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La Napoli dickensiana nel romanzo storico di Vladimiro Bottone
«The historical novel is a novel that has as its setting
a period of history and that attempts to convey the spirit,
manners, and social conditions of a past age with
realistic detail and fidelity (which is in some cases
only apparent fidelity) to historical fact» [1]
1. Introduzione. Il romanzo storico può essere considerato come il logico risultato della presa di coscienza dello storicismo che si sviluppa negli intellettuali dopo la Rivoluzione francese, non può, quindi, essere considerato come un genere a sé che vuole staccare l’uomo dalla società che lo circonda, per cui gli scritti storici antecedenti a questo periodo, sono tali per lo scenario, o l’argomento che trattano, ma non tengono minimamente in considerazione la psicologia dei personaggi e la società circostante [2]. Infatti, la rappresentazione artistica sembra cedere il passo alla Storia nell’attimo in cui subentra il coinvolgimento della società del periodo trattato, perché, essendo la stessa la spina dorsale di una nazione, diventa così il risultato dell’evoluzione storica. Indubbiamente, questo genere narrativo si sviluppa soprattutto nell’Ottocento sia perché i fatti storici di questo secolo sono fortemente determinanti, sia perché in questo periodo c’è una potente rinascita degli studi storici e storiografici; di conseguenza il romanzo storico si presenta come la massima espressione di quella stessa società che ha partecipato all’evoluzione della Storia.
Nella prima parte del Novecento il romanzo storico perde gran parte del suo mordente, la narrazione documentata comincia a rappresentare più un peso che non un diorama per le vicende dei personaggi, mancano quelle che Sergio Romagnoli definisce «scintille patriottiche» [3], manca ciò che Elena Parrini riscontra nell’incipit e nell’explicit dei Promessi Sposi, la potenza della Historia e della Storia, dove la prima rappresenta i fatti realmente accaduti e la seconda le vicende dei personaggi creati dall’autore [4]. Nella seconda metà del precedente secolo il romanzo storico torna alla ribalta, con grandi nomi italiani, quali Elsa Morante, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Umberto Eco, e stranieri, quali Marguerite Yourcenar, Ken Follet, Ildefonso Falcones, ma è un nuovo tipo di romanzo storico, dove la Storia si fonde con il noir o con il fantastico, con il thriller o con l’horror, con l’avventura o con l’amore, dove il fatto documentato diventa il canovaccio su cui muovere personaggi reali e mescolarli con quelli inventati, i cosiddetti personaggi «ideali» [5], in un vortice dove diventa difficile, se non a volte impossibile, staccare la Storia dalla storia.
2. I romanzi storici di Vladimiro Bottone. In Italia, verso la fine dell’ultimo secolo del precedente millennio, si fa strada nell’ambiente del romanzo storico, un po’ in punta di piedi, un giovane scrittore napoletano, Vladimiro Bottone. Complice, forse, il nome di chiara matrice slava (come non pensare ai grandi autori di romanzi storici dell’est), o molto più probabilmente gli studi umanistici (una laurea in Sociologia con una tesi in Antropologia culturale e Storia delle religioni), Bottone, fin dai suoi esordi, mostra una particolare predisposizione, nonché una spiccata dedizione verso la narrazione storica. Nei suoi libri si impegna con il lettore a non ignorare, né tantomeno tradire la realtà storica, ma ad attenersi ai fatti, ad arricchirli di dettagli e particolari sempre veritieri e documentabili, a dare libero sfogo alla sua immaginazione e fantasia solo riguardo ad alcuni personaggi che vengono abilmente inseriti nella realtà del periodo descritto e mescolati con figure realmente esistite.
