Su alcune tematiche della poesia italiana del Novecento: il ‘nuovo messaggio’ di Totò Merúmeni

È da leggere, innanzi tutto, una significativa pagina di De Santi: «Dopo il canto di dolore per la scomparsa degli dei dal mondo (Hölderlin e Leopardi), l’imbarco verso ignoti traguardi (Rimbaud [1] e Ungaretti) e dopo infine la perdita di centro, la parola poetica, scrostata la ruggine del convenzionale, scopre l’opportunità di slittare dentro un labirinto con la speranza di rintracciare la direzione attraverso la propria voce [novello Tèseo, novella Arianna] [2]. Il problema è conoscere in quali modi l’io narcisista e deluso, esibizionista indulgente e dissociato, arrivi col dovuto tempo a calarsi nelle cose intingendosi della loro pece e di quel baluginio che esse si portano dietro». [3]
L’artista, di questo ‘straniamento spirituale’, se ne fa drammatico testimone: per Gozzano – a prendere un nome al centro dell’«immaginario poetico» moderno – il raffronto più interessante, fra i tanti possibili, è forse con L’ipotesi, un’indimenticabile poesia pubblicata nel 1908 su «Il viandante» [4]. Qui il poeta opera una sorta di reductio ad absurdum, provando con corrosiva ironia a immaginare quale sarebbe stata la sua vita se egli non fosse stato un artista sotto l’incombere oscuro e kafkiano della morte: «Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia, / se già la Signora vestita di nulla non fosse per via...» (vv.1-2). Ne viene fuori un memorabile quadro di grigia mediocrità, di conformistica rispettabilità borghese al di fuori d’ogni slancio della bellezza e del sentimento, d’ogni geniale, rimbaudiano «dérèglement».
Non è dunque difficile scorgere, qui come in un’altra poesia paradigmatica, il Nuovo Messaggio del Poema Paradisiaco di D’Annunzio, quello che sarà uno dei temi di fondo, il sotterraneo filo rosso lungo cui si svolgerà la straordinaria esperienza poetica dell’anti-dannunziano (si fa per dire) Guido Gozzano, da La via del rifugio (Torino 1907) a I colloqui (Torino 1911). E in questa humus, infatti, che troverà le radici una delle figure più sconvolgenti e definitive del nostro Novecento, quel Totò Merúmeni (lui sì davvero anti-dannunziano!) che ne rappresenterà una sorta di geniale punto d’arrivo. Come anche tutto dannunziano sarà l’altro Leitmotiv del ‘terzo Guido’, l’intellettualistica polemica contro la volgarità del mercificatorio mondo borghese (insomma ‘industriale’) e il corollario che ne deriva, l’impossibilità ivi perpetuantesi dell’amore, ridotto a puro sesso [5] dopo che si è inaridita ogni trepidazione sentimentale (saranno, questi temi, anche di Eliot, da The Waste Land, 1922, a The Cocktail Party, 1949). Come per Gozzano l’amore potrà nascere soltanto sul «Libro» (vd. Paolo e Virginia, I colloqui), così per D’Annunzio esso può essere inseguito ed intravisto (ma mai posseduto) solo attraverso il ‘sogno’ (vd. tutta la sezione Hortus conclusus del Poema). L’aggiunta che Gozzano farà al Poema Paradisiaco sarà, in fondo, una sola, ma enorme: l’ ‘ironia’, nel senso socratico del termine, cioè il ‘distacco critico’ d’una delle più lucide intelligenze del Novecento italiano [6].
Tuttavia il discorso va inquadrato, almeno in embrione. in un contesto più ampio, per il quale (e specie per la figura emblematica di Elena) sono da leggere alcune dense pagine di Giorgio Barberi Squarotti, in cui però è da tener presente il senso soprattutto simbolico secondo il quale va interpretato il termine ‘borghese’: «la Leda, quando parla dopo la muta contemplazione che alla sua bellezza ha dedicato il protagonista, si rivela volgare e banale, in questo modo già indicando quell’ambiguità e quella doppiezza che significano pure l’inevitabilità, nel mondo borghese, della compresenza di bellezza e di degradazione, di abiezione e di sublimità. [...] Arte e malattia si congiungono [...] nello stesso personaggio, a rilevare il momento agonico della bellezza, l’incombere della morte sulla bellezza: ma è una morte che si definisce [...] nei termini [...] dell’involgarimento e dell’invilimento, appunto come è necessario che accada nel contesto borghese», a meno che non si attinga, come nel Poema Paradisiaco, la dimensione fantastica del sogno e dell’ ‘altro’ dal mondo contemporaneo.
«La volgarità della vita ha contagiato l’intellettuale solitario e l’artista: questa è la vera malattia, quella, del resto, che ha in suo possesso anche la Leda. [...] Malattia e arte, bellezza e volgarità, tragicità e abiezione sono aspetti e modi non più divisi, non più distinti nel momento attuale dello sviluppo borghese, ma si implicano l’un con l’altro, in modo indissolubile, che costringe il protagonista intellettuale a prendere coscienza dell’attentato continuo che è la vita rispetto al privilegio dell’arte e dell’intelligenza e della bellezza, e dell’inevitabilità della compromissione con la volgarità della vita, che sempre meno può essere costruita come un’opera d’arte essa stessa, autonoma e separata dalla vita comune, quella obbediente all’ideologia borghese. Vita e arte finiscono a contrapporsi, o, meglio, l’arte è immersa nella volgarità della vita, ha perso ogni privilegio di separazione [...]. Se si legge la Laus vitae, alcuni momenti fondamentali del poema dannunziano riguardano il rapporto fra l’artista e quel luogo tipico della vita moderna che è la città», che non a caso è totalmente elusa nel Poema Paradisiaco, fantasticamente sostituita dai ‘giardini dell’anima’ o da paesaggi puramente onirici, sul filo d’una trasognata rêverie. «Il protagonista della Laus vitae all’inizio del viaggio in Grecia incontra, nel [postribolo], sotto figura di serva, Elena invecchiata, e ne rievoca la vicenda di degradazione e di abiezione, simbolo della prostituzione, lungo la storia, della suprema bellezza [...]. È il rifiuto dell’idillio [attuato, ma solo apparentemente, nel Poema Paradisiaco], il tradizionale rifugio dal magma della storia, dall’incombere della tecnologia e dell’industria, dai problemi del mondo moderno e della produzione in serie: l’intellettuale e l’artista sono radicati nell’orrore della città, sia pure con disgusto e con disperazione». Tutto ciò è da appaiare alla ‘terra desolata’ di Eliot e alla `morte dell’aura’ di Walter Benjamin [7].
«Nel simbolo di Elena divenuta serva del [postribolo] di Patre si condensa l’immagine della bellezza prostituita e divenuta oggetto di commercio nel mondo borghese, mercificata [e abbrutita], in altre parole, come ogni altro valore [...]. D’Annunzio espone, così, il più alto grado di coscienza dei conti che l’artista deve fare con il mondo borghese e con il sistema di produzione capitalistico [ma direbbe meglio ‘industriale’], quale sia possibile incontrare nella letteratura italiana fra ottocento e novecento. Fondamentali vi appaiono: l’idillio respinto e rifiutato (anche se, poi, vi sarà il riflusso di Alcyone, che è la stagione solare contrapposta nella finzione selvaggia della Versilia alla contaminazione del mondo moderno e borghese [così come i ‘giardini’ del Poema Paradisiaco rappresentavano anche la laboritiana «fuga» e l’ ‘altro’ incontaminato dal mondo moderno] [...]) e la scelta dell’attraversamento della volgarità e dell’orrore della società borghese», in quanto «l’artista, appunto, deve attraversarne fino in fondo l’inferno, e farsene [lucido] testimone». [8]


