Eduardo De Filippo e la sua prima opera teatrale ufficiale

Il teatro ha subito, nei secoli, molte variazioni, ha conosciuto alti e bassi, dall’essere quasi considerato un apparato di stato nel periodo greco-latino, alla sua negazione durante il Medioevo, anche se in realtà una sua forma, forse sbiadita, quasi nascosta, continuava a esistere nelle rappresentazioni religiose, proprio quella religione che aveva tentato di eliminarlo attraverso una lenta opera di demonizzazione. Fin dai tropi, in particolare il più noto, il quem quaeritis? della messa di Pasqua, pian piano il teatro ha ripreso il suo posto nella società.[1] Il processo di semiotizzazione del teatro, iniziato nel Seicento prosegue fino al Novecento, trasformandone i canoni e concentrando l’attenzione non più solo sulla parola, ma soprattutto sull’azione fisica e sull’emozione interpretativa dell’attore, con lo scopo di liberarlo dalle catene culturali per consentirgli di interpretare la sua natura istintiva: l’attore al centro del palcoscenico. E il Novecento partorirà uno dei più grandi figli, ma anche padri del teatro: Eduardo De Filippo, che, attore, autore, regista, è stato ed è tuttora un’icona del teatro italiano, non ha bisogno di presentazioni, la sua fama lo precede. Tradotto in molte lingue, ha portato il teatro vernacolare in tutto il mondo, cosa non facile, perché il dialetto, in particolar modo quello napoletano, poco si presta a essere trasferito in altri idiomi, ma il suo mito, fardello talvolta ingombrante da portare, è riuscito ad abbattere i tanti ostacoli e lo ha consacrato sulla scena internazionale, perché come afferma Peter Brook: «La scena è riflesso della vita, ma tale vita non può essere rivissuta neanche per un momento senza un sistema di lavoro basato sull'osservazione di certi valori e sull'emissione di giudizi di valore»[2].
Attore poliedrico, eccellente in tutti i ruoli, da quelli drammatici come Don Antonio Barracane de Il sindaco di rione Sanità, a quelli da commedia come Gennaro De Sia di Uomo e galantuomo; enfant prodige, a soli quattro anni, Eduardo, è già di casa sul palcoscenico impegnato come comparsa, e vive quella che sarà l’esperienza più importante della sua vita, quella che avrebbe segnato il suo futuro: «Improvvisamente mi sentii afferrare e sollevare in alto, di faccia al pubblico, con la luce dei riflettori che mi abbagliava e mi isolava dalla folla. Chissà perché mi misi a battere le mani e il pubblico mi rispose con un applauso fragoroso. [...] Quell’emozione, quell’eccitamento, quella paura mista a gioia esultante... io le provo ancora oggi, identiche, a una prima rappresentazione, quando entro in scena.» [3]
Insieme a suo fratello Peppino, già da bambino è destinato a calcare le scene, infatti, quando la mamma esce la sera per raggiungere Eduardo Scarpetta a teatro, spesso portando con sé Titina, i due fratelli vengono affidati alla portinaia e con la sua complicità improvvisavano scenette per un’anziana coppia di dirimpettai che li ripaga con dei dolcetti, ignara di essere il primo pubblico dei futuri fratelli De Filippo, considerati tra i più grandi attori del Novecento. [4]
Indubbiamente, per Eduardo, la possibilità di vivere, di respirare il teatro fin dall’infanzia ha affinato le sue abilità artistiche, senza però togliergli l’entusiasmo della ricerca per le novità che si vanno affacciando sulla scena teatrale del periodo, mantenendo la base della tradizione, il dialetto napoletano, che non sarà più solo appannaggio della farsa e della macchietta.

