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Il gambetto dello scrittore. Pontiggia, Nero Wolfe e gli scacchi
Il mio primo vero incontro con Giuseppe Pontiggia avvenne sotto il segno di Nero Wolfe. Come ho già avuto modo di raccontare [1], tutto risale all’estate del 1975, quando comperai negli Oscar del giallo Mondadori Nero Wolfe contro l’FBI di Rex Stout, prefazione e postfazione di Giuseppe Pontiggia. Fino a quel momento avevo legato il nome dello scrittore alla sua intensa collaborazione al periodo milanese del «Verri», la rivista letteraria diretta dal mio maestro Luciano Anceschi, sotto la cui egida Pontiggia aveva esordito nel 1959 pubblicando nella collana i Quaderni del Verri i racconti della Morte in banca. Ma appena ebbi tra le mani Nero Wolfe contro l’FBI mi resi conto che a legarmi a lui c’era anche una perversione in comune: la passione per i romanzi polizieschi di Rex Stout. Devo infatti allo scrittore americano e al suo detective Nero Wolfe il mio imprinting in giallo. Per il pachidermico investigatore dall’ego bulimico, maniaco del buon cibo e delle orchidee, ho sempre avuto un debole fin da quando, dodicenne, scovai quella famigerata copia di Nient’altro che la verità (The Second Confession) dimenticata dai miei zii di Milano, in realtà prozii di mio padre, in una vecchia casa di campagna che non abbiamo più da tanti anni, e fu così che per leggere di nascosto la mia prima avventura di Nero Wolfe vendetti l’anima al diavolo.
Vedere condivisa la mia fissazione wolfiana da uno scrittore che stimavo (senza quasi averlo letto) mi diede la scossa. Divorai quelle sue pagine nitide e precisissime – soprattutto la postfazione – fino a impararne a memoria brani interi. Dev’essere cominciata di lì quella specie di identificazione mitologica fra Nero Wolfe e il Peppo, come tutti gli amici lo chiamavano e ben presto avrei cominciato a fare anche io. A suggerirla fu, innanzitutto, il colpo d’occhio: Pontiggia era un uomo corpulento, in perenne conflitto con le diete alle quali periodicamente si sottoponeva. Lui stesso ci scherzava spesso. Ma la stazza fisica ha un peso relativo per la nostra plicometria interiore: ce lo ricorda Chesterton, affermando che dentro a ogni uomo grasso c’è un uomo magro che strepita e si dimena per uscire allo scoperto; lo ribadisce Rex Stout – che era magro, in antitesi a quel senso di robusto e squadrato insito nel suo cognome – mettendo accanto a Wolfe il suo doppio mercuriale e dinamico: Archie Goodwin.
In effetti, la somiglianza tra Pontiggia e Nero Wolfe mi è sempre apparsa più profonda del semplice responso d’una bilancia. La delinea lui stesso, in quella famigerata postfazione, paragonando la tecnica investigativa di Wolfe al principio orientale del non-agire. Per poi subito aggiungere: «Questa tattica non è evidentemente l’unica che Wolfe adotta. Sarebbe troppo ingenuo e inoltre incompatibile con la sua professione che esige essenzialmente – come il gioco degli scacchi (il corsivo è mio) – la duttilità, ossia la capacità di individuare la mossa giusta non prima, ma dopo ogni mossa dell’avversario: dote che, contrariamente a quanto spesso si crede, richiede enormi riserve di passività e di pazienza (e del resto la mole fisica di Wolfe ne è la conferma)» [2].
Mi sembra un perfetto identikit di Pontiggia per interposto personaggio: duttilità, pazienza, e quella forma di passività – una sorta di «bradipismo positivo» – che maschera la capacità di agire nel modo giusto al momento giusto. Un autoritratto psicologico che viene nascostamente svelato proprio in quel breve inciso che paragona la detection al gioco degli scacchi. È un paragone non inusitato, ma appare davvero rivelatore in rapporto alla poetica di Pontiggia. Basti ricordare l’importanza che gli scacchi e il poliziesco rivestono nell’Arte della fuga (1968) e nel Giocatore invisibile (1978), dove «il tema degli scacchi come metafora della vicenda umana», scrive Daniela Marcheschi, viene declinato «in chiave di descrizione fenomenologica più che in senso metafisico» [3], e l’immagine della scacchiera «è il simbolo del tentativo di ‘giocare’ il proprio destino, ma anche dell’illusione di poterlo pianificare […] e dell’inevitabilità tragica con cui si scontano gli errori e la scelta di fuggire dalle proprie responsabilità» [4]. Frequenti sono del resto i riferimenti scacchistici di Pontiggia anche al di fuori delle opere narrative, in molti interventi sui giornali, per tacere della sua prefazione all’edizione italiana della Psicologia dei giocatori di scacchi di Reuben Fine.
