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Centenario. Raffaele La Capria, la sua Napoli e la napoletanità: il sussurro di un grido
«Napule è na carta sporca
E niscuno se ne importa
E ognuno aspetta a sciorta» [1]
La parola napoletanità fu usata per la prima volta da Antonio Ghirelli nel suo libro Storia di Napoli, dove trasferisce su Masaniello, capo della storica rivolta del 1647 a Napoli, tutta l’essenza del termine, in quanto rappresentante di un particolare periodo storico di cui riveste anche l’aspetto sociale. Per Ghirelli questa napoletanità è andata sviluppandosi nel tempo e la racconta nell’incarnazione della genialità settecentesca, nell’originalità della musica, nell’estro delle acrobazie verbali degli intellettuali, ma la raffigura anche come un grido del popolo napoletano, un messaggio nella bottiglia, che simboleggia una volontà di mantenere intatte le proprie origini. [2]
Raffaele La Capria è stato forse l’incarnazione della metafora della napoletanità, non solo perché ne parla apertamente, ma soprattutto perché i suoi libri sono prevalentemente dei saggi su una Napoli raccontata attraverso le proprie esperienze, la propria vita. Racconta di Napoli, narrando vicende personali, dimostrando come la quotidianità del popolo si rifletta e influenzi la vita di chi scrive; non analizza la società a cui appartiene attraverso filtri ideologici, usa, invece, il suo sguardo, lo sguardo di un figlio di una collettività, un figlio fortunato perché appartenente alla borghesia, che gli consente di guardare dall’esterno la plebe, ma questa stessa fortuna non gli permette di essere parte di quella plebe. In L’armonia perduta disserta sul concetto di napoletanità, se esiste ancora questo senso di appartenenza, questo senso di identità, e soprattutto cosa significhi. Per La Capria, oggigiorno, la napoletanità non ha un’accezione positiva, perché non racchiude più in sé il sentimento di armonia e di unità napoletana, che invece aveva in passato; tutt’altro, oggi rischia di essere un termine ridicolo e decadente, proprio perché si è persa quella «armonia» che era tipica degli intellettuali del passato. Di questa «armonia perduta» incolpa il processo di distruzione da parte della piccola borghesia verso l’alta borghesia che avrebbe depauperato, così, lo stato napoletano della sua autenticità culturale e sociale.[3]
Uno scrittore vale per quello che scrive, che produce e, quindi, per quello che crea e i libri-saggio di Raffaele La Capria vanno considerati delle creazioni; solo un’attenta analisi della dicotomia tra lo scrittore e la sua città può garantirci di afferrare la staticità della realtà del popolo napoletano, perché un’analisi ha lo scopo di entrare nel profondo di un concetto, di un’idea, o, come nel nostro caso, di un libro, deve sviscerarne i collegamenti interni ed esterni per verificarne la stratificazione; l’organizzazione di un’opera rivela soprattutto le motivazioni che hanno spinto l’autore a scriverla, la sua struttura assume importanza man mano che viene a galla e il motivo centrale in Ferito a morte, la sua metafora, si palesa già nell’incipit:
«La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come un reattore quando lo vedi sbucare ancora silenzioso nel cerchio tranquillo del mattino. L’occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese – è vicina, vicinissima, a tiro. La Grande Occasione. L’aletta dell’arpione fa da mirino sulla linea smagliante del fucile, lo sguardo segue un punto a destra delle branchie. Sta per tirare – sarà piú di dieci chili, pensa – e la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona. Luccica lí, sul fondo di sabbia, la freccia inutile. La spigola passa lenta, come se lui non ci fosse, quasi potrebbe toccarla, e scompare in una zona d’ombra, nel buio degli scogli. Adesso sta inseguendo la Grande Occasione Mancata». [4]