«(…) Era magro come una canna da zucchero, due orecchie a sventola da fare impressione, due occhi grandi, allampanati, espressivissimi: a guardarlo tutto, testa, gambe e corpo era di una comicità irresistibile.»[5] È la descrizione che Peppino fa del fratello maggiore, Eduardo, una descrizione che ne esprime in maniera eccellente il ruolo artistico, quello dell’attore brillante, questo aggettivo identificava, nel teatro dell’epoca, un attore poliedrico e versatile, in grado di interpretare ruoli di ogni genere, importanti, di primo piano e ruoli secondari, senza mai mortificare la sua arte. Ma negli anni ‘20, questa tipologia di attore comincia a evolversi e, attraverso una sorta di purificazione catartica, viene svestita di tutti quegli attributi buffoneschi tipici della Commedia dell’Ottocento, per indossare solo quegli elementi che ne esaltano la signorilità e la raffinatezza. Eduardo, con quel suo aspetto, una certa eleganza innata, nonché gli insegnamenti del padre, sembra trovarsi nel posto giusto, al momento giusto. Il confine tra l’uomo Eduardo e l’attore Eduardo si dissolve, il suo stile si riflette nei suoi personaggi, ma permane una discreta vena umoristica; i suoi personaggi, per quanto eleganti e composti suscitano il sorriso, non più la risata grassa provocata dalle macchiette degli spettacoli di varietà, piuttosto, un sorriso riflessivo. Il bisogno di innovazione nel teatro è tangibile, così come è evidente la necessità di un nuovo ordine, e questa presa di coscienza del nuovo che avanza, ma soprattutto della volontà di emancipazione, porteranno Eduardo a intraprendere la strada dell’autore-attore e poi anche regista. «Eduardo De Filippo, eminente uomo di teatro, riassume nella sua personalità tre figure rimaste, nella pratica odierna del palcoscenico, isolate e divise, ma che, dal Ruzante a Molière, ai nostri comici dell'arte, costituirono gli elementi essenziali della drammaturgia: l'autore, l'attore e il regista.» [6] Così si esprime Giovanni Macchia all’assegnazione del premio Feltrinelli, sottolineando l’imprescindibilità di un ruolo dall’altro, imprescindibilità che gli è valsa il grande successo internazionale.

Già suo padre, Eduardo Scarpetta, aveva sostituito la figura di Pulcinella, che aveva avuto come ultimo, nonché magistrale interprete, il suo maestro Antonio Petito, con il personaggio di Felice Sciosciammocca, ritenuta la nuova maschera borghese. Felice Sciosciammocca rappresenta l’uomo comune, il piccolo benestante che sta tentando la scalata sociale, un nuovo modello teatrale, che si discosta dal buffonesco e farsesco Pulcinella, ma si allontana anche dai personaggi troppo popolari di Viviani. Infatti, Scarpetta ritiene che la classe popolare non sia adatta a essere rappresentata in una commedia o farsa, perché è troppo misera e squallida per suscitare ilarità e, a tal proposito, afferma: «il vizio che germoglia come un’erbaccia parassita negli infimi strati del nostro popolo, rende quasi sempre doloroso anche il sorriso. E rivoltando quella melma fangosa si potrà scrivere un bel dramma passionale, un acuto studio sociale, ma non mai una commedia brillante». [7]
Appena ventenne, Eduardo, sente il bisogno di trasformare in parole, o meglio in copioni teatrali, la sua fervida fantasia e nel 1920 scrive e firma la sua prima commedia Farmacia di turno, il cui titolo originale era Don Saverio o’ farmacista, un atto unico che segna il suo esordio come autore. Questa commedia, che apre la Cantata dei giorni pari, una raccolta delle opere che vanno dal 1920, appunto, al 1942, fu scritta nel periodo in cui prestava servizio militare presso la Caserma del Secondo Bersaglieri di Roma, a Trastevere, nei pressi del teatro dove recitava con la sua compagnia. Qui, i suoi superiori, in particolare il tenente colonnello Messe, lo incaricarono di organizzare recite per il corpo militare, facendo partecipare molti degli stessi commilitoni come attori. Sarà un grande successo [8] «Scelsi tra i bersaglieri del Secondo Reggimento gli elementi che rivelavano attitudini alla recitazione […]. Ottenni risultati così apprezzabili che ogni sabato alle ore diciassette i soldati rinunziavano alla libera uscita per assistere alla recita che si svolgeva su di un palcoscenico volante eretto nel cortile della caserma.» [9]

