomuti non fanno così. Fanno scuola della parola per anni e poi dottrina poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale». [5] Nel discorso del 1962 riprende questa considerazione: «Dal punto di vista proprio di parroco, ho l’incarico di predicare il Vangelo. Predicare in greco non si può perché non intendono. Sicché bisogna predicarlo in italiano. Resta da dimostrare che i miei parrocchiani intendano l’italiano. Questa è quella cosa che io nego. Quantunque i miei parrocchiani siano toscani, quantunque usino espressioni dantesche ogni poco, non sono capaci di un discorso lungo, di un discorso complesso, di una lingua che non sia quella che serve per vendere i polli al mercato di Vicchio il giovedì […] Una lingua così povera non è assolutamente sufficiente per ricevere la predicazione evangelica». [6] Ecco la necessità della scuola popolare a san Donato di Calenzano prima e a Barbiana poi. Rendere possibile l’annuncio facendolo diventare innanzitutto comprensibile. Lo spiega con chiarezza Milani «Ecco perché io ho iniziato il mio contatto con la grammatica italiana nella scuola e alla fine è successo, mi è successa la disgrazia di innamorarmi di loro personalmente e quindi poi ora mi sta a cuore tutto quello che sta a cuore a loro. Ecco perché questa scuola poi è diventata una scuola diciamo così laica, severamente laica, nel senso che, partito con l’idea di fare della scuola il mezzo di intendersi e di predicare, poi in questa scuola gli ho voluto bene ed ora mi sta a cuore tutto di loro, quindi perfino l’aritmetica che a me non piace, tutto quello che per loro è bene». [7] Emerge dalle parole di queste citazioni l’itinerario seguito da Milani nei vent’anni di ministero. Esse spiegano, ben prima di una Lettera a una professoressa, il senso del far scuola, di una passione profonda, di un amore né generico, né universale ma che è rivolto al piccolo gruppo di coloro che gli sono affidati. Milani rifiuta la logica perversa del cuore indiviso affermatasi in gran parte della spiritualità cristiana sostenendo, molto giustamente, che con la scusa di amar tutti si finisce per non amare realmente nessuno. Ma contemporaneamente rifiuta già allora l’interpretazione di ciò che sta facendo a Barbiana come un miracolo – definizione che molta pubblicistica dopo la sua morte utilizzerà per edulcorare e fuorviare l’attenzione dal tema centrale della parità sociale che Milani afferma essere la motivazione profonda dei suoi studenti:
2. Una condivisione profonda si realizza solo innamorandosi ed evitando i misticismi devoti Se non c'è l'amore, l'innamoramento, la condivisione può essere soltanto un impegno di buoni propositi e di parole, un sentimento tranquillizzante, vago e anonimo. Aggiungo che per Milani non esiste l'amore universale e che lo considera un errore gravissimo. Certo, siamo chiamati ad amare tutti, ma questo si può fare solo genericamente. Ma quante sono le persone che possiamo o dobbiamo amare realmente? Poche decine, qualche centinaio, ma quelle dobbiamo amarle sul serio. L'amore universale diluisce tutto, alla fine si finisce per non amare nessuno. Non si può dire di amare una persona che non si vedrà mai: è certo molto semplice, ma amare chi mi sta accanto è molto più complicato ed esigente. Ma il compito è quello perché si realizzi una condivisione profonda. Continua ancora: «Il loro bene è fatto di tante cose: fatto della preparazione politica, sociale, religiosa, di tutto: della salute, di tutto quello che voi fareste e fate per i vostri figlioli, né più né meno». [9] Sarebbe stato certo sufficiente a lui prete limitarsi alla preparazione religiosa e invece va molto oltre. Quei bambini che andavano a scuola nei locali attigui alla chiesa di sant’Andrea a Barbiana erano realmente figlioli e lui voleva il loro bene come salute, formazione politica, sociale e religiosa, senza quelle pericolose scissioni tipiche di certo spiritualismo devoto e disincarnato che si vanta di tenersi a distanza dalla realtà. «Ora c’era, sempre in questa premessa anche la possibilità che tanti miei confratelli hanno scelto di carattere diciamo così mistico, ma è da escludersi per un parroco; si potrebbe soltanto pregare, ma io lo escludo, io non faccio il certosino, io faccio il parroco, trovo l’ostacolo della lingua e alla lingua mi dedico, considerando lingua tutti i problemi della scuola, da capo a fondo» [10].
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