2.1 L’ospite della vita. György Lukács, nel suo saggio Il romanzo storico, ritiene Sir Walter Scott il primo romanziere storico perché è il primo a mantenere intatta non solo la ricostruzione storica, ma soprattutto la psicologia del periodo storico in questione [6]; ed è esattamente quello che fa il nostro autore già, nel 1999, nel suo primo romanzo L’ospite della vita, dove un Giacomo Leopardi, nell’ultimo scorcio della sua vita, si aggira in una Napoli schiacciata dal colera, dalla povertà, una povertà che genera disperazione e il passaggio dalla disperazione all’abiezione umana, non solo è veloce, ma è soprattutto inevitabile. L’ospite della vita è lo stesso Leopardi, che non riesce a essere protagonista della sua vita, ma la vive guardandola riflessa in uno specchio: «La sua camera di sempre […] la solita cella semovente, ridotta all’essenziale nel mobilio, come la provvisoria pensione di un fuggiasco; come il ricetto di un rifugiato, di un espatriato, perennemente ospite.» [7]. La sua salute instabile non gli consente di prendere a morsi la vita, come volentieri farebbe, ma lo costringe a limitarsi al solo inebriarsi dei racconti del suo amico Antonio Ranieri, a vivere di riflesso e a consolarsi ingozzandosi di dolci e gelati napoletani; talvolta perde totalmente il contatto con la realtà e, come in una sorta di transfert, diventa il Giacomo dello specchio e vive esperienze memorabili, che il nostro autore Bottone evidenzia come indotte dalle frequenti febbri da cui era afflitto. Il viaggio napoletano di Leopardi si trasforma così da speranza di una riabilitazione della sua salute precaria in un fallimento totale, dove la bella città partenopea anziché favorire con il suo clima mite un miglioramento delle malattie del poeta recanatese, lo irretisce attirandolo nei suoi vicoli malsani come omeriche sirene con la promessa di esperienze strabilianti e lo fagocita, masticandolo e digerendolo. In uno dei suoi deliri febbrili, il poeta di Recanati, ospite della sua stessa vita, «esiliato» nel suo letto dalla sua malattia in un «esilio (che) è un asilo, che ti salva dal mondo» [8], che non vuole essere guarito perché con la guarigione da ospite diventerebbe «un qualsiasi cittadino», con una qualsiasi vita e invece la malattia «madre» lo ha ripartorito, viene presentato sotto un’altra luce, quasi apprezza la sua condizione e quasi riscatta la «natura matrigna» de La ginestra.
La storia si sviluppa intorno alla leggenda di un libro introvabile, scritto da Virgilio e perso in un naufragio; questo misterioso libro, però, potrebbe essere nascosto nella fornitissima biblioteca di un nobile napoletano, che realmente ignora di possedere o finge spudoratamente, e il poeta di Recanati, ossessionato da questo testo, cerca disperatamente di venire a capo del mistero, avventurandosi anche in zone e quartieri malfamati per ottenere informazioni in proposito. Nel romanzo troviamo disseminati riferimenti all’opera dantesca, non solo per la presenza, anche se solo aleatoria, di Virgilio, che qui, però, non svolge il ruolo di guida fedele, ma piuttosto quello che il Medioevo gli ha attribuito, e cioè quello del «mago»; troviamo descrizioni di vicoli e personaggi molto vicine a quelle degli inferi come l’apparizione di Sabella, una vecchia dall’orrido aspetto, che si palesa con una scarica elettrica di un fulmine a mare [9], oppure il portinaio di un teatro di terz’ordine con «le pupille, invetriate e incarognite, dell’orco» [10]; o ancora troviamo più volte triplette di anafore che ci riportano all’allegoria del «tre». A dimostrazione della cultura di Bottone, troviamo anche due omaggi al grande drammaturgo inglese William Shakespeare, quando a proposito di Antonio Ranieri, ricordando e ribaltando le posizioni dei personaggi di The Tragedy of Julius Caesar, dice: «e Antonio è uomo d’onore» [11]; e ancora, parlando di un incubo Leopardi cita una famosa frase di Prospero in The Tempest «è fatto con la materia dei sogni» [12].