Farmacia di turno è una commedia che risente, indubbiamente, della sua formazione «scarpettiana», ma sembra soprattutto influenzata dalle opere di Viviani. Infatti, risulta evidente lo stile vivianeo nella struttura, dove si verificano una successione di eventi che coinvolgono personaggi non sempre legati fra loro e che si svolgono in spazi aperti o luoghi pubblici. Bastano un paio di personaggi principali su cui costruire una storia e far ruotare intorno a loro un’umanità di personaggi secondari, come tanti satelliti che ruotano intorno a un pianeta dalla potente forza attrattiva. Ma non è solo nello scheletro della commedia che si intravede una luce inconsueta, anche i personaggi hanno qualcosa di diverso, non sono caricature della realtà come nelle pièces di Scarpetta, sono più reali, ma anche un po’ grottesche. Eduardo è un acuto osservatore, sempre attento a ciò che lo circonda, pronto a trovare lo spunto per un soggetto nella quotidianità, come egli stesso affermerà; «Occhi e orecchie mie sono stati asserviti da sempre – e non esagero – a uno spirito di osservazione instancabile, ossessivo, che mi ha tenuto e mi tiene inchiodato al mio prossimo e che mi porta a lasciarmi affascinare dal modo d’essere e di esprimersi dell’umanità.» [10]
Questo atto unico, così come altri che seguiranno, ha la drammaturgia caratteristica di tipo paratattico, tesa a creare attese e aspettative nello spettatore, usando personaggi e situazioni che, pur non essendo legati da alcun filo conduttore necessario all’intreccio, si alternano sulla scena. La scena si svolge interamente in una farmacia, che è di turno quel giorno, il cui titolare è don Saverio, che sta chiacchierando con Teodoro, un medico suo amico. Don Saverio, il protagonista, è l’uomo comune borghese che vive una vita tranquilla turbata solo dai lazzi degli scugnizzi e del vicinato per il fallimento del suo matrimonio, ma che ha idee abbastanza progressiste; il coprotagonista Teodoro, un medico, anche lui rappresentante della borghesia dell’epoca, ha però un comportamento più tradizionale, più moralista:

Teodoro:  (dopo  pausa)  Caspita!  Seh, e  mo’  fa’  marenna...  Don  Save’  avete  letto  stu marito  che uccide la moglie per semplice sospetto sulla sua onestà! ... 
Saverio: Stupido... Mo’ va ngalera e ti saluto! La vera risoluzione del problema la trovai io. Tu con me non puoi più vivere felice? Preferisci l’altro, e sia! ... Vatténne cu’ isso in santa pace e nun ne parlammo cchiù!
(…)
Saverio: (…) Dotto’...  chillu  iuorno  manco  si  avesse pigliato  na quaterna secca... [11]

La conversazione, riguardante un fatto di cronaca, un caso di uxoricidio basato su un sospetto tradimento, spinge Saverio a raccontare la storia del suo matrimonio fallito, rivelando un’insolita filosofia popolare atipica per la mentalità dell’epoca.  A tal proposito è molto interessante l’affermazione di Carotenuto, che sembra scritta ad hoc: «Tradimento è parola dal significato ambiguo. L’itinerario semantico del verbo corrispondente congiunge infatti significati opposti, così che tradire sta per ‘consegnare’ o per ‘raccontare’, e in latino ‘traditor’ è sia il ‘traditore’ sia ‘chi insegna’. Questa doppiezza ci rivela qualcosa di utile, per esempio la capacità di tradire presenta delle affinità con la capacità di guidare gli altri.» [12]
Saverio, infatti, si sente quasi guidato dalla moglie verso questa separazione, che a suo dire è la soluzione migliore, in poche battute il protagonista distrugge decenni di sceneggiate e delitti d’onore, ridicolizzando chi crede di mantenere una rispettabilità dell’apparenza adattandosi ai dettami della società dell’epoca, si rivela un progressista in una società tradizionalista in cui la donna rivestiva ancora il ruolo di angelo del focolare. Ma è proprio così, o a livello inconscio Saverio vuole rifarsi dei continui sberleffi a cui è soggetto nel quartiere a causa del tradimento della moglie?
Dopo aver ereditato da suo padre la farmacia in cui aveva lavorato fin da bambino, Saverio crede che sposandosi raggiungerà la tranquillità, ma si accorge che il matrimonio non è quello che pensava e un giorno la moglie lo abbandona per andare a vivere con un ricco uomo. A questo punto il nostro protagonista dopo aver superato il tradimento e l’abbandono, passa per la solitudine e infine raggiunge la tranquillità, la tranquillità del lavoro quotidiano in farmacia, delle quattro chiacchiere con l’amico dottore, ma lo scambio finale delle cartine di aspirina e di arsenico è emblematico. Lo scambio è casuale, o è dettato dall’inconscio desiderio di vendetta da parte di Saverio?