L’identità di fondo si sviluppa già nel primo capoverso, in una sorta di processo circolare hegeliano, c’è una tesi: La grande Occasione, c’è un’antitesi: La Cosa Temuta e, infine, c’è una sintesi: La grande Occasione Mancata; ma l’avventura del protagonista, Massimo De Luca, con la spigola, vissuto in un momento di dormiveglia, il suo osservarla, il suo rincorrerla e il suo cercare di prenderla, altro non è se non la metafora del suo rapporto con Carla Boursier, della quale è innamorato, ma anche del suo rapporto con Napoli, quella Napoli definita Foresta Vergine dal suo amico Gaetano. La metafora ricorrente della pesca, della vita sott’acqua, della Foresta Vergine, della bella giornata, rappresenta l’importanza della struttura compositiva dei singoli capitoli e dei singoli personaggi, che ruotano contemporaneamente intorno al protagonista e intorno a Napoli, rappresenta l’equilibrio e l’intelligenza dello scrittore nel maneggiare del materiale così delicato, mettendo in evidenza il motivo centrale del romanzo, la fuga, in espressioni lasciate cadere un po’ a caso, volutamente o meno. A tal proposito Filippo La Porta in un suo saggio su La Capria scrive: «Per capire qualcosa bisogna allontanarsene. Il congedo libera una verità che altrimenti resterebbe non detta. Si pensi anche all’addio di Massimo a Napoli in Ferito a morte, in quell’estate del ’54, con l’ultimo sguardo gettato sulla marina, tra le voci dei pescatori e le canzoni estive. Per capire Napoli bisogna allontanarsene». [5]
A questo punto si rende necessario porre in evidenza il momento tecnico stilistico, questo «stream of consciousness» di matrice joyciana alternato ai «moments of being» woolfiani, che rendono il romanzo una sorta di varco spazio-temporale, dove il protagonista passa continuamente dal presente al passato e viceversa, dove anche il passaggio dal sonno alla veglia si trasforma in una fusione tra la vita del protagonista e la vita di Napoli, tra le emozioni di Massimo e il cuore pulsante, ma statico di «una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme» [6]. Massimo vive in questa sorta di limbo che è rappresentato dalla bella giornata, la bella giornata che porta una pigrizia, un’indolenza e un’accidia, che lo bloccano, lo immobilizzano nell’attimo. La Napoli di La Capria diventa, così, la Dublino di Joyce che con le sue reti intrappola i suoi intellettuali, che mangia i suoi figli, dalla quale ci si può difendere solo con l’esilio, ma mentre Stephen, il protagonista di Joyce in A Portrait of the Artist as a Young Man, vuole l’esilio, desidera allontanarsi dall’Irlanda [7], Massimo, che si crogiola nell’inattività, nel torpore, che non ambisce al confino, decide, comunque, di lasciare la sua città, decide di accettare il lavoro a Roma, decide di troncare il cordone ombelicale che lo trattiene a Napoli e lo fa con sofferenza, ma consapevole che è l’unico modo che ha per salvarsi, come possiamo leggere:
«man mano che racconta, qualcosa dentro di lui si deforma, si corrompe, e il molle occhio indiscreto dell’altro affiorante dall’intrico di una Foresta Vergine più vasta di quella teorizzata da Gaetano, sempre più vicino, fluido, carico di minacciosa alterità, lo risucchia in un amalgama dal quale è impossibile sottrarsi, sentirsi diverso e distinto, riconoscere ciò che è rimasto intatto e quello che s’è perduto per sempre, o non si è mai avuto». [8]