2.2 Rebis. Nel suo secondo romanzo, Rebis, pubblicato nel 2002 e ristampato nel 2022, troviamo un Valdimiro Bottone che attraverso l’intreccio delle vicende fa uno studio approfondito dei personaggi storici e ideali, ne delinea i tratti psicologici, per arrivare a disegnare un quadro d’insieme dell’ambiente sociale del periodo, per rappresentare l’evoluzione in un universo narrativo che coinvolge la correlazione spazio-temporale del cronotopo bachtiniano. Come Verga, anche il nostro autore avverte un senso di pietà verso i cosiddetti vinti, ma mentre le figure verghiane sono individui umili sopraffatti dal fato invincibile che non lascia scampo, in Rebis gli umili, i vinti, sono sì sopraffatti e sconfitti, ma non dalla sorte avversa, bensì dai loro simili che sono più potenti, più ricchi, più scaltri, dalla loro stessa volontà di dimostrare la verità, di non accettare di essere marionette nelle mani di coloro che li dominano. Già il titolo mette il lettore in allerta, Rebis, res+bis, la cosa doppia, il maschio e la femmina, la stessa statua del Cristo velato è ambigua: «Eppure se la sfioro, questa membrana traslucida, continuo ad avvertire sotto i polpastrelli un riverbero gelido. È marmo e tessuto. Né marmo né tessuto. Non più marmo non ancora tessuto» [13]. La narrazione ruota intorno alla statua del Cristo velato che si trova nella Pietatella, meglio conosciuta come Cappella Sansevero, Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, Antonio Corradini, scultore, Giuseppe Sammartino, scultore e autore della statua in questione (fin qui tutti personaggi storici) e Jacopo Fucito, segretario del principe (personaggio ideale); insieme a loro si muovono tutta una serie di altri personaggi che potrebbero essere sia storici sia ideali. Il romanzo racconta della morte di Antonio Corradini come di un omicidio, probabilmente su commissione, e del giovane segretario del principe che cerca di fare chiarezza sull’accaduto, sia per affezione verso l’anziano scultore, sia per spirito di abnegazione nei confronti della di lui giovane e bella moglie.
La costante ricerca di riuscire a sopravvivere di alcuni personaggi rende la narrazione particolarmente viva, perché l’autore entra non solo nella loro realtà, ma soprattutto nella loro psicologia; non c’è una mera descrizione cronologica degli eventi, ma una partecipazione interna che collega concatenando oggetti, posti, personaggi, orchestrandoli in modo da rendere organica la loro espressione dialogica [14], come la conversazione tra Andreana e don Jacopo Fucito:
«Mast’Antonio sta stiso dint’ ‘o lietto. Nun se po’ movere» (...) «V’ ‘o giuro, ‘ncoppa a chella bella Mamma... Suspira, una cuntinuazione. ‘E dulure ccà ‘mpietto», aveva nuovamente sfiorato la punta del seno, «nun le danno requie». «Stando così le cose ci vado io da lui» (...) «No! P’ammore ‘e Dio!» Tutt’a un tratto, Andreana resisteva, scongiurava, aveva platealmente dilatato il bianco degli occhi, manco l’avessero ghermita per scraventarla nel fuoco. «No, no. Facìteme ‘sta grazia» (...) «Accussì comme sta cumbinato, mast’Antuono nun se vo’ fa’ vedè». (...) Andreana doveva combattere colla voce, collo sguardo, contro l’ostinazione di uno che proprio non voleva capire.[15]
La narrazione comincia con la descrizione della festa di Sant’Antonio Abate che cade il 17 gennaio, siamo nel 1753 e i falò fatti in onore del santo, cominciano a bruciare per la città dandole l’aspetto di un girone dell’inferno dantesco: «Un barcone montato sopra un carro. Un barcone che ondeggia sopra un traino di buoi e solca maestosamente le strade, fendendo la marea di teste. La prua che sovrasta la schiuma degli esseri umani, innalza questa statua (...) Ai suoi piedi grufola una nidiata di maialini. Le bestie care al santo taumaturgo e, proprio per questo, a lui oggi sacrificate in un’ecatombe di strida inumane» [16]; l’intero romanzo è disseminato di figure diaboliche, che tentano di carpire l’anima di ingenui personaggi con adulazioni eccessive: «troppo tardi, oramai don Giuseppe ha insinuato il braccio sotto il suo e lo uncina camminando (…) lo trascina, (…) lo attanaglia a sé (…) “Sentite a me: sarete la fortuna e la gloria di questo paese. Si vedrà la vostra opera e non si potrà che dire: ‘Don Jacopo Fucito. Solamente lui poteva’”» [17]; lo