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Psicoarteterapia: teoria e prassi di un nuovo modello psicoterapeutico integrato
«La creatività artistica esprime l'indicibile del soggetto
per la comunicazione con l'altro, il terapeuta».
Christian Picard
L’Arteterapia si è finora sviluppata sulla base di tre modelli incompiuti: come una tecnica essenzialmente riabilitativa o di sostegno rivolta principalmente agli psicotici o ai minorati, fisici o psichici che fossero, intesa a ridurre le minorazioni psicofisiche e a migliorare le capacità relazionali e di socializzazione dell’individuo affetto da una patologia più che nevrotica; come una sorta di laboratorio di pittura e scultura, attento a cogliere (ed eventualmente a esprimere) le emozioni connesse alla pratica artistica; o infine in 'forma ancillare', vale a dire come una psicoterapia che si avvaleva delle arti figurative a livello essenzialmente strumentale e secondario nell’àmbito di una tecnica più vasta e articolata, specialmente psichiatrica.
Essa è stata praticata non soltanto da psicoterapeuti, ma da esperti dei più svariati campi – musicisti, artisti, scrittori, drammaturghi, maestri di scuola, insomma sulla base delle competenze più svariate – restando al di qua o andando al di là della psicoterapia stricto sensu – l’unica che qui ci interessi – praticata da uno psicoterapeuta o, meglio, ancóra da uno specialista in Arteterapia. Essa è stata sostanzialmente priva sia di un impianto teorico compiutamente definito che la legittimasse scientificamente in maniera univoca e soprattutto autonoma, sia di una qualsivoglia istituzionalizzazione che ne precisasse i cómpiti e gli obiettivi, ne chiarisse le caratteristiche precipue (anche contrastivamente rispetto alle altre scuole psicoterapeutiche) e ne stabilisse i limiti, fissando nel contempo una deontologia professionale.
Molti oggi sono infatti le scuole e i corsi di scrittura creativa, i laboratorii di pittura e scultura a fini terapeutici o riabilitativi, e altre iniziative simili; come pure gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri che adoperano l'arte in forma per così dire 'ancillare', idest come una tecnica fra le altre nell'àmbito di una teoria e di una prassi diverse, che nulla hanno a che vedere con l'Arteterapia.
Qui invece si intende l'Arteterapia come psicologia clinica, ovvero come una ‘teoria e una prassi psicoterapeutica’ a tutti gli effetti e autonoma, sviluppando questa disciplina come una scuola di psicoterapia tout court, curata non da scrittori o pittori o scultori o da psicologi di altre scuole, ma da specialisti in questo particolare tipo di psicoterapia; e se ne pongono i ‘fondamenti’ teoretici e pratici.
Fissiamo in ‘ART’ la sigla abbreviativa della disciplina che qui vogliamo proporre sotto il nuovo nome di ‘Psicoarterteterapia’ (P.A.T.), intesa come una nuova scuola psicoterapeutica costituita secondo un 'modello integrato' e contrassegnata da tre caratteristiche fondamentali e sue specifiche: l’uso dell’arte e delle sue tecniche come ‘strumento terapeutico’; pratiche sue specifiche, come, ad esempio, Il viaggio del respiro o la seduta Zen; l’approccio integrato, ove opportuno, con le tecniche di Meditazione (dalla Vipassana classica alla Mindfulness) e, eventualmente, con il training autogeno (TA) nella sua formulazione classica; la costituzione eclettica, che le permette di attingere, sia sul piano teorico che su quello propriamente terapeutico, a diverse altre scuole, segnatamente alla Psicoanalisi, alla Psicologia analitica, alla Psicologia della Gestalt e dall’Analisi Transazionale (AT). Ne consegue come rilevante corollario che la Psicoarteterapia così intesa si configura fra le cosiddette ‘psicologie del profondo’ e che integra ‘tecniche analitiche’ con ‘tecniche esperienziali’.
In Psicoarteterapia – pur non rinunciando, quando utile e necessario, ai concetti di Sé e di Io – preferiamo generalmente parlare, piuttosto che di 'mente' o di 'coscienza', della più vasta categoria di 'psiche', intesa come complesso della struttura psichica dell'individuo, includente sia la 'propriocezione' (ovvero la percezione di sé come unità; insomma il Sé), sia l’‘eterocezione’ (idest la 'psicocezione', cioè la percezione psicologica che gli altri hanno dell'individuo).
