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La ‘morte della bellezza’ nel romanzo dannunziano
È lucida e decisa, pur se fondata su presupposti sui generis, la reazione anti-realistica e anti-positivistica di Gabriele D’Annunzio alle soglie della modernità, fino a oltrepassarne profeticamente i confini. Già nel 1893 il poeta abruzzese coglieva, con l’antesignana lussureggiante lucidità che gli era propria, il tramonto dell’Ottocento e la nascita di tempi nuovi: «L’esperimento è compiuto. La scienza è incapace [...] di rendere la felicità alle anime in cui ella ha distrutto l’ingenua pace. [...] Non vogliamo più la verità. Dateci il sogno. Riposo non avremo se non nelle ombre dell’ignoto» [1].
Esemplare risulta, in effetti, l’iter umano e letterario di D’Annunzio attraverso il Novecento e la sua mitologia: sicché il viaggio che il poeta compie con la sua opera viene ad assurgere a epocale simbolo d’una paradigmatica saison en enfer dell’artista nella società contemporanea.
Andrea Sperelli, l’esteta, il dandy wildiano de Il Piacere (1889), la perfetta auto-incarnazione dannunziana, rappresenta il momento dell’illusione ancora possibile: l’artista può celebrare, pur nello sfacelo ‘prossimo venturo’, la sua privata religione della bellezza, in un’orgogliosa seppur pericolante separatezza dalla volgarità della vita. Ma nel Trionfo della Morte (1894) lo stesso ‘cultore della bellezza’ è ormai contagiato dal virus, inesorabilmente compromesso dalla ‘malattia sociale’: da un lato, la tara familiare di vizio e di violenza; dall’altro, la sensualità morbosa e maledetta di Ippolita. Giorgio Aurispa, tragicamente sospeso a mezzo fra l’arte e la vita, insomma in una sorta di nefanda ‘non-vita’, vive sotto il segno incombente della morte: la bellezza come la ragione sono schiavizzate dalle due nuove insaziabili divinità moderne, il denaro e l’eros, «ridotto a puro sesso dopo che si è inaridita ogni trepidazione sentimentale» [2]. Già in Giorgio e Ippolita, e nella loro vicenda, è pienamente evidente il ‘carattere regressivo’, a base libidica sadico-orale [3], proprio degli eroi dannunziani (e dello stesso D’Annunzio): la ‘pulsione di morte’ si staglia sullo sfondo d’una disperata nostalgia dell’‘omeostasi originaria’, che progressivamente s’allontana sul filo d’una rovinosa caduta d’ogni speranza e valore. Nell’assedio sempre più incalzante della ‘società di massa’ non esistono aree franche dove rifugiarsi, essendo stati infranti tutti i confini, come in un impero che si sta dissolvendo sotto gli assalti dei barbari: solo nel ricongiungimento con la ‘madre-terra’, attraverso la morte, l’artista potrà ritrovare l’‘onnipotenza oceanica’ perduta [4]. E la morte sarà pure la suprema vendetta, l’unica disperata ed eroica ribellione possibile, che Giorgio porterà a compimento trascinando con sé Ippolita da uno scoglio fatale.
È da codesta medesima humus che nascono due memorabili pagine dannunziane: quella de Le Vergini delle rocce (1910), in cui la ‘morte della bellezza’ viene rappresentata attraverso gli edifici tutti uguali, privi d’ogni senso estetico, della ‘città neo-borghese’, che inarrestabilmente vanno fagocitando le antiche bellissime ville patrizie; quella, non meno significativa, de Il Fuoco (1900), in cui la ‘fine dell’estetico’ viene metaforicamente esemplificata dall’incontrastabile disfacimento del parco d’una villa veneta.