stesso principe Raimondo di Sangro: «Come un lucifero, un portatore di luce, don Raimondo di Sangro la Loggia l’aveva fatta nascere dal niente, ribellandosi al niente e all’oscurità. (…) Jacopo Fucito se n’era innamorato di quella luce, sentirsi fratello di altri sconosciuti, (…) È sentirsi una specie di angelo» [18]. Molti altri ancora sono i riferimenti a Dante, a parte le varie descrizioni degli ambienti di degrado e disperazione, ritroviamo più volte la simbologia del numero «tre», come le tre fasi dell’alchimia: nigredo, rubedo e albedo [19]; le tre camere dello studio segreto di Corradini; le tre regole da seguire: «Silenzio. Occhi aperti e bocca chiusa.» [20]
2.3 Mozart in viaggio per Napoli. La sua abilità nell’intrecciare la realtà storica con la fantasia non delude neanche nel terzo romanzo, pubblicato nel 2003, Mozart in viaggio per Napoli; personaggi provenienti dalle più disparate classi sociali si incontrano, si scontrano, si rapportano, mettendo a nudo la loro anima attraverso descrizioni minuziose e dettagliate:
Con un movimento, circolare, scivolante sul piano di lavoro, il ciarlatano richiama a sé i tarocchi sparsi (anneriti, desquamati dall’uso), riforma il mazzo, sciorina una nuova serie di carte, disposte affinché disegnino una sorte di croce. Sta già rivoltando le prime sei: alla vista di Mozart, si affacciano, una dopo l’altra e quasi tutte capovolte, delle figure incomprensibili. Eppure nel loro linguaggio in codice, a quanto sembra, devono incatenare dei significati, delle simpatie misteriose, dei brani di vita inspiegabilmente capaci di accogliere lo sguardo di Gamiani. (…). [21]
Gamiani, questo personaggio tra il losco e il confidenziale, tra il ciarlatano e l’illuminato, personaggio ambiguo che può essere sia storico sia ideale, ci riporta al concetto di «anacronismo necessario» come eterno dilemma del rispetto e dell’alterazione della realtà storica [22]. Di sicuro, alla base del lavoro c’è uno studio approfondito della realtà storico-sociale del periodo in questione, ma anche una conoscenza affatto superficiale della geografia delle aree trattate in questa narrazione odeporica. Gamiani, dopo un primo capitolo introduttivo, dove incontra un Mozart spaventato, spoglio della spavalderia che ammantava la sua aura, soprattutto quella fanciullesca, facilmente influenzabile e raggirabile, diventa narratore alter ego dell’autore; diventa un osservatore analitico, carpisce gli aspetti più storicamente autentici della società del periodo e della psicologia più intrinsecamente esplicativa, ma lo fa sempre attraverso il filtro di un’obiettività quasi giornalistica, mantenendo il distacco necessario per dare una visone esterna, super partes, quasi come un dio che guarda ammirato prima, dubbioso poi, deluso infine, ciò che ha creato, come vediamo nel seguente passaggio dove commenta le lamentele del Mozart senior in merito alle difficoltà incontrate a Napoli, la capitale della musica, per recuperare un pianoforte: «(non si dolga troppo Herr Mozart: almeno qui, oggi, La racchiude un cielo turchino senza eguali. Pensi che in questo stesso istante a Salzburg, scrosci di pioggia stanno sciacquando e lucidando le tegole rosso paprika; anche la fronte del tuo padrone, Arcivescovo Colloredo, è piuttosto rannuvolata, Le posso assicurare).» [23] Qui le riflessioni dell’io-narratore si aprono a una duplice chiave di lettura, a seconda del punto di vista, la prima ci porta a una narrazione statica, quella di chi guarda le cose dall’esterno, senza alcun coinvolgimento emotivo; la seconda, invece, si dimostra dinamica e manifesta un’implicazione emozionale di chi racconta, che cerca di leggere il flusso di coscienza dei personaggi e di raccontarlo, entrando in maniera così estrema in essi da diventarne parte integrante. La storia, attraverso una sorta di flashback, racconta del viaggio che Mozart insieme a suo padre fa verso Napoli e del loro soggiorno nella città, dove il giovane musicista incontra dei suoi coetanei tra cui una ragazzina della quale si innamora. Anche qui troviamo descrizioni di vicoli maleodoranti e case fatiscenti con giardini simili a giungle, individui melliflui che ricordano Uriah Heep, mendicanti, prostitute e scugnizzi come Jack Dawkins. Al centro una misteriosa bottiglia di rosolio.