La P.A.T. condivide il modello psichico tripartito delle 'psicologie del profondo' di matrice psicoanalitica, considerandolo essenzialmente – scilicet – un modello esplicativo che, all'occorrenza, ove più utile clinicamente – ad esempio per delineare lo status del conflitto nevrotico –, può essere sostituito da un modello ermeneutico di tipo bipartito (ad esempio: Sé reale vs Sé ideale).
La Psicoarteterapia, così intesa, si differenzia altresì dal 'modello americano' (secondo il quale l'Arteterapia va intesa stricto sensu come 'terapia attraverso le arti figurative') in maniera sostanziale, a partire da una ragione fondamentale e distintiva: essa dà infatti uno spazio e una funzione paritarî sul piano terapeutico, accanto alle 'arti figurative', alle 'arti della parola' (e la poesia in primis, per il suo ben noto livello di espressione e di concentrazione emotive particolarmente intenso ed elevato, che potremmo definire qualitativamente e quantitativamente 'fulmineo', secondo il modello dell'insight o Einsicht o satori o 'illuminazione'; ovvero, come diceva Ungaretti, dell'«illuminazione favolosa»; o ancóra, più popolarmente, la 'lampadina che si accende').
Cómpito del terapeuta è infatti portare nella sfera della 'consapevolezza' (nel senso gestaltista della parola) ciò che è 'sotto traccia', ricostruendone il fil rouge razionale-emozionale: è in questa maniera che egli destruttura (baconiana pars destruens) l’‘armatura nevrotica' della personalità per poi ricostruirla sulla scorta di una nuova 'dazione di senso' (pars construens). Questo complesso e spericolato lavorio di 'destrutturazione-ristrutturazione' si svolge lungo quel filo di Arianna che permette al terapeuta-Tèseo di non smarrire la traccia attraverso il periglioso 'labirinto della nevrosi'.
Il presupposto principale dal quale partiamo per considerare la P.A.T. non come una ‘psicoterapia rieducativa’, con una valenza essenzialmente sociale e di recupero, ma come una ‘psicoterapia ricostruttiva di tipo psicodinamico’ è, in primis, la teoria elaborata da Freud riguardo alla funzione dell’artista: per il neurologo viennese la funzione fondamentale dell’artista è quella di mettere l’individuo in comunicazione con il suo Inconscio e di consentirgli di gustarne le fantasie «senza rimprovero e senza vergogna», liberando profonde tensioni della psiche. L’arte quindi per Freud rappresenta uno dei mezzi più adeguati per tollerare l’esistenza; come una sfera posta tra Eros e Thanatos, rappresentante una soddisfazione del desiderio sostitutiva, non ossessiva né nevrotica: una sorta di passaggio, di via regia verso l’inconscio, come il sogno; ma, a differenza del sogno, più organicamente e compiutamente strutturata e creativa. Oltre al contributo di Freud, ci sembra opportuno, per attribuire all’arte una valenza terapeutica, far riferimento all’operazione, considerata da taluni scandalosa, di desacralizzazione dell’artista in quanto tale effettuata dalla Chasseguet-Smirgel: operando infatti una smitizzazione dell’artista, la studiosa contribuisce non poco a ravvicinarcelo, a stabilire un contatto, a riprendere un colloquio interrotto, o forse a iniziarlo in quanto miticamente fantasticato e mai realmente esistito; ricordandoci che tutti condividiamo gli stessi meccanismi psichici, sia conflitti che angosce, è possibile stabilire una continuità tra il fruitore e l’artista, rendendo così reale la comunicazione, anche se difficile e fluttuante nelle sue misteriose e fantasmagoriche valenze simboliche e sovratemporali.
Fondamentale è in Psicoarteterapia, come nell'opera d'arte, la considerazione per i valori psico-simbolici, carichi come sono di valenze emotive e autoterapeutiche (nel senso junghiano del termine): intorno a essi si gioca moto della felice riuscita della terapia.
In questo senso si comprende come l’approccio psicoterapeutico ricostruttivo, e in particolare quello psicoanalitico, rappresenti uno degli strumenti più validi per ritrovare l’artista che è in noi, ovvero la nostra parte creativa, che è in grado di metterci in contatto con il nostro Inconscio e che attraverso la produzione di opere creative lato sensu (vale a dire non nel senso 'estetico' del termine) ci permette di analizzare le nostre angosce e i nostri conflitti interiori. Infatti ponendo l’artista, idest il creatore, in una posizione di pseudo-privilegio, in realtà lo chiudiamo in un’inaccessibile turris eburnea, e così facendo lo emarginiamo e lo alieniamo; ma al prezzo di emarginare e alienare da noi quella parte di noi stessi che è la dimensione estetica e creativa nella sua valenza catartica e sublimativa. La possibilità di dare all’altro una valenza terapeutica e di considerarci artisti potenziali — lato sensu, obviously: idest nel senso di ‘creatività’ —, ci è offerta anche dal fatto che nell’arte contemporanea è l’artista stesso che infrange il proprio ruolo, smitizzando la propria persona e il proprio fare artistico, parzialmente annullando, in questo modo, la distanza dal fruitore d’arte e contravvenendo così a quell’immagine che noi gli attribuiamo.
