|
|
Possibilità progettuale e coscienza del limite: il valore di un’etica in Giuseppe Pontiggia
Il Giuseppe Pontiggia critico non è meno interessante dello scrittore. Non solo, l’uno e l’altro si completano in una riuscita solidarietà degli stili. Lo mostra un’opera come Il Giardino delle Esperidi (1984), raccolta di saggi in cui diverse «modalità della critica» sono ripensate, come rilevato da Daniela Marcheschi che ne ha curato l’opera omnia, proprio grazie all’esperienza dello scrittore. In questi scritti infatti – dove l’incontro con gli autori classici e moderni a lui più cari è non di rado funzionale a una critica di usi, di costumi, del linguaggio della società a lui contemporanea – si innestano molte forme e tecniche narrative quali l’aforisma, il montaggio e rimontaggio, al fine di mettere meglio a fuoco gli elementi di indagine. Abbiamo scelto di commentare due testi: Il sole interiore e La vita «come se» [1]con i quali risulterà anche evidente come la consapevolezza della morte – il mito delle Esperidi fa riferimento proprio al rapporto vita-morte – ritorni come motivo e rappresenti, nelle sue variazioni, la possibilità di ripensare la vita nel segno di una costante progettualità.
Con Il sole interiore Pontiggia ci dà una lettura dei Paradisi artificiali (1860) di Baudelaire, osservandone l’originalità rispetto ad altri autori: De Quincey, Michaux, Benjamin, Daumal, Burroughs ecc., che come lui hanno raccontato l’esperienza di alcool e droghe, ma senza aprirsi al quesito etico. I paradisi artificiali sono per Baudelaire soprattutto quelli dell’oppio e dell’hashish: ampliano i poteri percettivi, accrescono le «facoltà vitali», dando persino l’idea di un «superamento dell’umano»; un viaggio all’interno delle proprie percezioni intensificate per conoscerne il potere, affinché l’individuo si riveli a sé stesso. Finito il momento dell’estasi l’individuo, infatti, non ritroverà che sé stesso. Non si tratta di una «metafisica sperimentale» come per Daumal, o di «allucinazioni visionarie» come per Michaux né tantomeno Baudelaire si addentra in questioni scientifiche relative alle alterazioni dei sensi come fa Benjamin. Si tratta di conoscenza. E di qualcosa di più ampio persino rispetto all’argomento. Conoscenza del peccato, del male che esercita la propria forza nella vita di un uomo, conoscenza che mette l’uomo nella condizione non solo di ripensare, ma anche di reinventare le leggi della sua stessa libertà per non rinunciare alla creazione del possibile, nella coscienza del limite.
Nell’accostamento dei contrari che compie Baudelaire, “paradisi artificiali”, Pontiggia individua proprio il valore del limite, ed è qui che si apre la possibilità di uno spazio etico. L’aggettivo artificiale accanto a paradiso – «spazio di perfezione delimitato e chiuso», nel suo significato originario – ne riduce la portata, proprio là dove tale significato è declinato nel segno di una inevitabile caducità. I paradisi artificiali rappresentano così una dimensione ripiegata di perfezione che non dispiega il miracoloso ma riconduce gli stessi fenomeni soggettivi, ancorché amplificati, sempre alla loro origine. Non sfugge, l’uomo, in altre parole, alle proprie caratteristiche fisiche e morali: in fondo ad ogni illusione di perfezione ricreata non troverà altro che il «medesimo uomo», leggiamo già in Baudelaire. La ricerca di questa apparente felicità è allora infantile, un’esaltazione dei sensi che mina la volontà, rivelando il peccato di «superbia dell’uomo», il male; ma allo stesso tempo, ci dice Pontiggia, è proprio in questa coscienza del male che si manifesta «lo spirito religioso e cristiano» di Baudelaire: nella «nozione del peccato quale violazione di un ordine naturale originario e nella sua percezione di un inferno che […] perseguita, con il suo fuoco interiore, su questa terra» gli uomini, dannandoli. Baudelaire nel compiere questa operazione mostra come una visione artificiale sostituita a una visione naturale, nel tentativo di sopprimere (attraverso la ricreata perfezione) l’idea di peccato originale, non riesca in realtà ad eliminarne le tracce, piuttosto lo rafforza. In un discorso religioso cristiano, il male va assunto allora come rischio. La coscienza del male è per Baudelaire possibilità di ripristinare un’unità coerente dell’esperienza, di crescere con essa, di restituirle la propria misura. È interrogata come possibilità di riprogettazione, di libertà, di civilizzazione, come si osserva anche in Mon coeur mis à nus (1897). Quando