L’espressione dialogica dei personaggi è non solo profonda, ma anche ricca di sfumature atte a raffigurare ed esaltare la psicologia degli stessi, sempre costruita in modo da essere chiara e comprensibile, nonché rispondente al periodo storico di riferimento, rispettando sempre i limiti dell’anacronismo necessario e mantenendo l’autenticità storica delle azioni dei protagonisti, del loro lessico e della loro psicologia; per cui troviamo: un linguaggio confacente allo status sociale di Mozart padre e anche esprimente le sue preoccupazioni per la salute del figlio «Wolferl, se pensi di disturbartene, evita per favore di guardare giù dal finestrino» [24]; oppure le parole dell’avvocato di provincia che sciorina le sue buone conoscenze nell’ambito della piccola nobiltà «Conosco un’ottima famiglia, di lì. Mi stimano, li ho ben serviti in un paio di causette, tre anni fa (…) Questo significa essere conosciuti e avere conoscenze come si deve…Vedrai che ci daranno il letto padronale.» [25]; il linguaggio cambia quando ci troviamo nelle strade di Napoli, cambia nel lessico e nei contenuti «Statte accorto a mugliereta. Nun te fidà. (…) Tienattìllo stritto a marìteto. A chillo lle piaceno ‘o juoco, a’ zecchinetta spicialmente,» [26]; troviamo ancora il dialetto napoletano nei dialoghi del figlio del principe di Tarsia, perché era la lingua parlata nel Regno di Napoli fino al 1861, ma i contenuti sono decisamente diversi e anche la psicologia, l’argomento riguarda il decoro morale di una famiglia di nobili contrapposto alle ultime richieste di un moribondo «Vo’ ‘a musica. (…) Va truvanno ‘e musicante (…) Ma che vogliamo far ridere il mondo? Il Principe di Tarsia rende ll’anema a ‘o cielo e ‘o filgio se mette a ffa’ museca. Mo’ facimmo pure ‘nu ballo, che dite?» [27]. Troviamo anche una rappresentazione oggettiva di ambienti che possono essere immutati nel tempo, attraverso un lessico specificatamente legato all’epoca storica in questione, come avviene in Rebis e in Mozart in viaggio per Napoli con la parola «criado» [28], termine di origine spagnola per definire qualcuno proveniente da un’umile famiglia che è stato allevato, cresciuto, educato da un nobile e che finiva quasi sempre a svolgere mansioni di segretario e uomo di fiducia del benefattore, come appunto il personaggio di Iacopo Fucito.
2.4 Vicarìa. Per il nostro scrittore il problema linguistico è alla base di ogni suo lavoro, tutti i suoi romanzi storici sono ambientati a Napoli e riscontriamo sempre un adattamento, per niente forzato, dei dialoghi agli ambienti sociali in questione, per cui troveremo logiche, in Vicarìa, quarto romanzo storico, le parole del comandante dell’Ospizio dei poveri, Michele Fiorino, un losco individuo: «Vi dovete fottere d’a paura» […] «Secondo voi è talmente impossibile? Basta che uno attacca alla cassa ’e muorto il biglietto sbagliato. Quella è gente che non sa leggere manco il nome suo. Voi che vi pensate: che sono tanti pennaruli?» [29]. Per puro caso un attento e onesto poliziotto scopre che la scomparsa di un bambino dall’Albergo dei poveri altro non è che un omicidio, e comincia così a indagare dando vita a una girandola di eventi che ruotano intorno a un’ambientazione che ci fa vedere una Napoli nella sua commistione di estrema povertà ed esagerata ricchezza, la povertà dell’ospizio dei poveri nel quartiere della Vicarìa, l’ospizio, un ricovero che era nato con le migliori delle intenzioni, ma era diventato una sorta di prigione che raccoglieva orfani abbandonati alla famosa «ruota», donne che avevano praticato il mestiere più antico del mondo e vecchi abbandonati a se stessi, il tutto gestito da persone totalmente prive di scrupoli, e la ricchezza della borghesia partenopea, una borghesia talvolta con le mani lordate di sangue innocente. A differenza dei due romanzi precedenti, collocati nella seconda metà del Settecento, Vicarìa è ambientato circa un secolo dopo, un ventennio prima dell’unità d’Italia; la scena si sposta spesso nei posti più disparati, da celle di prigione a splendidi giardini, da «bassi» fatiscenti a palazzi nobiliari, da teatri a obitori, il tutto sempre condito da un linguaggio storicamente accurato nonché arguto, costruendo i capitoli in modo da tenere il lettore legato al libro. In Vicarìa troviamo un Vladimiro Bottone più maturo, meno corrosivo e «polemico», che racconta con maggiore abilità e maestria della società e dei suoi comportamenti relativi al periodo storico di ambientazione, e lo notiamo soprattutto attraverso i dialoghi che sono sapientemente usati per meglio evidenziare i momenti salienti.