Il fuoco, peraltro, è un romanzo speciale sotto molti aspetti, e uno più in particolare, seppure – stranamente – non abbastanza sottolineato nella letteratura critica: simbolicamente a ouverture di secolo come la Traumdeutung freudiana, totalmente privo di trama, ma strutturato in quadri lirici svolti secondo un vertiginoso modello di poème en prose, è, dal versante della storia della letteratura, il primo romanzo italiano che compiutamente e radicalmente abbandona qualsiasi struttura narratologica di tipo ottocentesco, insomma ‘classica’, sviluppandosi per pindarici legami associativi – estetici ed emozionali – e sostenuto da uno stupefacente, pionieristico impasto linguistico, che si avvale di una raffinata e musicale Mischung di Italiano medievale e moderno, di Sondersprache e dialetto veneziano. Già questo basterebbe a farne un punto di riferimento del romanzo moderno: ma, in realtà, Il fuoco è un capolavoro – ben riconosciuto, certo, ma in fondo sottovalutato – del romanzo europeo, innanzi tutto di forma, fissando un exemplum per il futuro con l’originalità del suo stile, la sapienza della sua struttura (in due sezioni eleganti e sobrie come due colonne corinzie: L’epifania del fuoco e L’impero del silenzio), l’uso innovativo della lingua, la padronanza assoluta della materia, tanto autobiografica quanto scenografica.
E, soprattutto, come dice Gibellini, questo libro «vive di dialoghi e di paesaggi, di rievocazioni storiche e di favolose èkphrasis, di scavi nel labirinto del cuore e di sontuose descrizioni. E anche di disquisizioni sull’arte, sulla musica e sulla pittura che fanno del Fuoco un luminoso prototipo del moderno romanzo-saggio. Rilevanti, a tal riguardo, le discussioni tra Stelio e Daniele Glauro, sosia di Angelo Conti, il petit-maître del nuovo verbo estetico che D’Annunzio ha frequentato a Roma e ora ritrova in Laguna, direttore dei musei veneziani e amico della Duse»; e dove le «dissertazioni artistiche fanno del romanzo-saggio anche un antesignano della futura prosa d’arte, dannunziana e rondesca» [5].
«Il Fuoco non è tuttavia, a volerne rispettare la fisionomia complessiva, il sistema che riesce a formulare, neppure il romanzo della Foscarina, né dramma di passione, secondo le intenzioni iniziali, contraddette e tradite. È invece – Ferrata aveva di nuovo ragione – «un testo fondamentale nella storia della nostra letteratura, tra ’800 e ’900», per l’eccedenza dello stile, la magniloquente organizzazione dei periodi, l’opulenza delle immagini, che procedono da uno stimolo visivo, da una suggestione percettiva, per amplificarsi attraverso ipertrofie attributive e appositive che si ramificano per giustapposizioni. La tecnica dell’elenco, applicata al tessuto narrativo, dà luogo a una trama di citazioni, a una dilatazione di segmenti testuali che interrompono il tempo del racconto favorendo il costituirsi di una struttura a fascio, incapace di sviluppo reale, irrigidita com’è nella fantasmagoria di un arabesco greve. Il procedimento dell’amplificazione si applica a una molteplicità di livelli (lessicali, sintattici, semantici, simbolici) agendo subito, intanto, sulla trasformazione delle fonti, siano esse il Taine o il Molmenti, la propria Allegoria dell’autunno, risemantizzata qui dal contesto, o i taccuini, che consentono una serie di riscontri esemplari. Ne deriva una superficie priva di spessore eppure densissima, ove l’incapacità di tensione concettuale è assorbita dalla forza assoluta della parola, della sua fisicità e matericità, del suo artificio, che trasforma il vitalismo in gesto stilizzato e decorativo, nel percorso labirintico delle ripetizioni.
Ma l’irrigidimento del segno, in grado di giungere alla fissità della materia dura (le rassegne di gioielli, le medaglie del Pisanello…) o alla diafana immobilità (l’«involucro di vetro opalino» che accoglie, tomba cristallina, l’Estate defunta), in un decorativismo stilizzato e straniato, sa poi sciogliersi, ed è il solo miracolo vero, nelle vibrazioni atmosferiche («Una specie di stupore si raccoglieva intorno ai solinghi alberi prigionieri che trascolorivano splendendo come se conflagrassero») [6]».