Baudelaire, nell’indagine che fa della storia, sostiene che i due elementi contrari fatalità e libertà sono in realtà riconducibili a una sola volontà, ci dice che la libertà è responsabile in parte di ciò che si vuole identificare con il solo senso di fatalità. Quel che Pontiggia in due semplici parole definisce spazio etico è pertanto lo spazio in cui si inscrive la libertà come possibilità: di progressione, conquista di sé, come spinta trasformativa dell’individuo, possibilità di ricondurre a un’etica del limite quel «gioco proibito» che diventa altrimenti «sfida mortale». Pontiggia scorge lo spazio etico proprio là dove «l’amplificazione di sé» è «ugualmente attratta sia dal rimorso, quale “ingrediente del piacere”, sia dal culto sempre inosservato del volere, “la più preziosa di tutte le facoltà”». Libertà e fatalità nell’esercizio di una mancata volontà vengono infatti a coincidere. E in Baudelaire quello spirito cristiano che attende, e insieme manca, lo sforzo di progresso (individuale, da cui deriva di conseguenza quello di un’intera comunità) si fa partecipazione al dramma dell’inferno degli uomini ogni volta che si lasciano attrarre dall’artificiale, dal non autentico, da un sé ideale, romantica rinuncia a una costruzione soggettiva attiva. Il senso religioso che qui Pontiggia osserva è profondamente radicato nell’esistenza umana, nella sofferenza, nella consapevolezza del limite. E lo spazio etico è valorizzato attraverso una contrapposizione di termini, proprio perché è nella contraddizione dinamica che si rivela il senso etico. Quell’ethos, per stare ad Antonio Banfi, che non è «stabilità», ma «divenire»: «superamento del punto di vista statico per un equilibrio dinamico». Un ethos che «non è fondato su limitazione ma su differenziamento e dinamismo» [2]. Un fare per essere. Un riprogettarsi che nasce dal dramma di una crisi, la quale non è appunto «compiersi di un fato sopra di un essere, è vitalità interna dell’essere stesso, che proprio in quanto ha coscienza del suo destino, l’eleva a spiritualità e a forma positiva di vita» [3]. Un positivo che allora splende già nel disgregarsi, quel «sole interiore» del titolo pontiggiano con cui lo stesso Pontiggia interroga la malinconia di Baudelaire. E infatti, proprio nella prospettiva consapevole di «un culto sempre inosservato del volere», conclude Pontiggia, emerge la dimensione malinconica di Baudelaire, il quale sa che «ogni uomo che non accetta le condizioni della vita vende l’anima», cade in quell’inferno dell’artificiale che ancorché apparentemente movimentato dal fuoco dell’illusione, resta malinconicamente statico.
L’accettare la vita così come essa è, nella consapevolezza della nostra finitezza, è dettato che ritorna spesso in Pontiggia. Sempre nel Giardino delle Esperidi il testo La vita «come se» merita qualche commento proprio in relazione a un’etica che poggia sul valore autentico del limite. Pontiggia legge qui il filosofo Hans Vaihinger: La filosofia del «come se». Il libro lo delude, in quanto non aggiunge alcunché a quanto già detto dal titolo, mentre il titolo anche dopo la lettura del testo continua in lui ad agire. «Quasi sempre “il titolo contiene il meglio e il significativo dell’opera”», ci ricorda Pontiggia citando Savinio. La critica qui va a tutta una «cultura intimamente pubblicitaria» che usa titoli stupefacenti, che ammaliano, «tendono generalmente a svelare molto, a volte tutto, e a volte anche di più: dilagano come l’acqua su un terreno che la prosciuga, ma lo spazio che guadagnano in superficie lo perdono in profondità». Pontiggia sembra partire da una considerazione facile, di superficie, periferica come quella dei titoli, ma la sua critica è già nel cuore delle cose [4] e si apre via via a tutto ciò che nell’essere umano è finzione, simulazione, finanche a coinvolgere il linguaggio che l’autore analizza nell’uso improprio o paradossale di certi avverbi. Smonta così, anche attraverso l’ironia – mezzo e variante funzionale a rimettere in gioco i valori –, il vivere ipotetico che poggia sul fraintendimento, il cui «chiarimento» è rinviato «all’eternità». Insomma, tutta una vita «immaginaria, che corre parallela alla vita quotidiana e finisce non solo per sovrapporsi a essa, ma per sostituirla». Una vita che vuole farsi inclusa di certezze, di verità, ma che con la verità non sa porsi in tensione. Ciò che emerge dal testo – sia che venga problematizzata l’esperienza dello scrivere, del fare cultura, l’uso del linguaggio o si esamini il