Letteratura e Storia camminano insieme da secoli, anche se è difficile, forse impossibile, definire dove finisce la storia e comincia la letteratura e viceversa; entrambe hanno lo scopo di narrare degli eventi, siano essi contaminati o meno dalla fantasia, dall’immaginario, ma grandi storici come George Duby o Carlo Ginzburg hanno il pregio di aver trattato l’analisi della Storia attraverso obiettivi che erano solo appannaggio dei romanzieri. L’autore oggetto di questo studio, nei suoi romanzi, è la voce narrante e, come tale, si adatta volentieri al pensiero del periodo storico, dell’ambiente sociale, della psicologia della società in cui colloca i suoi racconti e lo fa sempre in un modo aspramente garbato, non è un ossimoro, una contraddizione in termini, ma la dimostrazione della sua abilità di narratore anche nelle situazioni più spregevoli e abiette, pur mantenendo un tono garbato, come vediamo di seguito:
I riveriti primari che si litigavano i cadaveri con i medici esterni, vale a dire altri esimi professori bisognosi di corpi da sezionare durante le loro lezioni private di anatomia patologica. Per accaparrarsele, queste spoglie non reclamate da nessuno, era stato addirittura codificato un tariffario delle mance per inservienti della morgue e becchini. Gli ultimi a mettersi in fila, per i reperti avanzati, erano gli studenti e i tirocinanti di Medicina. Come dei cani si contendevano ossa, polmoni, braccia, tronchi di cristiani. I più ricercati erano le femmine e i bambini – si trattava di orfani, ovviamente. [30]
Oppure, quando descrivendo le intime emozioni dei vari personaggi, lascia trasparire l’influenza della poetica simbolista e decadentista, dove l’ideale estetico travolge e sconvolge attraverso il laboratorio linguistico l’animo del lettore, che si pone come in attesa dell’evolversi degli eventi. Nella citazione sottostante si evidenzia come lo scrittore descriva minuziosamente il comportamento del piccolo Antimo, arricchendolo di dettagli relativi alla parte emotiva:
Una piccola ombra le era corsa incontro, buttandosi in ginocchio. Uno scherzo, una monelleria napoletana? Poi quel corpo minuto le aveva acchiappato – no: rubato – le mani, tempestandole di baci e lacrime. Come se lei fosse un’apparizione. Oppure una giovanissima, raggiante madre inventata e adottata lì, sul momento. Sta di fatto che quel bambino, Antimo, le aveva accarezzato l’orlo della gonna, offrendole l’unica cosa di cui era padrone: le proprie lacrime, deposte ai piedi di lei. Come se Emma fosse una delle bellissime, teatrali Madonne che addobbavano le loro chiese tutte buio e oro. Come se lei, la Signorina, fosse la Vergine in persona capace di intercedere per lui. Di rimettere a lui i suoi debiti, l’enorme debito di essere venuto al mondo. [31]
2.5 Il giardino degli inglesi. Vicarìa, però, non ha una conclusione, ci lascia con un finale aperto a cui fa seguito Il giardino degli inglesi, che vede ancora il commissario Gioacchino Fiorilli indagare sui movimenti sospetti dell’Ospizio dei poveri. Ossessionato dalle morti sospette di poveri e nobili, di napoletani e stranieri, il commissario continua la sua crociata contro il male, combattuta nel buio dei vicoli, ma anche nella falsa luce di ricche dimore e circoli, dove il male attecchisce, a volte, più che altrove. In questi ultimi due romanzi Bottone descrive una Napoli ancora più noir, più cupa, dove la luce del sole arriva raramente e spesso è indiretta o si limita a lambire i muri e le finestre, trascurando le persone; troviamo una città diversa da quella soleggiata cantata da poeti e musicisti, troviamo, invece una città piovosa, umida, coperta da nuvole nere, una città che ghermisce e nasconde oscuri segreti, e già i due incipit sono forieri di storie terribili. Vicaria comincia così:
«Un lampo giallastro, uno schianto. Il fulmine ha spaccato in due il crepuscolo su Napoli. Questa fenditura ha aperto le cateratte. Per i vetturini, i carrettieri neanche il tempo di lanciare i cavalli al trotto e si è scatenato il diluvio. Un cielo fangoso sopra, la terra fangosa sotto. Questo gorgoglio limaccioso dalle colline che incombono sulla città. In un quarto d’ora il nubifragio ha già trasformato i pendii di Capodimonte in un ribollire di acque piovane. Dalla sommità dei Camaldoli iniziano a gonfiarsi, senza più argini, torrenti di pioggia e melma. Da Materdei, da Santa Teresa, dal Cavone queste masse alluvionali precipitano a valle, verso la loro fossa biologica, il loro ricettacolo naturale: Napoli.» [32]