Ferito a morte è un romanzo che ha una struttura piuttosto intricata e complessa, il suo flusso di ricordi e i continui sbalzi cronologici pretendono una lettura molto attenta per intercettare tutti quei dettagli che spingono il protagonista alla fuga dalla soffocante città partenopea, dall’opprimente Foresta Vergine, per incontrare la Storia, la Storia che ha sempre evitato Napoli o, forse, Napoli ha evitato Lei. Analizzando, quindi, il movimento temporale non possiamo lasciare da parte il suo riscontro spaziale, il tutto include una serie di motivi che diventano gli elementi costitutivi del romanzo e che per loro natura sono cronotopici [9], come l’incontro-commiato di Massimo e Carla nella prima parte, anzi proprio nella prima pagina, dove il nostro protagonista ricorda quello che è stato contemporaneamente un incontro e un commiato, dal quale si dipana tutta la storia:
«o sguardo di Carla che splende come un mattino tutto luce in fondo al mare, e lei così vicina – anche il battito del cuore! – vicina, con l’occhio marino aspettando. E poi offesa? stupita? incredula? prontamente disinvolta, comunque, eccola di nuovo seduta sul letto pettinandosi, per sempre lontanissima, che tenta di superare l’imbarazzo. Lui la guarda mentre lei si pettina i capelli raccolti sulla nuca, bionda coda di cavallo oscillante – luminosi come sulla spiaggia nella notte di Capodanno! – lui senza vita e un sorriso umiliato che copre il desiderio di morire». [10]
Ovviamente, Carla non rappresenta solo l’amore di gioventù di Massimo per una ragazza, o la tracotanza giovanile che nasconde l’imbarazzo dell’intimità, ma anche Napoli, il rapporto del giovane protagonista con la sua città, il sentimento altalenante tra il senso di appartenenza e il senso di oppressione, che prova nei suoi confronti. Carla incarna appieno la sirena Parthenope, che ammalia e attrae col suo canto, e Massimo-Ulisse, in un primo momento cade nel suo incantesimo, al punto da cercare il «commiato» definitivo durante un’immersione:
«Ancora un metro sotto, dietro lo scoglio e col sole alle spalle, ronzio nell’orecchio come un asciugacapelli, gli occhiali che premono sulle tempie danno un leggero malditesta. Appena avverti un leggero malditesta, diceva Glauco, e io già pensavo: Carla non lo saprà mai, mai, e nessun altro, mai, è stato un incidente, diranno, un’imprudenza – devi risalire, ma lentamente, fermandoti ogni due o tre metri, capito? L’aria che respiriamo… di ossigeno, 79% di azoto, col diminuire della pressione si libera dagli alveoli polmonari, bollicine nel sangue frizzanti come seltz circolanti nelle arterie, nel cervello, provocando paralisi e morte.» [11]
Il gesto estremo di Massimo rappresenta quella che secondo Herbert Marcuse è la volontà di liberarsi da una tensione, perché la discesa verso la morte è una fuga inconscia dal dolore e dal bisogno, non è altro che un'espressione della lotta eterna contro la sofferenza e la repressione, inoltre, l'istinto di morte stesso sembra avere subito l'influenza dei mutamenti storici che hanno influito su questa lotta [12], ed è questa lotta interiore che il protagonista ingaggia con sé stesso, con la sua volontà di restare, ma anche di partire, questa lotta tra queste due forze di pari intensità che lo spingerà verso il suo senso comune che rappresenta il suo istinto di conservazione. Le sue fughe in fondo al mare, le sue immersioni all’inseguimento della spigola non sono altro che fughe dalla realtà; i suoni ovattati, la vista alterata, il tatto vellutato che ritrova sott’acqua sono facilmente riconducibili alle sue proiezioni oniriche, alle sue meditazioni nei suoi momenti di assenza e ci troviamo, quindi, di fronte due piani temporali, quello reale che si svolge in una Napoli emersa, statica, immobile e quello equoreo che si svolge in una Napoli sommersa che, come un liquido amniotico, lo avvolge e lo protegge.
