Il sentimento di «assenza» in «Anna Cappelli», dramma di Annibale Ruccello

Vedi, Napoli è una città immobile che respinge tutto, vendicativa, ancora non ha digerito il fatto di non essere più capitale. È contenta quando succede qualcosa che la distrae. La gente si meraviglia, si spaventa, prega, spanteca, mentre lei si compiace, finalmente torna a esistere. (…) Tra i tanti, l’unico grande problema di Napoli è l’assenza. [1]

La protagonista principale del dramma Anna Cappelli è indubbiamente l’assenza, assenza percepita proprio come mancanza, infatti, la scena si apre con la protagonista che, seduta da sola a un tavolo mentre mangia pasta e piselli, cerca di coinvolgere in una conversazione la proprietaria dell’appartamento, dove ha una camera in affitto [2], e fin dalle prime battute si avverte il malessere dell’incomunicabilità in senso letterale, intesa come assenza di comprensione reciproca; Anna e la proprietaria non riescono a capirsi, come se parlassero due lingue diverse, lo stesso avviene con la famiglia e dopo un primo momento di afflato, si verifica la medesima cosa con il suo uomo; si avverte la mancanza di sicurezza economica, di un proprio posto nella società, di amicizie vere, il tutto metterà in evidenza anche una latente assenza di stabilità mentale di Anna.
Anna Cappelli è un one woman show, un’opera particolare che si sviluppa in un atto unico suddiviso in sette scene, in questo caso monologhi recitati in un crescendo di emozioni e di disperazione, emozioni snocciolate attraverso un sistema catottrico delineato dalla disperazione della quotidianità, che allontanano sempre più la protagonista dal suo sogno piccolo-borghese del matrimonio, della famiglia, della casa.
È l’ultimo lavoro originale di Annibale Ruccello, depositato alla SIAE poco prima di morire [3], una tragedia dalle tinte fosche, tanto care al nostro autore, una storia che si dipana sempre facendo un passo nella follia e uno nella ragione, dove questa giovane donna, allontanatasi per motivi di lavoro dalla famiglia di origine con cui viveva un rapporto oppressivo e morboso, si ritrova catapultata in una situazione parimenti opprimente, come affittuaria di una stanza presso la signora Tavernini [4], una stanza che diventa una camera a gas, un ambiente mefitico al quale deve assolutamente sottrarsi in qualsiasi modo.
Il dramma è scritto in italiano, Ruccello abbandona il vernacolo in favore della lingua nazionale, il linguaggio usato è sciapo, senza colore e senza calore, basato su frasi fatte e su meccanismi derivati dall’uso mediocre dell’idioma; a tratti si notano dei rigurgiti di dialetto che affiorano attraverso una sorta di traduzioni letterali di locuzioni appartenenti alle parlate locali: «Cosa crede, signora che a me faccia piacere stare in questo paese a gettare il sangue tutti i santissimi giorni (…)?» [5], dove «gettare il sangue» è un tipico modo di dire del centro-sud per descrivere un lavoro pesante, fatto controvoglia e mal retribuito. Forse Ruccello usa questo stile come ennesima dimostrazione della potenza del dialetto, e, forse, è anche una provocazione verso chi lo accusava di non riuscire, o di non poter andare oltre Roma a causa del suo uso indiscriminato del linguaggio vernacolare [6].

Nella tragedia di Anna Cappelli la mancanza del dialetto serve a sottolineare la mediocrità, la monotonia, il grigiore della vita della protagonista, serve a dimostrare quello che Ruccello pensa della lingua italiana: «Questo linguaggio [l’italiano] così appiattito, così brutto, è quanto di più sgradevole mi è dato subire acusticamente… La repulsione che mi ispira è pari solo alla irresistibile attrazione che mi porta a coglierlo, ad annotarlo, a memorizzarlo per poi riciclarlo in un’ambiguità di sentimenti che ancora devo riuscire a decifrare.» [7] E, infatti, la lingua usata è intrisa di interiezioni, ripetizioni, fatismi, interruzioni, incisi enfatici:

SCENA I «No no Signora, dicevo così per dire… Non volevo certo offenderla… Cosa le stavo dicendo?… Ah sì, dei miei!.. » (…) SCENA II «Ragioniere!... Ragioniere!... Ragioniere, senta potrebbe farmi la cortesia di quelle pratiche… Come?... Ma cosa dice ragioniere, se è una settimana che non vado neanche dal parrucchiere!… No no no, sono miei così al naturale…Odio le pitture, i cachét (…)» SCENA III «Eeeh, lo so e lo e lo e lo e lo e eeeh lo sooo Tonino, lo so che è una formalità, ma questo è un fatto per me, per… i… e… io, aspetta, allora io vo… aspetta, io voglio, aspetta Tonino, io voglio che… aspetta, io… fammi spiegare!» [8]