Nel romanzo poliziesco di stampo classico, dove la soluzione consiste nello scioglimento logico d’un enigma, la scacchiera è spesso il simbolo ideale della partita che l’intelletto dell’investigatore deve giocare per trionfare contro l’astuzia dell’assassino, in un ventaglio di autori da Conan Doyle a Ellery Queen a S.S. Van Dine, che nell’ Enigma dell’alfiere (The Bishop Murder Case, 1928) fa addirittura giocare uno dei personaggi contro un vero campione di scacchi, il polacco Akiba Rubinstein (1882-1961), tra i più celebri del primo Novecento. Ma a interessare Pontiggia non è tanto la ratio formale che guida le mosse dello scacchista, quanto le sue deviazioni. «Ci si può liberare dalle perversioni? È difficile, rispondono gli psicoanalisti, che lucrano comunque sul margine di speranza. Inconfessate le resistenze dei pazienti, che traggono dalle loro perversioni i piaceri più perversi» [5] scrive in una recensione apparsa nel 1999 su «Panorama»con il titolo Nei bassifondi della letteratura. La frase suona come un’ironica confessione. È un aspetto colto bene da Stefano Bartezzaghi in un articolo ingegnoso, pubblicato il 14 giugno 2006 su Repubblica, a tre anni dalla scomparsa dello scrittore. «L’agonismo degli scacchi affascina Pontiggia,» scrive Bartezzaghi «ma non lo affascina nel suo decorso più usuale bensì nelle sue perversioni. A lui interessano le devianze, i disturbi, i calci sotto il tavolo, le umiliazioni, l'ansia ingenerata dall’accalcarsi del pubblico, le dinamiche perfide dei circoli di scacchi, i tentativi di distrarre l’avversario che è in vantaggio, le modalità suicide del sacrificio e del ritiro, il gusto voyeuristico del kibitzer, che è colui che ama vedere giocare come gli dei dell’Olimpo si affacciano a vedere dall’alto le vicende umane» [6].
Un voyeurismo, aggiungo io, certamente condiviso dal lettore di romanzi polizieschi che, seduto confortevolmente in poltrona, ama seguire col suo sguardo dall’alto una trama intricata, provando brividi e spasmi d’angoscia per interposto personaggio, nell’attesa della logica e sgargiante soluzione finale che rimetterà le cose a posto. E quale controfigura del lettore sedentario può essere migliore del pachidermico investigatore creato da Rex Stout, a sua volta motore immobile e causa prima della partita a scacchi fra il detective e l’assassino?
Non a caso Pontiggia inizia la sua Postfazione a Nero Wolfe contro l’FBI (Oscar del Giallo Mondadori, prima edizione aprile 1975) con queste parole : «Uno dei tratti memorabili di Nero Wolfe, come detective, è che non si muove. Erede geniale e maniaco della tradizione inglese, che coltiva l’analisi sedentaria e la ruminazione ipocondriaca, non esce quasi mai dalla sua casa di arenaria, dove compie quotidianamente due riti improrogabili: la visita di due ore alla serra di orchidee e la degustazione dei pranzi estrosi preparati dal cuoco Fritz Brenner durante i quali è rigorosamente proibito parlare di lavoro.
Si muove invece continuamente, frivolo e dinamico, il suo assistente Goodwin, che rappresenta l’anima americana della coppia, cioè il giallo di azione» [7] (i corsivi sono miei).
Vale la pena di fare un confronto con l’incipit del saggio intitolato Nero Wolfe contro l’FBI, raccolto nel Giardino delle Esperidi (Adelphi, Milano 1984): noteremo che dalla frase sono stati espunti l’aggettivo estrosi, riferito ai pranzi preparati dal cuoco Fritz, e l’avverbio rigorosamente relativo alla proibizione di parlare di lavoro durante i pranzi medesimi. Inoltre, frivolo e dinamico, la coppia di aggettivi usati per definire Archie Goodwin, viene rovesciata in dinamico e frivolo. Può sembrare un’inezia; invece, si tratta – come sempre in Pontiggia – di una scelta accuratamente ponderata. Sottolineare il dinamismo prima della frivolezza – che in Archie è un po’ una maschera e una forma di understatement per distanziarsi ironicamente dal suo «padrone e donno» senza smettere di idolatrarlo – aiuta a definire il carattere dell’alter ego di Wolfe più di una lunga spiegazione come questa.