Non bisogna considerare, però, le teorie lacapriane solo attraverso Ferito a morte, sarebbe riduttivo, un unico romanzo, per quanto eccellente, non può racchiudere tutta la poetica di uno scrittore, l’intero suo pensiero, si rischierebbe di perdere di vista la reale problematica della sua produzione, soprattutto quella saggistica. In quello che è sempre stato considerato il capolavoro di La Capria, Ferito a morte, troviamo la capacità non solo di portare a galla quel sentimento di napoletanità che, comunque, aleggia in tutto il panorama intellettuale del capoluogo campano in quel periodo, ma anche di analizzarlo costatandone la ripetitività, una napoletanità senza sbocchi evolutivi, che rischia di diventare farsesca; lo stesso Sasà che nella prima parte emerge prepotentemente nella mischia dell’indolente gioventù della borghesia partenopea, nella seconda parte diventa un Sasà invecchiato, con ancora qualche rigurgito dell’antica baldanza, ma sostanzialmente scalzato dalla nuova gioventù rampante, una gioventù che, però, non ha inventiva e non ha cambiato le tecniche di accentramento dell’interesse, che non fa altro che imitare gli stessi metodi dei vecchi seduttori, bloccata in quella continua replica di espedienti tante volte riutilizzati, girando in tondo su sé stessa, senza alcuna possibilità di salvezza, di cui la scena del motoscafo di Glauco è una meravigliosa metafora:
«Il motoscafo continuava a descrivere sempre lo stesso largo cerchio fisso. A un dato punto del cerchio il fianco rimaneva esposto all’onda e imbarcava acqua a torrenti. (…) Dovevano aspettare che la benzina finisse, e allora poteva continuare a girare così per altre due ore, e in due ore dieci volte sarebbe colato a picco con un mare come quello […] Quando arrivò la barca di soccorso, le onde avevano completamente invaso lo scafo, Glauco lo aveva visto sparire, tirato giù dal peso del motore, come un piombo». [13]
Analizzando la linguistica di Ferito a morte, riscontriamo che le parole vengono usate in modo da dare le stesse emozioni delle parole parlate, perché l’oralità contiene una dose di emotività che si riflette sull’intero discorso, anche grazie alle pause, alle intonazioni rese per iscritto grazie alle vocali allungate: «Di nuovo chiama: “Maaa… ssimo! Maaa… ssimo!”Poi un bianco strascico sfavillante sul bluceramica del mare, il rombo di un motore, dritto addosso a lui! Balza impiedi. Ma che? Sono impazziti?! “Motoscafo!… Ueeeeé! Motoscafo!… Disgraziati! Ueeeeé!”» [14]. La tematica, che usufruisce di una struttura che si pone su più piani temporali: il presente e il passato; su più piani spazio-esistenziali: la realtà emersa, quella equorea e quella illusoria del dormiveglia; su più piani narrativi: narrazione, discorso diretto e indiretto, flusso di pensiero, si contrappone alla parola, che dal punto di vista linguistico si trova in una dimensione totalmente diversa; infatti, la tematica specula soprattutto su quelli che sono i contenuti e gli argomenti estetici, e la parola, intesa come trascrizione conoscitiva del momento etico, viene usata dal nostro scrittore in tutte le sue sfumature, vibrazioni e intonazioni per rendere realistico il passaggio da un piano all’altro. [15] Ma come potrebbe la parola, da sola, esprimere tutto ciò? Cosa potrebbe fare la parola senza il «senso comune»? È proprio questo senso comune che gli permette di vedere, di scomporre il presente e il passato e analizzarne le debolezze, di esaminare tutto ciò che riguarda la cultura, soprattutto la letteratura; è il senso comune che gli consente di estrapolare l’evidenza della realtà dal lattiginoso magma dalla quale è stata inghiottita; è sempre quel senso comune che permette il perdurare nella sua memoria di immagini ed esperienze passate e di riviverle attraverso emozioni dove il bello e il brutto, la felicità e la tristezza, si confondono, e dove anche passato, presente e futuro si mescolano. [16] Un assaggio di questa abilità dell’analisi attraverso la scomposizione, la ricerca del dettaglio per approfondire l’analisi del personaggio, dell’ambiente circostante, della società, la troviamo nel suo primo breve romanzo Un giorno d’impazienza: «solo separati frammenti, il taglio largo degli occhi, lo spessore assonnato delle palpebre, il segno scontornato del rossetto, la rima sinuosa delle labbra, l’arsura dei capelli, si disponevano in una composizione astratta, variabile, come i pezzi di carta d’un caleidoscopio» [17].