significato di un vivere autentico – è il valore di un’etica che ha al centro la questione del possibile reale, che è costante riprogettazione di sé stessi, proprio nella consapevolezza del limite. Una cultura pubblicitaria insegue incessantemente la novità, ma del cambiamento riproduce piuttosto l’illusione. Ferma sul presente, imprigiona il nuovo nella staticità, non entra in una sfida di progettualità dinamica, non attende al senso di vera trasformazione. Pontiggia ci sta dicendo che una vera cultura dovrebbe continuamente cooperare con il bisogno della sua stessa intelligenza, agire, potremmo dire con Dino Formaggio (la cui estetica rientra nella formazione di Pontiggia) come «soddisfacimento», appunto, «di bisogni di intelligenza, di tensioni intenzionali e di differimenti, di ulteriorizzazioni proprie della stessa corporeità, cioè di tutta la dinamica del divenire» [5]. Un testo che non va oltre il titolo, che «sviluppa in modo sistematico il tema del titolo e lo ingigantisce», ma non lo oltrepassa, rinuncia a quel valore del possibile che sta intorno «al dato», al «certo»: «un alone di immaginazione e di memorie che non cessa di inquietarlo, di spingerlo oltre la sua datità, di prolungarlo in un continuo (o discontinuo) ulteriore significato» [6]: quello spazio, appunto, guadagnato in superficie, in una statica compresenza, ma perso in profondità. Privo della dimensione verticale del tempo dove il presente contiene il passato e il futuro. La sfida dell’esperienza artistica va insomma oltre un sistema di comunicazione plaudente, conchiusa in una falsa apertura di tipo più “mondano”, diremmo, dell’evento. La letteratura non può anticipare o impostare la possibilità progettuale, la deve agire; inscrivere tutta la forza di un’opera in un titolo senza svolgerlo equivale a porre il valore di un segno per poi annullarlo, nel senso di perderlo nella nullificazione di un fare che dovrebbe invece ulteriormente “avanzarlo”. Nella critica di Pontiggia è implicita l’idea di arte come esperienza introiettata da John Dewey, dove in ogni momento dell’esperienza assistiamo a un intersecarsi, a un richiamarsi e integrarsi di mezzi, di significati, un accumularsi progressivo di sforzi e avanzamenti. In un’interazione continua, e non prestabilita, ma sorprendente, fra soggetto ed oggetto, dove «nel soddisfare un’aspettativa suscitata» viene già a crearsi «anche un’aspirazione nuova», stimolata «una curiosità inedita», determinata «una tensione diversa» [7]. Allo stesso modo, l’uomo “vivendo come se non dovesse che vivere” mostra di affidare la propria vita a un certo probabilismo, rinunciando a quell’orizzonte di reinterpretazione che è dato dalla libertà. Una vita come se manca l’esperienza proprio in questo: là dove per pigrizia o cedimento al convenzionale non scopre paziente la misura che gli è propria, rinunciando a celebrare in quella misura la pienezza vitale dell’esperienza stessa. È ancora una volta la libertà infatti «a creare il possibile», ci ricorda Dino Formaggio, e ancora una volta il senso etico per Pontiggia sta in quella possibilità progettuale che continuamente rigenera il possibile di significati: un «trascorrere del fiume dei significati sotto l’avanzamento stesso della progettualità, il mutare del senso di ciò che si fa mentre si fa» [8]. Una reintegrazione continua dei significati che rinvia alla precarietà della vita stessa, del mondo, che smobilizza i personalismi dell’orgoglio, gli idealismi del discorso già informato, ma in-forma mentre attua, comunica come atto di libertà e coscienza responsabile.
Sara Calderoni
(n. 5, maggio 2023, anno XIII)
NOTE
[1] I due testi e le relative citazioni sono rispettivamente in Giuseppe Pontiggia, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori, 2004, pp. 598-599 e pp. 662-666.
[2] Antonio Banfi, La crisi, con prefazione di Carlo Bo, Milano-Udine, Mimesis/Centro Internazionale Insubrico, 2013, p.66.
[3] Antonio Banfi, Il relativismo critico e l’intuizione filosofica della vita nel pensiero di G. Simmel, Vallecchi, Firenze, 1922, p.5. Cfr. anche Andrea Di Miele, Antonio Banfi Enzo Paci: Crisi, Eros, Prassi, Milano-Udine, Mimesis, 2012, p.77.
[4] Cfr. Daniela Marcheschi, Introduzione a Giuseppe Pontiggia, Opere, cit., pp. XLIV-XLV.
[5] Dino Formaggio, L’arte come idea e come esperienza, a cura di Elio Franzini, Brescia, Morcelliana, 2018, p.85.
[6] Ivi., p. 87.
[7] John Dewey, Arte come esperienza, Palermo, Aesthetica Edizioni, 2012, p. 175.
[8] Dino Formaggio, Op. cit., p. 87.
|
|