Altri confronti testuali tra la pre e postfazione all’Oscar e il saggio nel Giardino delle Esperidi, sui quali non mi dilungo, dimostrerebbero ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, l’attenzione lenticolare di Pontiggia, tesa a evitare ogni ridondanza per rendere il linguaggio più essenziale ed espressivo. Mescolando le frasi, tagliando citazioni e aneddoti, cambiando o biffando aggettivi e avverbi, isolando i periodi nel bianco della pagina per potenziarne il significato, o spostandoli come fossero pezzi su una scacchiera, Pontiggia ci fa gettare uno sguardo sul funzionamento della sua officina di scrittore.
Il nesso fra gli scacchi e la letteratura balza agli occhi evidente in Scacchi e paranoia, uno scritto che nel montaggio sapiente del Giardino delle Esperidi viene subito dopo il saggio su Nero Wolfe contro l’FBI: «Gli scacchi sono l’unico gioco in cui una tradizione secolare si configura nel senso indicato da Eliot per la letteratura: immenso patrimonio che riprende a rivivere, riattualizzato ogni volta dai grandi giocatori, che vi attingono esempi, riflessioni, stimoli» [8].
Poco più avanti, il paragone si dilata a includere la critica: «Non stupisce […] che all’immenso sviluppo della critica letteraria negli ultimi tre secoli abbia corrisposto un dilatarsi altrettanto stupefacente dell’analisi scacchistica: tanto che anche qui si parla non solo di classico e romantico, di tradizione e avanguardia, ma anche di stile capitalistico e di scuola sovietica […]» [9].
Ma ciò che qui mi preme soprattutto sottolineare è che, da scrittore patito degli scacchi, Pontiggia ama procedere secondo la mossa del cavallo, pezzo flessibile che può saltare altre pedine muovendosi sia in orizzontale che in verticale. «Per me il testo non è una realtà assoluta, fissa e immutabile» mi dichiarò una volta in un’intervista. Basta vedere come ricombina in un nuovo catalogo di mosse i «pezzi» della Prefazione e della Postfazione al giallo di Wolfe pubblicati nel 1975, dando vita a un nuovo organismo (il saggio destinato al Giardino delle Esperidi), proprio come un maestro di scacchi ridispone mentalmente le sue pedine, o un giallista costruisce una variante imprevista del «delitto della camera chiusa» per vincere la sua partita con il lettore.
«Motivo conduttore del romanzo» scrive Pontiggia «sarà la non-azione di Wolfe, svolta con una serie imprevedibile di variazioni. Essa non potrà non provocare la reazione dell’FBI, che infatti tenterà subito una intimidazione preventiva: il ritiro della licenza […]. Il Nemico verrà però neutralizzato in un modo inedito: rinunciando a combatterlo [10].
Ne consegue che i risultati più brillanti verranno ottenuti «non cercando di inibire l’azione dell’FBI, ma favorendola e poi sfruttandola con impudenza» [11]. Un po’ come in quelle discipline marziali del lontano Oriente, tipo il Wing Tsun o il Judo, che non a caso significa «via della cedevolezza» (da Ju, cedevolezza, e Do, via, sistema), entrambe derivanti dal Jiu jitsu, il cui principio consiste nell’assecondare i movimenti dell’avversario, approfittando della sua forza per farlo cadere. Ma questo sfruttamento dell’aggressività altrui, che in Nero Wolfe contro l’FBI è spesso usato a scopo parodico nei confronti degli stereotipi del genere (esilarante è ad esempio l’inutile pedinamento delle controfigure di Wolfe e Goodwin, un autentico pezzo di bravura), presenta pure evidenti analogie con certe mosse degli scacchi. Un gioco che non può certo mancare, accanto al cibo e alle orchidee, tra le passioni di quell’ottavo di tonnellata di genio puro che è l’eccentrico e inarrivabile Wolfe. E infatti il flemmatico «detective da poltrona» ideato da Rex Stout ne conosce bene le strategie. Wolfe non sarà all’altezza dell’immenso Paul Morphy (1837-1884), alla cui biografia Pontiggia dedica il quinto capitolo del Giocatore invisibile, che era capace di battere dieci avversari contemporaneamente giocando a occhi bendati; tuttavia, è abile abbastanza da poter fare le sue mosse a mente, senza avere davanti la scacchiera.