Teodoro: Buonasera! ... (Fa per andare) A proposito, me vulite da’ chelli cartine... ‘o vveleno p’‘e sùrice? 
Saverio: Sicuro... ll’aggio mise ncopp’ ‘a cassa... pigliateville... (In questo momento, è occupato ad aggiustare  alcune  cose  in  vetrina)  Stateve  attiento  ‘a  casa  p’  ‘e  guagliune...  Vedite  addo’ ‘o mettite, ca cheli’ è arsenico! 
Teodoro: Non dubitate... questo? 
Saverio:  No... dev’essere  una  carta  rossa...  Chest’è  aspirina...  Addo’  l’aggio  miso...  Io  perciò  l’ho avvolto in carta differente... E st’aspirina pe’ cchi l’aggio fatto? 
Teodoro: Pe’ chella giovine che vuie avite ditto ch’era ‘a cammarera d’ ‘a mugliera vosta... Nun se l’è venuto a piglia’ ancora... 
Saverio: No, nun se l’è venuto a piglia’  ancora... ‘e  cartine vostre  forse nun l’aggio fatte ancora ..me sarraggio distratto! 
Teodoro: E se ne parla dimane... Io me ne vado perché è tardi... Ce vedimmo dimane... Buonasera... 
Saverio: Buonasera! [13] 
L’ultima scena, però, sembrerebbe accendere una lucina e aprire lo scenario ad altre possibilità, Saverio si tradisce chiedendo al brigadiere, che è venuto per arrestarlo, se sia morta sua moglie; rimane il dubbio se lo scambio delle cartine di aspirina e arsenico sia stato un errore umano, o un atto volontario volto a porre fine a tutte le prese in giro da parte degli abitanti del quartiere.
Brigadiere: Buonasera! ... Don Save’, mi dispiace, ma dovete favorire con noi in Questura... 
Saverio: (sbalordito) Mah... Io nun aggio fatto niente! 
Brigadiere: Cheste so’ ‘e solite chiacchiere.... 
Saverio: Ma forse mugliérema è morta? 
Brigadiere:  Che d’è, mo’ ‘o ssaie  ch’he’fatte... L’hanno purtata ‘o spitale, nun se sape niente ancora... Mo’ s’ ‘a spicce cu’ ‘o Cummissario, tanto già ha confessato. 
Saverio: Io, nun so’ stato io... 
Gregorio: (uscendo.  Buio  perché  la  farmacia  è  stata  chiusa)  Prufesso’!  Ma  ch’è  stato?  Prufesso’, ma  ch’è  succiesso?  Prufesso’ io  aggio  rimasto  ‘o  palazzo  sulo...  (Va  alla  destra  e  picchia forte   alla   porta)   Mamma   mia   m’hanno   chiuso   ‘a   dinto...   (Gridando)   Prufesso’...  Prufesso’!... [14]

La conclusione con Gregorio, un portiere andato in farmacia per risolvere un mal di denti, che torna dal retrobottega nella farmacia al buio e scopre di essere stato chiuso dentro, non può non riportare alla mente il meraviglioso finale de Il giardino dei ciliegi di Cechov, a cui, forse, è un omaggio.