Il fuoco è questo, e molto altro ancóra – molto di più: una modernissima congeries di materiali solo all’apparenza disomogenei; in realtà orchestrati, ritmati e quasi centellinati lungo il filo sapiente di fantasmagoriche, pre-freudiane associazioni, non di rado per adiectionem (i classici tropi dell’anafora, dell’epifora e della geminatio¸ tutti con una risentita connotazione emotiva): come proustiani motivi musicali, la prosa si sviluppa a onde proposizionali, per una mélodie symphonique che ha nella bellezza il suo nume tutelare, nell’emozione il suo mito fondante. Così Il fuoco scorre senza soluzione di continuità dalle descrizioni incredibilmente palpitanti di vita e ferinità dei levrieri, grande passione dell’Imaginifico, alla celebrazione mitologica dell’Italia nella sua prorompente bellezza classica e mediterranea. L’autore che scriverà Per la più grande Italia concepisce il libro, con fare dantesco, anche come un commosso omaggio all’amata Italia, alla bellezza impareggiabile della sua natura e dei suoi paesaggi mediterranei (poi resi puro mito nelle Laudi) e alla tradizione di cultura e di arte monumentale e figurativa maestra nel mondo: «ma un galoppo su le mie dune più bionde e più luminose delle nuvole d’autunno, oltre le macchie di ginepro e di tamerici, oltre le brevi foci limpide dei fiumicelli, oltre i piccoli stagni salsi, lungo il mare più verde di una prateria, in vista delle montagne di neve e di turchino, oscurerebbe i vostri più lieti ricordi, Lady Myrta. – Italia, Italia! – sospirò la vecchia fata benigna. Fiore del mondo!» [7]
E lo stile, lo stile: una prosa poetica barocca solo nella ricercata e finissima cesellatura linguistica e immaginativa, brillante per la raffinatissima e stratificata electio verborum non meno che per la meravigliosa, lussureggiante bellezza delle immagini; ma elegante e armoniosa, misurata e ‘rotonda’ come solo la concinnitas classica sapeva esprimere: un mélange così ricco sintatticamente e lessicalmente da far perdere lo stupefatto lettore attraverso uno stile che non è semplicemente quello di un romanzo, ma è una metafora del romanzo stesso, dell’arte, della bellezza, della vita.
Antesignano del romanzo-saggio, si diceva, e della prosa d’arte; ma anche del metaromanzo, della letteratura che ha per argomento la letteratura stessa, della lingua che riflette su stessa e sulle sue infinite possibilità, là dove l’autore le ‘torce il collo’ (per dirla verlainianamente) fino allo stremo delle sue possibilità, secondo un’idea della letteratura di tipo mallarmeano e simbolistico, che si confronta, prima di ogni altra cosa e prima della realtà fenomenica stessa, col linguaggio: «Come ha rilevato Vattimo (G. Vattimo, Introduzione a Verità e metodo di H.G. Gadamer, Bompiani, 1983, p. XXV ss.), nell’espressione gadameriana: «L’essere che può venir compreso è il linguaggio» (H.G. Gadamer, Verità e metodo [1960], Bompiani, 1983, p. 542), sono presenti almeno tre livelli di senso. A un primo livello, si legge che qualunque sia l’oggetto della comprensione, esso è sempre linguaggio. A un secondo livello, si legge che il rapporto con le cose, con il mondo è pure un incontro di linguaggio (come aveva del resto precisato Heidegger). A un terzo livello, si legge che – dal logos greco e dal verbum medievale –, le cose in sé sono già abitate dall’organizzazione linguistica operata dall’uomo: nel rapporto io-mondo, prevale il nucleo mondo-linguaggio, il linguaggio come «orizzonte del mondo» (H.G. Gadamer, ivi, p. 507 ss.). Così, il divenire del linguaggio è intrinsecamente «divenire del mondo» [8]. Di qui consegue una particolare legittimazione di un’arte che opera sul linguaggio, come fa, con gli strumenti d’un magistero senza eguali, quella dannunziana, che si potrebbe bene definire proprio come una ‘letteratura sul linguaggio’, perché il referente dei suoi ‘elementi letterarî’ sono, in substantia, le parole stesse in quanto assolute (nell’accezione etimologica di absolutus, ‘sciolto’).