L’inizio de Il giardino degli inglesi non si discosta molto dal precedente: «Le rampe di Sant’Aniello a Caponapoli nereggiavano in alto, contro il cielo gonfio. I gradoni piatti sembravano intagliati nel fianco di una montagna. Le gocce d’acqua continuavano a picchiettare il viso di Gioacchino Fiorilli, si insinuavano fra il bavero del pastrano e il colletto della sua uniforme. La sua divisa da Commissario di Primo rango presso il quartiere napoletano di San Lorenzo.» [33]. Il commissario Fiorilli, rappresenta il classico «eroe medio» [34], non è nobile, ma non è neanche un popolano, non è un accademico, ma non è neanche incolto, è saggio quanto basta, è pratico, ma fondamentalmente è dotato di una grande dignità morale e di umanità, non afferma, ma suggerisce, non dichiara, ma deduce, è un uomo della media borghesia, che passa inosservato, padre e marito affettuoso, ma silenzioso e introverso; il suo contrario, il cosiddetto «individuo miserabile» [35], non è il povero, non è l’uomo del basso volgo, disposto alle azioni più abbiette per fame e per cultura, ma un esponente dell’alta borghesia, il dottor Domenico De Consoli, un uomo che a suo dire non teme «la solitudine, quanto, piuttosto, la moltitudine» [36], che al contrario dell’eroe è totalmente scevro di morale, è freddo, altero, supponente, usa le persone a suo piacere e manca completamente di umanità, il suo comportamento è dettato dalla curiosità, la curiosità di vedere se viene scoperto, la curiosità di vedere fin dove un uomo si può spingere per soddisfare la stessa, la curiosità di scommettere col destino, la curiosità di vedere chi vince la sfida.
3. Conclusione. In tutta la produzione di Bottone possiamo individuare delle analogie sia per quanto riguarda i temi narrativi sia per quanto riguarda la risoluzione linguistica. I temi ricorrenti sono la contrapposizione luce e buio, bene e male, ricchezza e povertà, quest’ultima non solo economica, ma soprattutto di sentimenti, di spirito; la realtà che nasconde nei ricordi e nella coscienza inquietanti segreti dando vita a una trama fitta di mistero: ricordiamo la sospetta sepoltura di Leopardi, la bottiglia di rosolio avvelenato di Mozart, il mistero del Cristo velato e i vari enigmi della cappella Sansevero, l’ambiguità dell’Ospizio dei poveri o Serraglio. In merito alla risoluzione linguistica in tutti i romanzi troviamo esempi di «erlebte Rede», definizione tedesca di discorso rivissuto, cosicché la voce del narratore e quella dei protagonisti si fondono e si confondono in una danza magistralmente architettata per dare maggiore enfasi e pathos ai momenti salienti della narrazione. Quando descrive i singoli oggetti che sono tipici del quadro storico, il nostro autore è estremamente preciso, molti sono oggetti che servono a farci penetrare meglio nella psicologia dei personaggi e delle varie fette di società che rappresentano, ma non influenzano mai del tutto il lettore indirizzandolo a nutrire una particolare simpatia per qualche vittima della società, tutt’al più stimolano la sua curiosità verso la verità. La Napoli ottocentesca magistralmente descritta è una città dalle tinte fosche, una città che nasconde pericoli dietro ogni angolo, ma che per questo motivo risulta ancora più affascinante e non ha niente da invidiare alla Londra di Dickens.
Attraverso i suoi romanzi Vladimiro Bottone si rivela un abile scrittore, capace di vedere e descrivere la Storia riflessa nei suoi personaggi e nei loro sentimenti, raccontando la vita e il pensiero della società del periodo storico di ambientazione, descrivendo la miseria dei «vicoli», ma anche la meschinità dei «palazzi» napoletani; la sua maestria nel creare gli intrecci, nel mescolare le differenti classi sociali, la sua sensibilità nell’entrare nella psicologia dei vari personaggi fanno sì che sembri che si accosti solo ai fatti storici, senza esplicarli, tenendoli quasi solo come sfondo, facendoceli «assimilare» senza accorgerci di averli studiati.