Questa capacità lo aiuterà a risolvere un caso a prima vista impossibile in un giallo pubblicato da Stout nel 1962: Scacco al re per Nero Wolfe, in originale Gambit ossia «gambetto» o «gambitto» (come preferisce tradurre Laura Grimaldi). Non so se Pontiggia conoscesse questo romanzo, che precede di tre anni la pubblicazione di Nero Wolfe contro l’FBI (titolo originale: The Doorbell Rang, 1965). Probabilmente no, altrimenti l’avrebbe citato nella postfazione al romanzo di Stout. Ecco in breve la trama: un esperto giocatore di scacchi, Paul Jerin, viene avvelenato durante un torneo e la polizia arresta Matthew Blount, il membro del club che ha servito alla vittima la cioccolata calda contente l’arsenico letale. Wolfe viene assunto per liberarlo dai sospetti, ma scoprirà ben presto che nessun altro aveva un movente o l’occasione per agire. A questo punto il geniale detective comincia a sospettare che l’assassinio di Jerin sia solo un mezzo per ottenere la condanna a morte di Blount, uno stratagemma simile al gambetto nel gioco degli scacchi: un’apertura in cui si sacrifica un pedone per ottenere un vantaggio strategico.
Ma chi di gambetto ferisce, di controgambetto è destinato a perire. Wolfe e Goodwin riusciranno a fare lo sgambetto all’assassino, tirando in ballo anche un’altra mossa degli scacchi: il controgambetto di Albin, una variante del gambetto di donna non molto amata dagli specialisti, che però può offrire buone possibilità di controgioco. E qui, dietro il volto pletorico e impenetrabile di Wolfe in procinto di risolvere il suo “caso impossibile”, mi pare di veder sbucare il sorriso ironico di Peppo Pontiggia, «giocatore invisibile» che studia le mosse e muove le sue pedine sulla scacchiera del romanzo per realizzare la partita perfetta, spiazzando il lettore a colpi d’ ingegnose contromosse con la stessa flemma inesorabile dell’armchair detective di Rex Stout nel perseguire l’assassino.
Riapro l’Arte della fuga. Pontiggia me ne regalò una copia con dedica della seconda edizione, pubblicata nel 1990 da Adelphi, che conservo gelosamente come tutti i cimeli della nostra amicizia. Nella bandella siglata G. P., evidentemente di mano dell’autore, trovo scritto: «Che cosa incontra il lettore in questo libro? Incontra fughe, inseguimenti, delitti, insomma il meccanismo e i fatti di un giallo: però ignora non solo chi è l’assassino, ma chi è la vittima. Compie un viaggio nel passato che rende stranamente archeologico anche il presente […]. Entra in un circolo scacchistico e in una metafisica del gioco […]. E l’investigazione che coinvolge i personaggi, intravisti come se si muovessero dietro vetri smerigliati, diventa alla fine un interrogativo sul destino della nostra specie» [12].
Non c’è descrizione migliore del labirinto di enigmi entro cui si dipanano le nostre vite: uno zig-zag di inganni e illusioni, depistaggi e tradimenti, che solo la sfida incessante della scrittura, ci ha insegnato Pontiggia, può provare a tenere sotto scacco. In attesa di quel finale di partita che nessun controgambetto potrà mai contrastare.
Roberto Barbolini
(n. 4, aprile 2023, anno XII)
NOTE
[1] Si veda R.Barbolini, Nero Wolfe in via Pastrengo, Greco & Greco editori, Milano 2017, pp.9-18.
[2] G. Pontiggia, Postfazione in R. Stout, Nero Wolfe contro l’FBI, Oscar del Giallo Mondadori, Milano 1975, p. 232.
[3] D. Marcheschi, La letteratura «in prima persona» di Giuseppe Pontiggia, introduzione a G. Pontiggia, Opere, I Meridiani Mondadori, Milano 2004, p. XXXIX.
[4] D. Marcheschi, ivi, p.XL.
[5] G. Pontiggia, Nei bassifondi della letteratura, in “Panorama”, 8/4/1999.
[6] S. Bartezzaghi, Pontiggia, gli scacchi e l’amore per gli ossimori, in “la Repubblica”, 14/6/2006.
[7] G. Pontiggia, Postfazione, cit., p.231.
[8] G. Pontiggia, Scacchi e paranoia, in: Id., Il giardino delle Esperidi, Adelphi, Milano 1984, p. 71.
[9] G. Pontiggia, ivi, pp.71-72.
[10] G. Pontiggia, Nero Wolfe contro l’FBI , in: Id., Il giardino…, cit.,pp.64-65.
[11] G. Pontiggia, ivi, p.65.
[12] G.[Giuseppe]P. [Pontiggia], bandella di copertina dell’Arte della fuga, 2a ed., Adelphi, Milano 1990.
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