Firs: – Chiuso. Se ne sono andati... (Si siede sul divano) Si sono dimenticati di me...Non importa...Io resto qui...E Leonid Andreic non si sarà neanche messo la pelliccia, sarà partito col paletot... (Sospira inquieto) Non ho controllato... Ah, gioventù senza cervello! (Brontola qualcosa di incomprensibile) La vita è passata e io è come se non avessi neanche vissuto... (Si sdraia) Mi corico un momento... Non hai più forza, eh, non ti è rimasto proprio niente, niente... Ah...Sei proprio un buono a nulla!... (Rimane sdraiato, immobile). [15]

Questo primo lavoro ufficiale di Eduardo, come abbiamo già detto, ricorda in modo abbastanza evidente lo stile di Viviani, impossibile non rapportarlo alla sua commedia O’ vico, scritta e rappresentata pochi anni prima; anche qui troviamo un protagonista e un co-protagonista, intorno ai quali ruota la storia e una serie di personaggi, che tra loro non hanno quasi nessun legame, ma che si rapportano soprattutto al luogo: la farmacia diventa una specie di punto d’incontro, diventa quasi simulacro della natività, dove gli avventori della farmacia, che cercano sollievo ai loro mali terreni, ricordano i pastori che si recavano alla grotta cercando sollievo alla loro spiritualità. Nel corso degli anni, però, il numero dei personaggi/pastori è notevolmente diminuito; la commedia, nata, non si sa se per la compagnia di Vincenzo Scarpetta, che l’avrebbe rifiutata [16], o per essere messa in scena con e per i commilitoni, prevedeva la presenza di molti attori, che sono spariti insieme ai vari aggiustamenti nel corso degli anni. Questa specie di limatura del superfluo finisce con il mettere ancora più in evidenza la centralità dell’attore protagonista, Eduardo/Saverio, che con la sua aria un po’ sorniona e un po’ scettica si scaglia contro il matrimonio, soprattutto il suo, anche quando Teodoro gli pone il problema dei figli:

«Teodoro: Vabbene, ma questo se po’ fa’ quando nun ce stanno figli... Caro don Saverio... Saverio: Fino a un certo punto... Il matrimonio... la più grave sciocchezza che un uomo può commettere... Vuie pazziate... ho riacquistato la mia pace...». [17]

Lo stesso De Filippo, in un’intervista, affermerà, con una sorta di amarezza che «il matrimonio è ancora una catena che solo la morte di uno dei coniugi può spezzare». [18]
Eduardo è un uomo di teatro a tutto tondo, recita, scrive i copioni, dirige le recite, ha sempre vissuto il teatro e nel teatro, il teatro è la sua realtà e la sua realtà diventa teatro, diventa sceneggiatura, porta sulle scene la vita che lo circonda, la realtà che lo circonda, ma non la verità perché «il teatro deve essere non verità, ma verosimile, perché la verità nuda e cruda è noiosa (…) il teatro è una cosa magica». [19] In Farmacia di turno tutta la storia è verosimile, potrebbe essere veramente accaduta, i personaggi sono presi dalla società del periodo, tra le persone che lui conosce, che guarda, che osserva, evidenziandone pregi e difetti, ma soprattutto denunciando, attraverso il sorriso, i mali della sua gente, della sua città, della vita. Dario Fo lo definirà «l’unico attore che si preoccupa di raccontare le cose legate al suo tempo» [20] e, infatti, le sue commedie scandiscono i momenti più importanti e significativi di tutto il Novecento, visti non solo attraverso i suoi occhi, ma anche attraverso gli occhi del popolo, quel popolo che è parte integrante di tutta la sua produzione, con il suo dialetto, le sue problematiche, i suoi dolori, le sue miserie e la sua filosofia del vivere alla giornata. Nelle sue opere sintetizza farsa e dramma, mescola con arte e originalità il realismo al grottesco, il fiabesco al favoloso, toccando toni tragici, senza mai cadere, però, nel patetico. [21]

La famiglia è spesso il tema delle sue commedie, perché il suo microcosmo rappresenta la società, e come la società così la famiglia ha le sue gioie e i suoi dolori, Saverio, ricorda suo padre che rappresenta la sua famiglia di origine con affetto e rispetto, ma anche con una punta di acredine per le rinunce fatte in segno di deferenza verso la farmacia che simboleggia la famiglia, il lavoro, la vita.