Patrizia Ubaldi
(n. 2, febbraio 2024, anno XIV)
* La versione inglese dell'articolo è pubblicata sull'European Journal of Language and Literature Studies, July - December 2023 Volume 9, Issue 2.
NOTE
[1] https://www.britannica.com/art/historical-novel. (12-05-2023) [un romanzo che ha come ambientazione un periodo storico e che tenta di trasmettere lo spirito, i modi e le condizioni sociali di un'epoca passata con dettagli realistici e fedeltà (che in alcuni casi è solo apparente fedeltà) al fatto storico.] (Tradotto da me).
[2] György Lukács, Il romanzo storico, Einaudi Editore, Torino 1970, pp. 9-11.
[3] Sergio Romagnoli, Il romanzo storico, in “Storia della letteratura italiana”, diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, vol. VIII, Milano, Garzanti, 1968, p. 46.
[4] Cfr. Elena Parrini, La narrazione della storia nei “Promessi Sposi”, Firenze, Le Lettere, 1996, pp.17-19
[5] György Lukács, Il romanzo storico, p. 218.
[6] Ibid. pp. 55-67.
[7] Vladimiro Bottone, L’ospite della vita, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni (SA), 1999, p. 247.
[8] Ibid. p. 201.
[9] Ibid. p. 73.
[10] Ibid. p. 138.
[11] Ibid. p. 166.
[12] Ibid. p. 172.
[13] Valdimiro Bottone, Rebis, Colonnese Editore, Napoli, 2022, p. 96.
[14] Cfr. György Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi editore, Torino, 1969, pp. 269-323.
[15] Valdimiro Bottone, Rebis, pp. 14-15. «Mastro Antonio sta disteso nel letto. Non si può muovere. (…)Ve lo giuro sulla Madonna…Sospira continuamente. I dolori qua in petto», aveva nuovamente sfiorato la punta del seno, «non gli danno tregua». «Stando così le cose ci vado io da lui» (...) «No! Per l’amor di Dio!» Tutt’a un tratto, Andreana resisteva, scongiurava, aveva platealmente dilatato il bianco degli occhi, manco l’avessero ghermita per scaraventarla nel fuoco. «No, no. Fatemi questa grazia» (...) «Così come sta conciato mastro Antonio non vuole farsi vedere».(Tradotto da me).
[16] Ibid. p. 10.
[17] Ibid. p.171.
[18] Ibid. p. 179.
[19] Ibid. pp. 20-21.
[20] Ibid. p. 87.
[21] Vladimiro Bottone, Mozart in viaggio per Napoli, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni (SA), 2003, p. 16.
[22] Cfr. György Lukács, Il romanzo storico, p. 69.
[23] Vladimiro Bottone, Mozart in viaggio per Napoli, p. 153.
[24] Ibid. p. 38.
[25] Ibid. p. 40.
[26] Ibid. p. 138. [Stai attento a tua moglie. Non fidarti. (…) Tienitelo stretto tuo marito. A lui piace il gioco, la zecchinetta (tipico gioco d’azzardo) specialmente.] (Tradotto da me).
[27] Ibid. p. 152. [Vuole la musica (…) Vuole i suonatori (…) Ma che vogliamo far ridere il mondo? Il Principe di Tarsia rende l’anima al cielo e il figlio si mette a fare musica (nel senso di festeggiare). Ora facciamo anche un ballo, che ne dite?] (Tradotto da me)
[28] Vladimiro Bottone, Rebis, p. 272 Vladimiro Bottone, Mozart in viaggio per Napoli, p.161.
[29] Vladimiro Bottone, Vicarìa, Rizzoli editore, Milano, 2015, pp. 69, 128.
[30] Ibid. p. 133.
[31] Ibid. p. 105.
[32] Vladimiri Bottone, Vicarìa, p. 9.
[33] Vladimiro Bottone, Il giardino degli inglesi, p. 8.
[34] Cfr. Lukács György, Il romanzo storico, p. 165.
[35] Cfr. Lukács György, Il Marxismo e la critica letteraria, p. 78.
[36] Vladimiro Bottone, Il giardino degli inglesi, Neri Pozza Editore, 2017, p. 26.
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