La memoria è una costante nelle opere di La Capria, lo porta a indagare in quella che è la tenue linea di demarcazione tra la vita reale e quella narrata, senza di essa non ci sarebbe alcuna consapevolezza del suo perdurare e non si riuscirebbe ad afferrare la realtà. E così la memoria si ricollega al tempo, il tempo cronologico, quello che a Napoli si spreca, non concedendo di notare differenze tra lo scorrere di un giorno o di un anno, ma anche quello meteorologico, quello della “bella giornata” che anestetizza i sensi, che fa cadere in una sorta di torpore, e che, quindi, addormenta la memoria, perché come lui stesso afferma: «Dove non c’è giudizio non ci può essere memoria e dove non c’è memoria non c’è neppure il presente.» [18], perché il tempo nella città partenopea gira su sé stesso coinvolgendo tutta la popolazione a causa della famosa «armonia perduta». L’allontanamento dalla sua città gli consente di uscire da questo circolo vizioso e riesce a vedere dettagli che ignorava perché erano invischiati in una nebbia lattiginosa, riesce, così, a staccarsi da quel sentimento di dipendenza che i napoletani avvertono e afferma:
«Napoli è una carta moschicida e guai allo scrittore che ci sta troppo sopra! Si rimane appiccicati e distratti dalla cronaca nera o grigia dei mille fatti diversi che la città produce continuamente, e così diventa difficile risalire con uno sguardo conoscitivo più penetrante alle vere cause delle cose che accadono e sono accadute. Si perde il filo. Stia dunque lontano dalla carta moschicida chi cerca di raccontare Napoli. Dovrebbe sapere questo scrittore che il racconto che se ne fa è di importanza fondamentale perché dietro il racconto che finora ne è stato fatto, Napoli si è nascosta, e lì dietro ha vissuto per un tempo interminabile, soddisfatta dalle tante false immagini di sé». [19]
In Me visto da lui stesso, che a una lettura superficiale potrebbe sembrare una semplice raccolta di interviste, ma approfondendo risulta essere un’attenta analisi degli intellettuali della sua generazione, possiamo constatare che attraverso la narrazione delle sue esperienze, di aneddoti, di momenti di vita, descrive quella che era la cultura degli intellettuali del periodo, facendo emergere la latente fusione tra sfera emotiva e sfera intellettiva, e dichiarando, infine, la forte influenza del nichilismo nella letteratura del novecento. Risulta anche evidente che il suo rapporto con Napoli è sempre stato un rapporto conflittuale, La Capria ritiene Napoli una città universale e multiculturale, una città che potrebbe essere la capitale culturale del Mediterraneo se volesse, ma la sua intellighenzia manca di curiosità intellettuale perché «l’innamoramento esagerato per la propria identità castra la creatività» [20], per cui subentra il sentimento della lacerazione, una dissociazione fatale tra la mente e il corpo, tra l’età matura e quella giovanile, tra lui e la sua città, tra l’Io e l’Es. Per il nostro scrittore, questa rottura tra l’essere e il dover essere arriva dopo una lunga lotta interiore, dopo una serie di «false partenze», perché il momento della divisione esalta il concetto di individualità; la precedente fusione tra essere e dover essere dava un senso di equilibrio basato su due forze contemporaneamente simili e contrarie, la stabilità che si viene a perdere quando si verifica la scissione provoca uno squilibrio che è possibile ripristinare solo riaffermando la propria identità.