«Saverio: (…) Figurateve, ‘a guaglione songo stato sempe dint’ ‘a farmacia ‘a mano ‘a papà e sempe appriesso a isso, per me non sono esistiti mai amici, divertimenti ecc. Non ho messo mai un piede fuori di quella porta e poi anche  volendo...» [22]
Ma subito dopo dimostra anche di voler cambiare, di riprendersi i suoi spazi, cominciando da piccoli accorgimenti, quali la rimozione delle ragnatele (nel passato, nella cultura partenopea, i ragni erano considerati forieri di buon augurio, di abbondanza):

«Saverio: (…) Io facevo tutto... come avrei potuto... e peggio ancora dopo la sua morte che presi addirittura le redini della farmacia... Pensai alla rinnovazione... facette scupa’... facette luva’ ‘e felinie, pecché papà ‘e teneva pe’ buon augurio... Mo’ aggio miso pure ‘a cassa... Nun dico che è diventata na farmacia di primo ordine... ma oggi non lascia niente a desiderare...» [23]

Questa rottura con la ritualità paterna dimostra un’apertura verso il futuro, forse non solo del protagonista, ma anche dell’autore che comincia a vivere la propria vita, una vita lavorativa che, pur mantenendo le indicazioni basilari paterne, non disdegna di guardarsi intorno e di usare il teatro non solo come momento di evasione, ma anche come strumento di comunicazione, di informazione e di educazione, rivelando una prospettiva esistenziale. Saverio ricorda molto poco il Felice Sciosciammocca scarpettiano, Eduardo sta già andando oltre, sta già affrontando quei temi sociali che rappresentano il popolo a lui tanto caro e, a tal proposito, Pitteri scriverà: «(…) Eduardo, un uomo che ha radicalmente messo in discussione le radici (…) sue, del suo popolo e della sua città e che al contempo quelle medesime radici le ha innestate con una linfa nuova e vitale, che è stata in grado di rinnovare profondamente la cultura napoletana, di porla in relazione con il mondo, di snaturarla rendendola diversa da sé senza dimenticare se stessa e addizionandola di un’attenzione particolare alle persone e alle relazioni fra le persone e il proprio habitat.» [24]

Eduardo resta, comunque, un personaggio che non si riesce a incasellare, impossibile inserirlo in una particolare singola categoria, la sua grandezza è stata proprio l’abilità di mettere insieme nelle sue opere valori etici ed estetici, anche se questo ha ostacolato non poco la sua ascesa; infatti, a parte il non essere accettato dalle varie categorie del mondo dello spettacolo, per alcuni intellettuali  rimane solo un attore che ha scritto dei testi teatrali, l’intellighenzia del periodo non gli perdona di aver raggiunto il successo senza avere indossato i panni del pensatore, ma restando l’umile uomo del teatro. [25] Eduardo non ha mai scritto alcuna analisi sulla propria produzione teatrale, perché fondamentalmente non ha mai creduto che delle teorie potessero incasellare il teatro, che, invece, è in continua evoluzione, così come lo è la vita. L’interpretazione scenica può cambiare a ogni recita per la costante ricerca della perfezione da parte dell’attore, nonostante la consapevolezza dell’impossibilità di raggiungerla. [26] Eduardo non vuole spiegare il suo teatro, non vuole indottrinare il pubblico con una lettura personale delle sue opere, vuole che lo spettatore si senta libero di interpretare a modo suo il messaggio inviato, che, come sa, può modificarsi nel tempo e, talvolta, potrebbe anche trasformarsi totalmente.