È grazie proprio a questi presupposti teorici che è possibile costituire dei gruppi terapeutici in cui ognuno esprima la personale creatività per conoscere meglio il proprio mondo inconscio e per cercare, conoscere e interpretare, con l’aiuto del terapeuta, le proprie problematiche.
Sul piano della prassi, non bisogna commettere l'errore di analizzare e approfondire problemi che il cliente non sente fortemente e che, de facto, non sono per lui fattori né di malessere né di degrado della qualità della sua vita.
La Psicoarteterapia si configura come una 'psicoterapia eclettica': essa infatti acquisisce liberamente ma ordinatamente elementi da altre scuole, ritenendo che non sia l’individuo a doversi adattare alla terapia, ma la terapia a doversi adattare all’individuo; e che pertanto qualunque tecnica che ‘funzioni’, ovvero produca risultati, sia da adoperare, di là dai confini delle teorie e delle scuole, che esprimono dei 'modelli ermeneutici' della psiche – 'categorie' kantiane, in ultima analisi – che non vanno mai ipostatizzati. Per questa via la P.A.T. fonde in particolare la prospettiva ‘archeologica’ e ‘diacronica’ di tipo freudiano (Psicoanalisi, Psicologia analitica, Psicologia individuale) con quella ‘sincronica’ delle psicoterapie esperienziali (Psicologia della Gestalt e Analisi Transazionale), privilegiando un approccio comunque pragmatico, teso all’eziologia solo nella misura in cui essa possa servire a risolvere la problematica in fieri, convinta che, seppure sia innegabile che ogni nevrosi abbia una storia e delle concause (piuttosto che una causa), sia terapeuticamente essenziale modificare lo status ‘in atto’ del paziente, hic et nunc. La P.A.T. non rifiuta nel suo complesso neppure la prospettiva cognitivista nelle sue varie accezioni, integrandone ecletticamente i modelli, anche se non ne condivide l’attuale predominio: essa soprattutto ritiene che – come dimostrano l’arte, i processi onirici e creativi – l’analisi dei ‘processi coscienti’, pur indispensabile, non sia sufficiente a rendere compiutamente conto del funzionamento della psiche umana, che ha invece la sua parte più rilevante e saliente nei ‘processi inconsci’.
La Psicoarteterapia, così sviluppata, si configura inoltre come un 'modello integrato' non solo sul piano specifico delle scienze psicologiche, ma parimenti con le altre 'scienze umane', acquisendo largamente nella sua teoria e nella sua prassi da cinque discipline, da considerare 'primarie' per la P.A.T.: psicologia dell'arte e della letteratura, sociologia, filosofia (estetica in primis), letteratura e storia dell'arte. In particolare, la sociologia fornisce gli strumenti analitici fondamentali per la comprensione del 'campo' in cui si muove e col quale interagisce l'individuo, che la Psicoarteterapia considera sempre come 'uomo sociale', espressione e frutto inscindibili dell'interazione e della personale e irripetibile fusione dei suoi 'tratti individuali' con il ‘clima socioculturale’ (come lo possiamo chiamare) e la forma mentis della sua epoca.
La nevrosi dell’uomo moderno è anche una ‘nevrosi sociale’, in quanto sempre (direttamente od indirettamente) drammatica espressione della ‘condizione umana’ nella modernità: l’uomo, ridotto (per dirla marcusianamente) «a una dimensione», spersonalizzato e disumanizzato nei fiammeggianti gironi infernali della ‘città tentacolare’, trasformato in meccanismo senza nome né senso dell’ingranaggio burocratico di frommiana memoria, vive la metafora esile e bellissima della farfalla gozzaniana: destinato a smarrirsi, a ‘perdersi’ nei meandri del labirinto della città, immolato all’immortale Minosse del denaro e dell’utile («with usura», direbbe Pound).
