Un’altra biografia di Ramiro Ortiz (parte seconda)

In collaborazione con Doina Condrea Derer, rinomata italianista dell'Università di Bucarest, pubblichiamo un interessantissimo inedito su Ramiro Ortiz (Chieti, 1º luglio 1879 – Padova, 26 luglio 1947). L’autore, il  prof. Riccardo La Rovere, ha insegnato al Ginnasio 'Ramiro Ortiz' di Chieti, cittadina dov'è nato il fondatore del Seminario d'Italiano di Bucarest, della rivista «Roma», dell'Istituto Italiano di Cultura in Bucarest, insigne studioso e traduttore dal romeno. Il prof. Riccardo La Rovere ci propone una monografia con la ricostituzione per la primissima volta dell'albero genealogico degli Ortiz e l'accento posto sui legami del Nostro con il suo natio Abruzzo.

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Un’altra biografia di Ramiro Ortiz

Ortiz e l’Abruzzo

Dopo i primi approcci metodologici si nota in Ortiz una predilezione nei confronti dei parenti del lato materno. Il libro autobiografico Posseggo una villa, pubblicato nel 1935 all’età di 56 anni, è dedicato, almeno per una metà, a descrivere il parentado materno. Nulla invece si conosce di quello paterno. S’è dovuto scovare una rara copia della novella Rovine scritta da Ortiz nel 1899 e pubblicato da Pierro, per acquisire notizie sugli Ortiz.
Questa novella scritta a vent’anni mostra tutta quell’irruenza giovanile che fa dire a Rajna, suo venerato maestro, «Giovanotto lei scrive troppo, deve scrivere di meno». Infatti in questa novella è tutto troppo. Anche la punteggiatura. È ripetitivo quando descrive le falciatrici all’opera sotto il sole d’agosto o i fasci di rose della cugina.
In questa novella Ortiz mescola un po’ di vero e un po’ di quasi vero. Dopo aver scoperto che il nonno Ermando e il suocero Clodomiro non sono parenti molto presentabili, allora prende in prestito dallo zio Oreste il suocero e lo fa diventare suo zio, e giacché ci si trova gli cambia pure il nome, da barone don Bernardo Cornacchia a barone Kaufmann certamente più teutonico. È quasi vero quando si innamora di una cugina civitellese, che si chiama Bice ma che chiamerà Cesira; è vero quando descrive la casa paterna annerita dal fumo della furia borbonica.
Quanta differenza tra l’irruenza giovanile e la pacatezza, la serenità della maturità.  Nei suoi ricordi di ragazzo Ortiz non parla quasi mai di Chieti, la cita nel suo libro autobiografico Posseggo una villa… una volta: «Vi si accedeva per una discesa ripidissima: la costa, che rappresentava per zio Peppino (che soffriva d’asma) l’ostacolo insuperabile per “andare a Chieti” come diceva lui quasi che Chieti fosse lontana molti chilometri e non le poche centinaia di passi della costa». E poi a proposito del babbo che «era un appassionato coltivatore di fiori e del gran balcone della casa di via S. Agata aveva fatto un vero giardino, una delle sette meraviglie di Chieti, una vera gloria della piccola città abruzzese». Non si sente tanto chietino, quanto abruzzese.
Già nel preludio del suo libro, nella prima riga, dice: «Posseggo una villa in Abruzzo…» e poi «La villa esiste laggiù, nel mio Abruzzo nevoso», quella villa che ha fatto prendere tante cantonate a quei lettori distratti e veloci che non sono arrivati a leggere l’ultima riga: «Ma, allora… la tua villa… è il camposanto?»
Si sente abruzzese quando scrive: «Poi… ci facemmo grandi e l’affetto pur vivo, secondo l’uso e il carattere abruzzese, ci fu nascosto per un pudore tutto abruzzese di mostrar quello che si sente». Oppure: «le ciambelle di pasta lievitata e fritte nell’olio fortigno e verdastro degli olivi d’Abruzzo», o «i broccoli strascinati dal forte sapore di olio, dell’olio abruzzese verdastro e non eccessivamente raffinato, ma così delizioso nel suo sapore amarognolo di vera oliva», o quando vanta il vino abruzzese: «Maria del Casino veniva col vassoio dei biscotti e dei bicchieri tinnenti giocosamente ad ogni scossa. Si versava il marsala (o il vino cotto abruzzese, migliore anche del marsala)».
È abruzzese anche quando ricorda il rimedio per l’ustione della sorella: «Sulla scottatura, secondo l’uso abruzzese, si mise un impiastro di patata cruda grattugiata, che fece miracoli», oppure nel modo di stabilire rapporti di amicizia: «Mi par di ricordare che mi sono fatto compare di fiori colla bambina mia coetanea secondo il poetico uso abruzzese che permette manifestar la propria simpatia, così senza fini pratici, senza alcuna conseguenza per l’avvenire. A San Giovanni si manda a qualcuno (o a qualcuna), il “ramaietto” consistente in fiori freschi o in una palma di confetti di Sulmona disposti in forma di ramo a fioretti. A San Pietro se il “ramaietto” è accettato (e, naturalmente è accettato sempre perché nessuno s’espone a un rifiuto e si sa che il dono simbolico sarà gradito) si riceve un altro “ramaietto” e così si diventa compari e comari “a fiori”».
Ricorda il clima: «…si mettevano nella serra i fiori e le piante forestiere che non avrebbero potuto resistere all’inverno abruzzese, talvolta rigidissimo». Ricorda poi la sua fanciullezza: «San Giuseppe e San Luigi Gonzaga, i santi della castità, i santi della mia fanciullezza pura, della mia fanciullezza abruzzese, castità che mi fece piangere di vergogna e di orrore davanti al turpiloquio di una quarta ginnasiale napoletana, in cui mi sentii sperduto, avvilito, contaminato; io, il piccolo abruzzese abituato all’aria sana dei miei monti, al sano mistero sessuale della natura; io, il piccolo abruzzese dei garofanetti di montagna e dei gigli dei santi».