Roberto Pasanisi
(n. 2, febbraio 2023, anno XIII)



NOTE

(1) Si vedano specialmente le Illuminations (1874-75).
(2) Cfr. Remo Pagnanelli, Osservazioni sull’ “angolo da trovare” di Sereni, in “Testuale”, 2, 1985, pp. 30-35.
(3) In Gualtiero De Santi, Nello spazio della dispersione, Napoli, Glaux, 1983, p. 4.
(4) L’edizione di riferimento è Guido Gozzano, Poesie, revisione testuale, introduzione e commento di Edoardo Sanguineti, Torino, Einaudi, 1980 III ed. (I ed. 1973).
(5) Il «sesso allo stato puro», come dice uno dei personaggi di Jules et Jim (1961), il più bel movie di François Truffaut.
(6) Per tutta questa problematica, seppur non privo di qual che forzatura, è singolarmente illuminante, per quanto concerne il versante italiano, il libro di Giorgio Barberi Squarotti, Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori, 1976. Per un discorso più ampio, vd. Roberto Pasanisi, Le «muse bendate»: la poesia del Novecento contro la modernità, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000.
Per Eliot si può cominciare da Fernando Ferrara (a cura di), Poesia e teatro di T. S. Eliot. Passi scelti e commentati, Napoli, Liguori, 1960.
(7) Vd. in particolare Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1981 (I ed. 1962).
(8) Barberi Squarotti, Poesia..., cit., pp. 32-35.