In questo senso, la Psicoarteterapia, come l'arte, deve andare al di là della desiderabilità sociale e del politically correct; o, come si potrebbe dire, mutatis mutandis, dello psychologically correct: libertà, creatività, dinamismo psicologico, autorealizzazione e autovalorizzazione, eterocentrismo e positivizzazione del narcisismo sono gli obiettivi generali della terapia, assolutamente prioritarî e alternativi rispetto ai valori (disvalori?) conformistici correnti nella società.
È spesso come una ‘dea lontana e crudele’, che da un’infinita lontananza prende imperscrutabile dall’alto le sue fatali decisioni, che l’individuo esistenzialmente malato sente quindi la vita e il mondo, e ansiosamente lo teme: è perciò una nevrosi, quella che abbiamo definito ‘sociale’, anche ‘esistenziale’, che coinvolge il ‘senso’ stesso dell’uomo e del suo stare al mondo, così come biograficamente individuato da Viktor Frankl.
Spesso il paziente, come l’artista, si confronta con un ‘mondo perfetto’, teso e sotteso fra passato e futuro, ma senza presente: rispetto al quale vive un senso di acuta nostalgia, una sorta di nóstos incommensurabile, che il pensiero di un baudeleriano idéal fa continuamente e dolorosamente vibrare, alimentando il senso del fallimento e dell’impotenza che sovente contrassegnano l’esperienza nevrotica. Ma il ‘mondo perfetto’, per dirla shakespearianamente, è fatto del materiale di cui sono fatti i sogni, ed è là che va collocato, non obliterandolo, ma valorizzandone e dinamizzandone invece l’indubbia forza propulsiva e immaginativa: e come tale va affiancato al ‘mondo imperfetto’ della realtà, che deve costituire l’effettiva misura del reale e del Sé.
Una delle tipiche sedute psicoarteterapeutiche sono quelle che chiamiamo ‘come tutta una vita’: l’analizzando, come nella fruizione di una grande opera d’arte, ha la sensazione di ripercorrere, nell’ora del setting, tutta la sua vita, riconfigurandola in una nuova Gestalt, in una rielaborata ‘forma globale’ – ‘complessiva’ e ‘unitaria’ –, ricostruendo e ricomponendo la frammentazione del suo Sé e della percezione della sua vita, disarticolata se non proprio andata in pezzi nel corso degli anni.
L’obiettivo della psicoterapia, alla fine, è, semplicemente, pratico: l’accrescimento del benessere psicologico; in questo senso, possono esistere due soli tipi di terapia: ‘buona terapia’ e ‘cattiva terapia’.
Nella prassi clinica ci si accorge che, sebbene scopo dell’analisi sia la risoluzione definitiva della problematica nevrotica, è però necessario puntare a ottenere quanto prima dei sia pur piccoli miglioramenti sintomatici, che avranno il duplice esito di attivare nel paziente quel ‘sentimento terapeutico’ essenziale che è l’ ‘auto-incoraggiamento’ e di impedire che egli abbandoni la terapia non avendo la pazienza e la determinazione sufficienti per aspettare i risultati sui tempi lunghi della guarigione. L’‘auto-incoraggiamento’ è in effetti la base per lo sviluppo di quell’«autoefficacia percepita» di cui parla Bandura, indispensabile per il successo della terapia: è solo con essa, infatti, che il nevrotico sentirà di potersi via via riappropriare di sé e della sua vita, non essendo più una zattera in balia delle onde e delle tempeste, ma un potente veliero in grado di sfruttare i venti per arrivare alla sua meta, solcando col coraggio dell’esperto marinaio il ‘gran mare dell’Inconscio’.
Sotto questo aspetto, è necessario lavorare sin dall'inizio su due livelli: a breve termine, ovvero sui sintomi, per dare subito un primo sollievo al paziente e fargli continuare la terapia (l'abbandono del setting coinciderebbe in ogni caso e comunque con il fallimento dell'analisi); a lungo termine, idest eziologicamente, sulle cause – o meglio sulle concause (diremo con Perls che la nevrosi non ha mai una causa sola, ma sempre una moltitudine di aitia a vario titolo concorrenti).
È infatti essenziale rassicurare da subito il paziente, dandogli fin dalla prima seduta una sia pur generica esplicazione e inquadrando i suoi sintomi e i suoi problemi in uno schema nosografico complessivo, che avrà il non trascurabile vantaggio di dargli una prima e parziale ma preziosa tranquillizzazione, infondergli un'ancóra nebulosa fiducia nell'analista e cominciare a disporlo positivamente nei confronti della terapia.