E col linguaggio del Fuoco D’Annunzio si confronta da poeta ancor prima che da romanziere: come scrive Cacciavillani: «[...] proprio da Baudelaire a Proust il poeta è a un tempo “déchiffreur” e creatore di mondo nuovo, attraverso la metafora ontologica: X è Y, – scavalcamento dei codici e fondazione di universi paralleli. D’altra parte, come aveva detto Jaspers (e come dirà anche Kerényi) (K. Kerényi, Nel labirinto, Boringhieri, 1983, le pagine iniziali), lo svelamento del segreto non è dissipazione dell’enigma: «Il segreto è il prodotto derisorio del lavoro di distorsione; l’enigma è ciò che è reso evidente dall’interpretazione» (P. Ricoeur, Ermeneutica e psicoanalisi, in Il conflitto delle interpretazioni [1969], Jaca Book, 1977, p. 206). Siamo quindi, dopo un lungo giro, ritornati alla considerazione dell’ermeneutica più come «comprensione compartecipante che non come esplicazione razionalizzante: compartecipazione alla struttura simbolica dell’opera» [9].
La parabola dannunziana sulla ‘condizione umana’ nel mondo moderno tocca la sua acme ne La Leda senza cigno (1916). Due sono i Leitmotiv che emergono nel romanzo: la misteriosa ammaliante bellezza della protagonista si rivela emblematicamente contaminata dalla volgarità della vita; come l’Elena di Maia (1903), divenuta serva d’un lupanare, la Leda che parla «come una piccola mondana» incarna la condizione della donna, e insomma della bellezza, nella società contemporanea: la ‘donna-bellezza’ è mercificata e involgarita anch’essa, e il suo simbolo non può che essere la meretrice, perduto, naturalmente, ogni potere salvifico per l’uomo [10]. L’altro personaggio decisivo, per la nostra indagine, è quello del musicista: anch’egli è preda della disperata trivialità del mondo, divenuto ormai una sorta di sconfinato postribolo; l’angosciosa infernale realtà [11] si apprende inesorabilmente con i suoi germi anche all’artista, simboleggiata dalla malattia che progressivamente lo consuma [12].
Effettivamente la volgarità, portata avanti dalla ‘nuova massa’ entrata nella storia socio-culturale moderna come un fiume in piena, finirà con l’essere uno dei segni precipui del Novecento: illuminanti sono in questo senso le metafore escretorie che appaiono nell’ultimo Montale come stravolto ‘correlativo oggettivo’ del mondo [13]. L’inarrestabile forza di espansione del linguaggio osceno, che tende a essere istituzionalizzato nella ‘società di massa’ (e privato della sua originaria forza d’urto socio-culturale), va evidentemente riconnessa all’ambito d’una ‘coprolalia collettiva’, conseguenza d’una sessualizzazione d’origine sadico-anale, e quindi regressiva, del linguaggio, nonché d’un generale indebolimento del ‘Super-Io collettivo’, così importante nelle ‘civiltà di massa’. Tutto ciò ha un altro significativo corollario nel fenomeno che, con nostro neologismo, definiremo dell’‘eroscopia’, cioè della tendenza alla rappresentazione diretta, verbale e/o iconica, dell’atto e delle parti sessuali [14].
In una società post-cristiana, in cui sempre più drammatico si avvertiva il ‘silenzio di Dio’, D’Annunzio finiva col reincarnare, anche qui antesignanamente, uno dei miti salienti del mondo contemporaneo, quello ineffabile di Narciso: «Ma per chi scriveva altresì: ‘l’espressione è vivere’, non vi è dubbio che l’archetipo di Narciso s’identificava col mito stesso della letteratura e col mistero carnale della parola nel sortilegio delle sue finzioni. Forse per questo nello specchio orfico di una lingua celebrativa che moltiplicava le maschere dell’eros, restava come sospesa, fra le ‘muse bendate’ della malattia e della morte, l’ombra notturna del grande rifiuto» [15].
È così che la reboante e tuttavia profetica voce di D’Annunzio si protendeva sul Nulla heideggeriano d’un vuoto senza fine: drammatico flatus vocis alla ricerca d’un senso di sé stesso nel labirinto del moderno, sulle incombenti rovine della Waste Land eliotiana, dell’anti-leibniziano e anti-voltairiano ‘peggiore dei mondi possibili’.
Roberto Pasanisi
(n. 1, gennaio 2024, anno XIV)
NOTE
[1] Gabriele D’Annunzio, La morale di Emilio Zola, in «La Tribuna», 1893. Come dirà Pascoli due anni dopo: «il sogno è l’infinita ombra del Vero» (Alexandros, v. 10, in Poemi Conviviali).