La metafora della spigola si sviluppa lungo, non solo, il suo capolavoro Ferito a morte, ma anche in tutta la sua produzione. La spigola, bella, argentea, che rifrange sulle sue squame in tanti piccoli riflessi la luce che filtra attraverso le acque trasparenti, scomponendola fin nei minimi dettagli, quella spigola che è l’Occasione della vita, si materializza però solo nel mondo subacqueo o nel dormiveglia, in un mondo parallelo a quello reale, dove prevale il rapporto con il subconscio, dove i sensi sono alterati, e la «spigola» è ammantata di un fascino particolare, è l’Occasione da cogliere, e lui la coglie, la afferra colpendola con il suo fucile e la descrizione di questa «Occasione conquistata», di questa battaglia vinta è uno dei momenti più lirici del libro:
«Adesso la vedevo bene, in tutti i particolari: la grinta della bocca bordata di bianco, carnosa, con gli angoli piegati in giù, l’occhio fisso, il rilievo delle squame, la zigrinatura orofumo lungo il corpo già vibrante di allarme. E dietro vedevo, immensa, la mole dei macigni della scogliera. L’attimo decisivo – a picco puntandola dritto sulla parte più grossa dove il corpo s’allarga – e sentii che l’asta entrava in quel corpo. Trafitta si rovesciò di fianco, splendida tutta d’argento, con le pinne irte sul dorso, la bocca aperta nello spasimo, il corpo a mezzaluna e come paralizzato. Il peso dell’asta la trascinava così, a fondo, sopra un liscio scoglio bianco, e il sangue saliva dalla ferita come un filo di fumo rosato nell’acqua. Poi l’asta cominciò a tintinnare sullo scoglio, lo spago uno strappo, teso nelle mie mani, la spigola con l’asta infilata nel corpo tentò, si dibatté, frenetica. Ma l’aletta dell’arpione s’era bene aperta, non aveva più scampo». [21]
La descrizione dell’aspetto della spigola, i dettagli delineati come dei fotogrammi, sembra che lo scrittore stia facendo un’analisi pittorica in cui vengono annotati tutti i particolari per poi rimetterli insieme, o come un bambino che prima controlla singolarmente tutti i pezzi di un puzzle per poi comporlo; allo stesso tempo il tratteggio della spigola ha un che di sensuale e di sessuale: «la bocca carnosa», «il corpo già vibrante di allarme», «l’asta entrava in quel corpo», «la bocca aperta nello spasimo» e, infine, «il sangue saliva dalla ferita come un filo di fumo rosato nell’acqua», sembrano quasi la descrizione di un amplesso, forse quello che Massimo ha desiderato, anelato e fallito con Carla, o forse anche quello qui ritroviamo il rapporto quasi carnale che La Capria ha con Napoli, una città che ti ammalia, ti attira tra le sue spire, sembra ti stia abbracciando, ma in realtà ti stritola, ti stordisce e, infine, ti ferisce a morte. La spigola appare nella realtà emersa in un’unica occasione in Ferito a morte, quando viene portata in tavola da Assuntina, la domestica, «La spigola, bollita, con maionese, fa bella figura intera nel piatto.» [22], ma è morta, è stata cucinata, non ha più la bellezza di quando si muoveva sinuosa sul fondale, o quando si dibatteva negli ultimi istanti di vita, ora è solo un cadavere preparato per il suo funerale, ed è quello che La Capria, attraverso il suo alter ego Massimo, celebra al suo rapporto con Napoli.
Patrizia Ubaldi
(n. 10, ottobre 2022, anno XII)
NOTE
[1] https://www.angolotesti.it/P/testi_canzoni_pino-daniele_1450/testo_canzone_napule_e_36596.html.
[2] Cfr. Antonio Ghirelli, Storia di Napoli, Einaudi, Torino 2015.
[3] Raffaele La Capria, Napoli. L’armonia perduta – L’occhio di Napoli – Napolitan graffiti, Mondadori, Milano 2015.
[4] Raffaele La Capria, Ferito a morte, Mondadori, Milano, 1984, p.9.