E al paziente, infantilmente ansioso di vedere fluttuare la bacchetta magica sui suoi problemi, bisognerà opporre, rielaborando Gramsci, il realismo della ragione e l’ottimismo della volontà, non facendogli mai mancare un benevolo e fiducioso incoraggiamento accanto a un sano richiamo alla lunghezza e alla difficoltà del suo cómpito: la psicologia ha il fine pragmatico di insegnare l' 'arte di vivere', abbandonando la turris eburnea della 'fantasia' e del baudelairiano idéal; e acquisendo, in ultima analisi, l'arte di un (sano e ottimistico, ma sempre concreto) realismo, rifuggendo da qualsiasi facile buonismo od interpretazione semplicistica e unilaterale di 'pensiero positivo', insomma ingenuamente dimentico della comunque drammatica varietas della vita.
È una 'medicina amara' che gli si propone, ma anche per questo efficace e preziosa, capace com'è di trasformare l'astrazione sterile del suo 'idealismo nevrotico' almeno in una sofferenza fatta di lacrime e sangue, primo faticoso ma irrinunciabile passo per cominciare a (ri)prendere possesso di sé e della propria vita.
Solo l’instaurarsi di una foscoliana «corrispondenza d’amorosi sensi» fra terapeuta e paziente – come dire fra ‘maestro’ e ‘allievo’, in cui il primo fa valere la sua misurata auctoritas e il secondo si conforma al suo benevolo ma mai passivo discepolato – può fornire l’energia e il sostegno per un lavoro a due (anche a che non divenga una folie à deux!) come quello dell’analisi: questa empatia, questo felice fluire e defluire di transfert e controtransfert, lieve e potente come la risacca del mare, scandiscono il modo e il tempo della terapia, ovvero di un viaggio in cui l’analista deve far sentire all’analizzando la sua superiore competenza, ma anche la sua comune e paritaria humanitas, in un rapporto umano che, paradossalmente, è sbilanciato da una parte, ma in perfetto equilibrio dall’altra. E se il terapeuta dà molto al paziente, è anche il cliente a dare molto allo psicologo, facendolo riflettere e interrogare su se stesso e sugli strumenti e le modalità della terapia; anzi: la bravura e il talento dello psicoterapeuta si misura anche dalla sua capacità e saggia umiltà di apprendere dal paziente, in un continuo interscambio psicologico e umano. Il cliente deve sentire che lo psicoterapeuta non lo fa per soldi (questi sono la conseguenza di una prestazione professionale, mai però il fine dell'analista): affettività, 'compartecipazione emotiva', 'ascolto partecipe' devono essere sapientemente dosati dallo psicoarteterapeuta in una Mischung completa e armoniosa. L'uso del 'noi terapeutico', adeguato a sottolineare costantemente la comunanza d'intenti ma pure l'‘alleanza terapeutica’, sarà un ulteriore valido strumento in tal senso.
L'analista avrà d'altra parte la difficile ma essenziale capacità di essere nel contempo 'dentro e partecipe' e 'fuori e distaccato' rispetto all'analizzando, mettendo di più l'accento, a seconda del caso, ora su una 'posizione' ora sull'altra.
Egli dovrà contribuire a smontare, un po' alla volta, il sentirsi 'diverso' e/o 'speciale' solitamente avvertito dal nevrotico; a sfatare la sua convinzione di essere particolarmente sfortunato e infelice; di essere una vittima predestinata di un fato misterioso e avverso, facendogli nel contempo recuperare un senso febbrile di sé e della sua vita.
Il 'rapporto terapeutico' deve mirare a un uomo (riprendendo Marcuse) non più «one-dimensional», ma «multi-dimensional»: lo 'spirituale' e il 'materiale' devono essere in complementare e dinamizzante equilibrio.
Errori non se ne possono evitare nel viaggio, perché lungo è l’itinerario e incerta la rotta, che mai si rivela quella tracciata sulle carte: ma il pilota deve essere sempre con gli occhi alle stelle, pronto a percepire ogni deviazione dalla rotta e rimettersi sulla via giusta; ché anzi, da buon marinaio, deve saper tenere conto anche di venti e correnti, a causa dei quali a volte deviare per una rotta più lunga può essere preferibile per giungere alla meta agognata.
Il viaggio è a due, ma lo psicoarteterapeuta sarà il pilota; e dunque egli non si farà condizionare dalle coatte e ossessive ripetizioni del suo passeggero: non di rado i nevrotici esibiscono una notevole sia pure monotematica capacità di influenza, fondata su una testarda ipertensione emotiva verso i proprî pseudo-obiettivi, così caricati di significato (chiameremo 'effetto Cesare', dal nome di un nostro paziente particolarmente e caratteristicamente dotato in tal senso, questa 'modalità nevrotica').