Patrizia  Ubaldi
(n. 10, ottobre 2021, anno XI)





NOTE

Giovanni Antonucci, Storia del teatro italiano, Tascabili Economici Newton, Roma 1995, p. 12.
[1] Giovanni Antonucci, Storia del teatro italiano, Tascabili Economici Newton, Roma 1995, p. 12.
[2] Peter Brook, Il teatro e il suo spazio, Feltrinelli Editore, Milano 1980, p.117.
[3] Ringraziamento per il conferimento della laurea honoris causa all’Università di Roma, in Allocuzioni pronunciate durante la cerimonia di consegna di lauree honoris causa, Aula Magna, 18 Novembre, 1980, Tipografia D’Amato, Roma, s.d., p. 18.
[4] Cfr. Peppino De Filippo, Una famiglia difficile, Marotta, Napoli 1977, p. 157.
[5] Ibid. pp. 54-55.
[6] Adunanze straordinarie per il conferimento dei premi A. Feltrinelli, voi. I, fase. 10, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1973, pp. 208-9.
[7] Eduardo Sarpetta, Cinquant’anni di palcoscenico, Savelli, Milano 1982, p. 261.
[8] Cfr. Federico Frascani, Eduardo, Guida, Napoli 1974, p. 176.
[9] Ibid. p.176.
[10] Eduardo De Filippo, Eduardo. “Nota”. In: I Capolavori di Eduardo. 2 v. Einaudi, Torino 1973, v.I, p.VII.
[11] Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni pari, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, pp. 18 e 19.
[12] Aldo Carotenuto, Eros e Pathos, Bompiani, Milano 2001, p.11.
[13] Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni pari, op.cit., p. 28.
[14] Ibid. pp.28-29.
[15] Anton Čechov, Teatro Il giardino dei ciliegi, Sansoni, Firenze 1956, p.635.
[16] Cfr. Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni pari, op.cit., p. 5.
[17] Ibid. p. 18.
[18] Eduardo De Filippo risponde alle domande poste da un gruppo di studenti, Roma, Teatro Eliseo, 1976, cit. in Isabella Quarantotti, Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite, Bompiani, Milano 1986, pp. 172-174.
[19] Eduardo De Filippo, Lezioni di teatro, Einaudi, Torino 1986, p.122.
[20] Dario Fo, Fabulazzo, Kaos Edizioni, Milano 1992, p. 75.
[21] Giovanni Antonucci, Storia del teatro italiano, Tascabili Economici Newton, Roma 1995, p. 86.
[22] Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni pari, op.cit., p. 18.
[23] Ibid. p. 18.
[24] Daniele Pitteri, L’abitudine umana del vivere, in Eduardo modelli, compagni di strada e successori, a cura di Francesco Cotticelli, CLEAN, Napoli 2015, p. 9.
[25] Cfr. Cantata dei giorni pari, Vicoli stretti e libertà dell'arte di Paola Quarenghi p. XI-XII.
[26] Cfr. Eduardo. Polemiche, pensieri, pagine inedite, a cura di Isabella Quarantotti De Filippo, Bompiani, Milano 1985, p. 159.

BIBLIOGRAFIA
1. Allocuzioni pronunciate durante la cerimonia di consegna di lauree honoris causa, Aula Magna, 18 Novembre, 1980, Tipografia D’Amato, Roma.
2. Antonucci Giovanni, Storia del teatro italiano, Tascabili Economici Newton, Roma 1995.
3. Brook Peter, Il teatro e il suo spazio, Feltrinelli Editore, Milano 1980.
4. Carotenuto Aldo, Eros e Pathos, Bompiani, Milano 2001.
5. Čechov Anton, Teatro. Il giardino dei ciliegi, Sansoni, Firenze 1956.
6. De Filippo Eduardo, Cantata dei giorni pari, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000.
7. De Filippo Eduardo, Eduardo. «Nota», in I Capolavori di Eduardo, 2 voll., Einaudi, Torino 1973.
8. De Filippo Eduardo, Lezioni di teatro, Einaudi, Torino 1986.
9. De Filippo Peppino, Una famiglia difficile, Marotta, Napoli 1977.
10. Fo Dario, Fabulazzo, Kaos Edizioni, Milano 1992.
11. Frascani Federico, Eduardo, Guida, Napoli 1974.
12. Pitteri Daniele, L’abitudine umana del vivere, in Eduardo modelli, compagni di strada e successori, a cura di Francesco Cotticelli, CLEAN, Napoli 2015.
13. Quarantotti Isabella, Eduardo polemiche, pensieri, pagine inedite, Bompiani, Milano 1986.
14. Scarpetta Eduardo, Cinquant’anni di palcoscenico, Savelli, Milano 1982.