[5] Filippo La Porta, Il sud magico e razionale di Raffaele La Capria in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, a cura di Paolo Grossi, Napoli, Liguori, 2002, p. 175.
[6] Raffaele La Capria, Ferito a morte, p.94.
[7] James Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, Dover-Thrift Editions, Dover 1994.
[8] Raffaele La Capria, Ferito a morte, p. 11.
[9] Michail Bachtin, Estetica e romanzo, traduzione di Clara Strada Janovic, Einaudi, Torino, 1997, pp. 244-246.
[10] Raffaele La Capria, Ferito a morte, p. 9-10.
[11] Raffaele La Capria, Ferito a morte, p. 33.
[12] Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1974, p. 55.
[13] Raffaele La Capria, Ferito a morte, pp.142-143
[14] Raffaele La Capria, Ferito a morte, pp. 36-37.
[15] Cfr. Michail Bachtin, Estetica e romanzo, pp-39-52.
[16] Cfr. Raffaele La Capria, La mosca nella bottiglia: Elogio del senso comune, Rizzoli, Milano 1997.
[17] Raffaele La Capria, Un giorno d’impazienza, Mondadori, Milano 2015, p.61.
[18] Raffaele La Capria, Il fallimento della consapevolezza, Mondadori, Milano 2018, p.14.
[19] Raffaele La Capria, Napoli. L’armonia perduta – L’occhio di Napoli – Napolitan graffiti, pp. 5-6.
[20] Raffaele La Capria, Me visto da lui stesso, Manni, Lecce 2002, p. 138.
[21] Raffaele La Capria, Ferito a morte, p. 52.
[22] Ibid. p. 110.
BIBLIOGRAFIA
AAVV, 9 modi di leggere Ferito a morte di Raffaele La capria, Fausto Fiorentino, Napoli 1997.
Bachtin Michail, Estetica e romanzo, traduzione di Clara Strada Janovic, Einaudi, Torino 1997.
Ghirelli Antonio, Storia di Napoli, Einaudi, Torino 2015.
Joyce James, A Portrait of the Artist as a Young Man, Dover-Thrift Editions, Dover 1994.
La Capria Raffaele, False partenze—Letteratura e salti mortali—Il sentimento della letteratura, Mondadori, Milano 2002.
La Capria Raffaele, Ferito a morte, Mondadori, Milano 1984.
La Capria Raffaele, Il fallimento della consapevolezza, Mondadori, Milano 2018.
La Capria Raffaele, La mosca nella bottiglia: Elogio del senso comune. Rizzoli, Milano 1997.
La Capria Raffaele, Letteratura e libertà, Conversazione con Emanuele Trevi, Quiritta. Isola del Liri (FR), 2002.
La Capria Raffaele, Letteratura e salti mortali, Mondadori, Milano1990.
La Capria Raffaele, Me visto da lui stesso, Manni, Lecce 2002.
La Capria Raffaele, Napoli. L’armonia perduta – L’occhio di Napoli – Napolitan graffiti, Mondadori, Milano 2015.
La Capria Raffaele, Ultimi viaggi nell’Italia perduta, Bompiani, Milano 2015.
La Capria Raffaele, Un giorno d’impazienza, Mondadori, Milano 2015.
La Porta Filippo, Il sud magico e razionale di Raffaele La Capria in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, a cura di Paolo Grossi, Liguori, Napoli 2002.
Marcuse Herbert, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1974.
SITOGRAFIA
https://roma.repubblica.it/cronaca/2022/06/28/news/morte_raffaele_la_capria_ultima_intervista_casa-355649403/
https://www.angolotesti.it/P/testi_canzoni_pino-daniele_1450/testo_canzone_napule_e_36596.html.
https://www.raicultura.it/speciali/raffaelelacapria
https://www.youtube.com/watch?v=fBoTRoH37mg
https://www.youtube.com/watch?v=rx1YhcTnhnI
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