L'apporto della filosofia è quindi essenziale: specialmente la 'teoria critica' come è stata elaborata dalla Scuola di Francoforte è interessante per la Psicoarteterapia, così come tutti i sistemi che potremmo definire 'umanistici', vale a dire fondati sulla centralità dell'uomo inteso non come mezzo ma come fine.
Altrettanto caratterizzante dell'ART è la sua vicinanza con le filosofie orientali, segnatamente il Buddismo Zen e il Taoismo, ma anche il Confucianesimo: di queste antiche scuole di pensiero essa condivide innanzi tutto il rifiuto della 'malattia della metafisica occidentale' (per dirla alla Derrida), il cerebralismo degli infiniti 'perché', l'iper-razionalismo della cervellotica parcellizzazione di microscopiche analisi e di egotistiche auto-osservazioni, che in terapia non fanno altro che alimentare le razionalizzazioni del paziente; privilegiando invece l' 'essere' come unità e totalità e il 'come' quale modello ermeneutico, convinta che è nell'attimo che scorre l'eterno. Il nevrotico è anche una persona che è 'separata' dagli altri e dal mondo, ma prima ancóra da se stesso: cómpito del terapeuta è ristabilire questo duplice e parallelo legame, ricostituendo l'unità perduta con il tempo (nel suo scorrere) e con l'universo (nel suo essere totale).
Un obiettivo fondamentale dello psicoarteterapeuta è, in questo senso, attraverso la ‘magia ri-creativa’ dell’arte, di ‘cambiare il passato’, ovvero modificarne l’interpretazione e la percezione soggettive ristrutturandolo in una nuova, dinamica e produttiva Gestalt.
Si tratta così, nei confronti del nevrotico, di operare una sorta di avventuroso descensus: dal ‘mondo degli dèi e delle idee’ al ‘mondo degli uomini’; dal mondo olimpico e platonico degli athánatoi al mondo terreno dei thánatoi.
Fondamentale è la scienza letteraria, nei suoi varî settori: storia della letteratura, teoria della letteratura, retorica; ma anche due discipline a essa vicine: linguistica e semiologia.
Tipico della Psicoarteterapia è l'uso dei tropi come interpretazioni terapeutiche: la metafora, in particolare, appare straordinariamente capace di determinare una comprensione – emotiva prima ancóra che intellettuale – fulminea e profonda.
Ma, più in generale, è il modello dell’arte e dell’artista – nel suo risolvere la ‘tensione nevrotica’ in creazione e creatività – a essere fondamentale: la ‘dinamizzazione artistica’ è la stessa che consente in Psicoarteterapia lo scioglimento e la canalizzazione delle energie bloccate riattivandole verso nuovi orizzonti: il fiume delle emozioni, finora pietrificato e cristallizzato nei ‘blocchi energetici’ della nevrosi, riprende a fluire scavandosi un nuovo letto alla ricerca del suo naturale sbocco, il ‘gran mare dell’Inconscio’.
In questo senso, la Psicoarteterapia, come l’artista, privilegia le soluzioni creative e ‘non convenzionali’, rifiutando la ‘negazione’ in direzione dell’‘integrazione’ e della trasformazione: insomma, psychologically not correct. Ad esempio, la ‘malattia di Narciso’ viene affrontata non attraverso la repressione del narcisismo, ma mediante la valorizzazione della creatività in esso insita: ovvero il narcisismo non viene combattuto dall’analista, ma reso dinamico e produttivo come fa l’artista che crea, rielaborando e sublimando l’autoreferenzialità del proprio autocentrismo nell’eterocentrismo universale e oggettivo dell’opera d’arte. È in questa maniera che il paziente non sperimenta quel ‘senso di negatività’ che si accompagna prevalentemente al vissuto narcisistico, ma impara invece a percorrere una via diversa, capace di valorizzare il proprio Sé in tutte le sue istanze, e ricavandone nel contempo un significativo beneficio anche sul piano dell’autostima e dell’autoaccrescimento: e questo è un ‘narcisismo positivo’, ben diverso dal ‘narcisismo negativo’ che si esaurisce nello sterile autorispecchiamento della propria immagine nella fonte, fino ad annegare nell’abisso che si cela sotto i riflessi baluginanti e ingannevoli dell’acqua.