[2] Roberto Pasanisi, II Poema Paradisiaco, in «Alla bottega», 2, 1986, pp. 19-21, p. 20.
[3] Cfr. Karl Abraham, A Short Study ot the Development of the Libido,London, Institute of Psychoanalysis and Hogarth Press, 1927.
[4] Cfr. Sándor Ferenczi, Thalassa. Psicoanalisi delle origini della vita sessuale [1924],Roma, Astrolabio, 1965. Cfr. anche la nostra Recensione a Ivan Fónagy, La ripetizione creativa. Ridondanze espressive nell’opera poetica, Bari, Dedalo, 1980, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale», Sezione Romanza, XXVIII, 1, 1986, pp. 407-410.
[5] Pietro Gibellini, Introduzione a Gabriele D’Annunzio, Il fuoco, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 9-10.
[6] Niva Lorenzini, Notizia sul testo e note di commento, in Gabriele D’Annunzio, Il fuoco, Milano, Mondadori, 2013, pp. 282-283.
[7] Gabriele D’Annunzio, Il fuoco, Roma, Newton Compton Editori, 1995, p. 149.
[8] Giovanni Cacciavillani, I segni dell’incanto. Prospettiva psicoanalitica sui linguaggi creativi, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 45.
[9] Cacciavillani, I segni..., cit., p. 55.
[10] Cfr. Pasanisi, II Poema..., cit., pp. 20-21. Cfr. pure, ex contrario, la funzione angelicamente salvifica della donna propria del filone istituzionale della tradizione lirica occidentale, fondata com’è, nelle sue strutture profonde, sulla rielaborazione del Complesso di Edipo e sulla figura della ‘donna-madre’.
[11] The Age of Anxiety chiama Auden la nostra epoca (così s’intitola un bel poemetto del ‘48).
[12] Un significativo, apocalittico simbolo epocale è rappresentato in questo senso dall’Aids, che, attaccando uno dei ‘valori fondamentali’ nella storia della società umana, l’amore, dà pure un’illuminante, mitologica esemplificazione di cosa esso sia e rappresenti nello stravolto mondo moderno. In tutto questo emerge il drammatico straniamento di un’umanità che ha smarrito l’armonia fra ánthropos e phýsis, che era stato uno dei più profondi insegnamenti lasciati in eredità dal mondo classico alle generazioni a venire, e che è il cuore dell’Umanesimo. L’uomo moderno, insomma, per usare una categoria ideologica della cultura greca arcaica, si è macchiato di hybris, valicando con folle ‘tracotanza’ i suoi limiti e sconvolgendo il naturale ordine delle cose, che ora inesorabilmente gli si rivoltano contro, di giorno in giorno più minacciose.
[13] Vd., ad esempio, la I Botta e Risposta di Satura (1971). Cfr. specialmente Umberto Carpi, Il poeta e la politica. Leopardi, Belli, Montale, Napoli, Liguori, 1978, pp. 269-355.
[14] Cfr. Otto Fenichel, Trattato di psicoanalisi delle Nevrosi e delle Psicosi,tr. it., Roma, Astrolabio, 1951, pp. 332-338. L’‘eroscopia’ si inscrive sotto il segno della scopofilia e dell’esibizionismo (nel senso psicoanalitico del termine), pulsioni entrambe istituzionalizzate a livello collettivo nella società contemporanea, specie per la loro intima connessione col narcisismo (cfr. ibidem, cit.,pp. 86-89).
[15] Ezio Raimondi, Il silenzio della Gorgone, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 110-111. Sulla quaestio spiritualismo / materialismo cfr. Giuseppe Graziano, Per una conoscenza separata, in «Alla bottega», 3, 1988, pp. 16-19. Per le fondamentali idee sulla ‘società neo-borghese’ di un grande lucidissimo intellettuale, vd. Enrico Cerquiglini, Pasolini e il suo cinema, in «Alla bottega», 3, 1988, pp. 1-9. Sull’omologia tra fenomeni letterarî, ideologici e sociali e sulla reificazione degli esseri umani vd. il pensiero di Lucien Goldmann quale emerge, in particolare, dal saggio Pour une sociologie du roman, Paris, Gallimard, 1964.
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