Nel suo libro Viaggio ai regni di Madonna Poesia, stampato da Campitelli, Foligno, nel 1923, ricorda ancora l’Abruzzo: «Oh, poter mangiar di quelle pesche che io so, in quel dolce orto paterno, là tra i monti dei miei Abruzzi lontani!»; e ancora, dopo una lunga, noiosa e alquanto magra, lite giudiziaria, rientrato in possesso della casetta colonica e dell’orto paterno, scrive: «Feci un salto dalla contentezza. Sarei tornato in Abruzzo, sarei tornato da padrone nell’orto paterno». La casetta in questione era quella dei nonni, che un testamento posteriore, dimostrato poi falso, assegnava alla serva, la famosa «Maria del Casino che, dopo la morte di nonna Agata era l’unica donna in quella casa di uomini e si dava l’aria un po’ di padrona».
Nel suo Medioevo rumeno, in uno studio sulle ballate popolari romene, da sottile comparatista qual era, ricorda una poesia popolare abruzzese: «Cicirenelle teneve nu galle / tutte la notte ci iev’a cavalle...», e in Varia Romanica paragona un verso del Decamerone a «una poesiola che ho sentito anch’io cantare in Abruzzo quand’ero adolescente: sull’altalena non voglio andar:/mi fa venir il mal di mar».
Ancora nel suo Studi sul canzoniere di Dante per illustrare come i racconti popolari di origine occitanica o in lingua d’oïl si diffondono e sono ripresi anche da Dante, ricorda «una canzone popolare che aveva sentito cantare nella sua fanciullezza e che dice: te voje fa’ ‘na case e ‘na cucine/’na fenestrella pe cce fà ll’amore;/quand’è belle lu prime amore,/ chi de te se vo’ scurdà!».
Si ricorda dell’Abruzzo quando il Rajna lo rampogna affettuosamente, «lei pubblica troppo», e lui si difenderà citando il proverbio «ho dovuto fare da Marta e da Maddalena. Per diffondere la cultura italiana ho dovuto fare il maestro elementare, il professore secondario, quello universitario ed anche un po’… il giornalista».
Un altro filo sottile lega l’Abruzzo e Ortiz o meglio, l’Abruzzo e la filologia. Ortiz cita spesso nei suoi studi il suo conterraneo Cesare De Lollis, ha come docente a Napoli il molisano, ma allora ancora abruzzese, Francesco D’Ovidio, viene segnalato per la cattedra di Lingue e letterature Neolatine all’Università di Padova da Vincenzo de Bartholomeis, aquilano di Carapelle Calvisio che subentrerà poi a Cesare De Lollis alla cattedra di Storia comparata delle letterature neolatine, a Genova. Di Teramo è Camillo Guerrieri Crocetti, nato nel 1892, docente di filologia romanza e letteratura spagnola all'Università di Genova. Quel Guerrieri Crocetti che pubblicherà, nel 1947, Banchetti tragici nelle letterature romanze di Ortiz per la Romano Editrice Moderna di Genova, nella «Collezione: Studi di Filologia Neolatina», da lui diretta. Un altro filologo è Luigi Di Benedetto, di dieci anni più giovane, essendo nato il 2 giugno 1889 ad Introdacqua, paese nelle vicinanze della più nota Sulmona. Sembrano tutti figli del filologo chietino Pasquale De Virgilii che nel 1835 fonda la rivista letteraria «Filologia Abruzzese».