Così tutti gli strumenti dell’arte sono ‘ferri del mestiere’ per lo psicoarteterapeuta, che ricorrerà frequentemente ai ‘costrutti narrativi’ per permettere al paziente di organizzare in una forma compiuta e articolata la sua ‘storia personale’, alla ricerca di un senso complessivo della propria vicenda psichica: un modello di storia è, ad esempio, Il piccolo principe diventa suddito, nella quale l’analizzando impara a strutturare e ad accettare il suo passaggio dalla condizione ‘centrale’ dell’infanzia a quella ‘periferica’ dell’età adulta, in cui deve diventare capace di sentirsi ‘uno fra i tanti’ e non più l’ ‘eletto’.
È questa la via attraverso la quale sviluppare a fondo la personale ‘creatività biografica’, organizzando la propria vita e la propria Weltanschauung secondo un criterio di ‘creatività artistica’: lo psicoarteterapeuta è un ‘medico dell’anima’, nel senso insieme umanistico e scientifico del termine, che usa ‘la parola che cura’, là dove, come nell’arte, ogni significato e ogni significante, ogni referente, ogni connotazione e denotazione, ma anche ogni spazio bianco e ogni disposizione del testo – ovvero ogni silenzio e ogni posizione ed espressione – non sono più quelli della lingua standard e dell’interazione sociale quotidiana, ma assumono una risonanza altra e universale, nello spazio dell’assoluto, in cui ‘la parola che cura’ non dice il dicibile, ma dice l’indicibile.
E 'dire l'indicibile' è fondamentale specialmente là dove si affrontano le 'emozioni implose', come quelle depressive e ancor più ansiose, caratterizzate da una aggrovigliata matassa di 'non espresso' che lo psicoarteterapeuta deve dipanare 'sfogliando la cipolla', come direbbe Perls.: l'ansia sembra simbolicamente infossarsi nel soma, così come viene descritta nel vissuto ansioso, per poi salire progressivamente alla testa.
D’altra parte, una ferrea legge vige in psicoterapia: dove c’è un ‘più’ o un ‘troppo’ da una parte, c’è un ‘meno’ o un ‘troppo poco’ celato dall’altra in quantità inversamente proporzionale, e viceversa; che si potrebbe sintetizzare, latinamente come nei buoni vecchi manuali d’antan: Ubi plus supra est, minus infra.
Concetto proprio della P.A.T. è altresì quello di 'stile emozionale': la nozione rielabora la categoria di 'stile cognitivo', ritenendo che tale categoria, prima ancóra che 'cognitiva' (nell'accezione cognitivista della parola), sia legata al mondo delle pulsioni e delle emozioni. Lo stile emozionale è un tratto che contrassegna la persona e il suo modo precipuo di interagire con l'ambiente: essa è principalmente il frutto della sua 'storia personale', ma include anche una parte biologicamente ereditaria, intesa soprattutto come ventaglio di potenzialità sviluppate o meno nel corso della vita dell'individuo.
Da questo quadro sintetico complessivo emerge con chiarezza come allo psicoarteterapeuta si richieda non solo una ferrata preparazione specialistica, ma anche un background culturale straordinario per ampiezza e profondità: insomma, non solo un ‘tecnico', ma un vero umanista per qualità e quantità del suo sapere e della sua forma mentis, capace di valersi con padronanza di strumenti attinti alle più diverse discipline, e nel contempo dotato di una Weltanschauung compiuta e flessibile del suo tempo e della sua società.
Ma una dote fondamentale dell’analista di valore è la sua capacità di apprendere attraverso la terapia, crescendo insieme con i pazienti e conoscendosi attraverso di loro, ‘dando e avendo’: egli sa trarre sapientemente frutto dal transfert e dal controtransfert, a partire da un atteggiamento contrassegnato dall’umiltà del saggio e dall’apertura emotivamente partecipe e sempre capace di stupirsi propria del bambino.
L’analisi è un viaggio marino del quale si conosce soltanto il porto di partenza e quello d’arrivo, ovvero la guarigione: la rotta non è una linea retta, ma deve essere continuamente monitorata e riformulata sulla base dei venti e delle condizioni del mare; a volte ci si può accorgere che i calcoli sono stati sbagliati, che il tragitto segnato sulle carte non era quello giusto: allora l’analista non deve esitare un attimo a cambiare rotta, apprendendo dai suoi errori ma evitando a qualsiasi costo il naufragio. Gli faranno da guida la bussola della sua competenza e della sua esperienza, che non dovrà mai stancarsi di accrescere, e la sua totale dedizione alla causa: solo a queste condizioni la nave potrà, senza perdersi nell’oceano periglioso di un’analisi infinita, toccare terra, dove il mondo, per dirla con Elitis, potrà tornare «bello daccapo alla misura del cuore».
La terapia della nevrosi sarà cadenzata lungo tre successive macro-fasi: riduzione; azzeramento; stabilizzazione – perché senza il consolidamento dei risultati ottenuti il rischio di regressione resterà sempre incombente e la guarigione non potrà mai dirsi definitiva.
Essa di sviluppa – in teoria come de facto – come una sorta di 'medicina a rilascio lento', che continua ad agire, lentamente ma inesorabilmente, ben dopo la sua somministrazione: il paziente, dopo la seduta, vive una fase di 'rielaborazione ex post', in cui ripensa alla 'parola che cura' ascoltata, rivive le emozioni provate e reinterpreta per suo conto il materiale del setting ma anche la sua stessa visione di sé e della sua vita alla luce di una nuova Weltanschauung. La seduta appena conclusa durerà insomma fino alla successiva, sicché fra un setting e l'altro si configurerà una sorta di 'continuum analitico', nell'àmbito di una vera e propria 'terapia ininterrotta'.
Bisogna infatti intendere che non esiste soltanto un 'vissuto', né questo si esaurisce in sé stesso; altrettanto importante è la forma che esso prende nel 'ri-vissuto', vale a dire nell' 'elaborazione analitica': come in poesia una parola ripetuta non è mai uguale a se stessa, così in terapia un'emozione rivissuta non è mai la stessa ma è sempre infinitamente altro.
Razionalità ed emotività sono – nell'uomo cosiddetto 'sano' (meglio si direbbe litoticamene: 'non nevrotico'), ma vieppiù nella nevrosi – separate; ma ciò non vuol dire che esse non comunichino: come fossero due Stati confinanti retti da governi di tipo differente e abitati da popoli parlanti lingue diverse ma imparentate, esse sono strettamente legate dalla loro continua contiguità, e continuamente devono tradurre nella propria lingua i reciproci enunciati. Ergo, dove c'è rimarcata irrazionalità, l'analista esperto non mancherà di riconoscere, e dunque di indagare, un quid irrazionale sottostante che oscuramente ma indiscutibilmente lo determina: come lo spericolato detective di un noir bogartiano, egli andrà huismanianamente à rebours risalendo le tracce misteriose e incerte del del crimine fino al disvelamento del mistero, insomma alla soluzione del 'giallo'. E se, come in ogni 'storia d'investigazione' che si rispetti, i due universi – quello razionale e quello emozionale – non coincidono, l'uno rimanda però all'altro come in un gioco fantasmagorico di specchi: esiste infatti una 'realtà dei fatti' come esiste una 'realtà delle emozioni', entrambe altrettanto vere anche quando paiono eludersi a vicenda.
La Psicoarteterapia, infine, ritiene che tre siano le ‘istanze fondamentali’ dell’individuo, una volta soddisfatti i ‘bisogni primarî’ (fame, sete, sonno): ‘comprensione’, ‘riconoscimento sociale’ ed ‘espressione’. Ogni essere umano ha infatti bisogno di sentirsi pienamente e profondamente compreso nelle sue caratteristiche psicologiche, culturali e intellettuali da almeno un altro individuo; ha bisogno di un ruolo sociale che senta adeguato a sé e alle proprie caratteristiche e realistiche aspirazioni (l’uomo concreto, di là dalle astrazioni di laboratorio della Psicoanalisi classica, non è mai solo individualità, ma, come diceva Aristotele, «zóon politikón»; idest va sempre inquadrato nel suo 'campo sociale'); ha bisogno di ‘esprimere’ e di ‘esprimersi’ (l’universalità dell’arte ne è la riprova), realizzando in piena libertà la sua necessità di comunicare se stesso e di concretizzare la sua creatività in esiti materiali o spirituali, dal discorso all’azione, dal manufatto alla vera e propria opera d’arte: l’essere umano è fatto per la libertà come l’uccello per il volo, rielaborando una celebre dizione dostoevskijana; e l’arte è proprio libertà nell’ordine e ordine nella libertà.
La libertà è certamente ciò che fa più paura all'essere umano; e vieppiù, obviously, al nevrotico: la nevrosi è perciò, in nuce, radicale e inestricabile paura della libertà.
È tutto questo che rende la psicologia, in ultima analisi, un'illuminazione emozionale su sé e sul mondo: uno Stato nella cui legislazione tutto è lecito, tranne la distruttività e l'autodistruttività, che sole sono bandite senza ritorno da questa moderna Politeía.
Roberto Pasanisi
(n. 12, dicembre 2023, anno XIII)
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