Ortiz e D’Annunzio


Un dualismo irrisolto. Ortiz spiega la sua posizione personale nei confronti di D’Annunzio con i versi di Catullo, «Odi et amo». «Non ho mai potuto soffrire il suo amoralismo e il suo estetismo. C’è in lui e nella sua arte qualcosa di falso. Ma quando è sincero, ne sono entusiasta. Amo». Questa antipatia personale ha origini molto lontane. Ortiz era bambino e vennero a casa due studenti a farsi correggere i loro versi dal padre. Erano Edoardo Scarfoglio e Gabriele D’Annunzio. Quest’ultimo frequentava casa Ortiz perché il padre era stato il padrino di battesimo della madre di Ramiro. Sono tutti e tre nel salotto giallo ad aspettare, quando D’Annunzio si rivolge al piccolo Ramiro dicendogli: «Appropinquati, mica ti mangio». Ortiz non capisce il significato di quella parola, ma riconosce il tono beffardo e cattivo, così si allontana imbronciato.
Quest’impatto fu sgradevole per il piccolo Ramiro. Ha modo di incontrarlo di nuovo. Da studente universitario, è in villeggiatura, ospite degli Obletter, nella loro tenuta di Villa Reale, sulla strada che da Chieti porta al mare. Qui ha l'occasione di conoscere Michetti, che rincontra spesso sulle strade di Francavilla durante le loro gite in bicicletta. Anche Michetti è un buon ciclista e spesso pedalano insieme. Una volta incontrano D’Annunzio che cavalca sulla riva del mare. Si ritrovano, ospiti a pranzo, da Michetti. L’impressione di antipatia si accentua.
Passa ancora il tempo e Ortiz scrive: «adoro l’arte dannunziana, la grande arte di Elettra e di Alcione, delle grandi odi, ma questa sua preziosità mi sembra anch’oggi il difetto più grande dell’opera di Gabriele D’Annunzio». Insomma, il continuo dibattersi tra ammirazione e antipatia.


Gli inizi


A Napoli, dopo aver frequentato il liceo, si iscrive alla facoltà di Lettere, dove si laurea brillantemente nel 1902 discutendo una tesi in filologia romanza dal titolo: Le imitazioni dantesche e la questione cronologica nelle opere di Francesco da Barberino e ha come docenti Bonaventura Zumbini, Michele Kerbaker e Francesco D’Ovidio.
Durante il periodo universitario, scrive sulla rivista «Flegrea», di cui sarà anche direttore, sul «Fanfulla della Domenica» e sul «Marzocco». Ottiene una borsa di studio per frequentare l’Istituto di studi superiori e di perfezionamento di Firenze. La notizia viene festeggiata con un regalo da parte di papà Giusto di un paio di scarpe di capretto giallo. Regalo che da una parte gratifica il figliolo, dall’altra tiene conto del bilancio di una famiglia numerosa.
E così, di lì a poco, con le famose scarpe, una valigia di tela cerata e un ombrello «elettrico» (un ombrello a scatto, n.d.r.), il giovane Ramiro parte per Firenze. Avrà come docenti Pio Rajna, Ernesto Giacomo Parodi e Guido Mazzoni.
Dal 1903 al 1907, seguendo le orme paterne, insegna nei ginnasi di Lucera e Salerno, poi al liceo «Vittorio Emanuele» di Napoli.
Nel 1908 sposa a Napoli Bice Ortiz, la cugina di Civitella che lo seguirà sempre nei suoi spostamenti e alla quale lui dedicherà parole affettuose nel Viaggio ai regni di Madonna Poesia: A te, mia Bice, le cui mani gentili prodigano da per tutto i fiori nella stanza del mio tormento e della mia delizia; a te che ti sei scelta la parte più grave per lasciare a me il tempo di viaggiare nei regni di Madonna Poesia, dedico queste pagine che ti sono dovute: dovute al tuo sacrificio giocondo di tutti i giorni.










Riccardo La Rovere
(n. 11, novembre 2020, anno X)