Ruccello, in questo lungo monologo, riprende la struttura della lingua parlata, riproducendo suoni, spezzature, ritmo sincopato, fonemi balbettati, senza dimenticare le sempre presenti pause che aggiungono spessore alle parole; indubbiamente, questo dramma si discosta dall’intera produzione ruccelliana, non solo per le scelte linguistiche, ma anche per quelle del linguaggio che incarna appieno la teoria bachtiniana del cronotopo letterario, descrivendo gli anni ’60 di un’Italia piccolo borghese della provincia laziale sfruttando una terminologia che rispecchi, appunto, sia il tempo cronologico che lo spazio geografico [9]; inoltre, ripresenta il prototipo del personaggio femminile che Ruccello mette in evidenza nelle sue rappresentazioni, donne che si presentano forti, con una grande carica emotiva e di carattere, ma che sono sempre in bilico sul baratro della follia, e Anna Cappelli è fino alla fine una funambola eccellente, che riesce a tenere a bada la sua mente disturbata prima di scoppiare nell’ultima scena.
Anna vive una vita normalissima, come quella di Adriana in Notturno di donna con ospiti, o di Ida in Weekend, con un lavoro che la porta lontano dalla sua città, in un’altra realtà non priva di mediocrità, con una vita fatta di piccole cose, di insignificanti giornate che si dividono tra l’ufficio e una camera in affitto; come le altre protagoniste dei drammi ruccelliani, anche Anna soffre la mancanza di comunicazione, cerca di instaurare rapporti di amicizia con le colleghe, finanche con la signora Tavernini per sopravvivere nel deserto della solitudine sociale; cerca di non mostrare la rabbia e la sofferenza per il tenore di vita che è costretta a vivere, la società delle apparenze del boom economico, che si sviluppa a cavallo tra la prima e la seconda metà del precedente secolo, è in pieno fulgore e sembra che solo lei non riesca risollevarsi, come se fosse intrappolata in un magma che la risucchia, finché l’incantesimo si spezza e, anche se si era quasi rassegnata al ruolo di zitella, comincia a frequentare un collega, il ragioniere Tonino Scarpa. Convinta di aver raggiunto una relativa tranquillità economico-affettiva, relativa perché la convivenza con il ragioniere non è vista di buon occhio dalla società ipocritamente benpensante dell’epoca, vede all’improvviso svanire tutti i suoi sogni quando Tonino le comunica che ha intenzione di lasciarla e allora scatta la follia: decisa a non perdere il «suo» uomo, la «sua» casa, la «sua» vita, nell’ultima scena dopo aver appena ucciso Scarpa, sta organizzando una serie di pasti per mangiarlo in modo da rimanere insieme al suo uomo per sempre e decide, per non sprecare niente del «suo amato Tonino», di trasformare le sue ossa in candele per illuminare tutta la casa, alla quale, alla fine vuol dare fuoco, non potendo sopportare l’idea di lasciarla ad altri.

Tonino… Tonino?... Questo è solo un atto d’amore… Hai notato?... Ho detto è… No ho detto è stato… Perché quello che ho fatto è solo l’inizio di questo atto d’amore… Tu ora non puoi sapere più… Non puoi capire… E forse non avresti comunque capito… Ma io ho un piano… Un piano mio… Un disegno… Sai Tonino tu non mi abbandonerai mai più… Ma veramente… Mai più!... … E lo sai perché?... Perché io adesso… Ti mangio… Sì, ti mangio… Ti mangio tutto! Per fortuna che la vecchia ghiacciaia che abbiamo giù in cantina funziona ancora bene! [10]

Anche qui Ruccello usa un finale estremo, anche in questo lavoro troviamo una conclusione segnata da un atto clamoroso, quale l’antropofagia, che sottolinea il malessere della protagonista che vuole essere padrona della propria vita e del proprio destino. In questa follia di Anna, permeata di lucidità, è evidente il suo desiderio di incorporare e di farsi incorporare dall’altro, desiderio che normalmente si esprime attraverso un atto estremamente tenero come il bacio, ma che, in questo finale, viene esasperato fino al parossismo [11]. Come le altre protagoniste dei drammi ruccelliani, anche Anna è guidata dagli eventi all’epilogo tragico, una serie di avvenimenti fanno sì che la situazione degeneri, così come la ragione della nostra eroina che alla fine sfocia nella follia e l’amore nella morte. Questo binomio amore-morte è costante nella produzione di Ruccello, le sue protagoniste, sempre impantanate nella mediocrità della routine quotidiana, trovano il loro riscatto attraverso il delitto, provocando la morte del soggetto-oggetto amato riescono a ristabilire una certa forma, talvolta molto personale, di equilibrio. L’ombra della tragedia classica è ovunque palpabile e la sua fusione con gli elementi del teatro d’avanguardia creano un ibrido che, discostandosi dall’effetto catartico, lascia come prodotto dei personaggi ammantati di un alone nero.
In Anna Cappelli, che non è altro che un lungo monologo, non ci sono altri personaggi sul palcoscenico, gli altri protagonisti, la proprietaria signora Tavernini e il ragioniere Tonino Scarpa, sono assenti, vengono solo menzionati, ma fungono da interlocutori e anche se sprovvisti del dono della parola, la loro presenza è forte e palpabile; questo, indubbiamente è dovuto all’abilità di Ruccello di rendere con le sue battute, le sue pause, i suoi balbettii presenti anche gli assenti; è rimarchevole il fatto che un dramma basato sulle assenze riesca a far sentire la presenza di personaggi, che in realtà non ci sono, solo con l’uso delle parole. Questa situazione scenica, dovuta all’unicità dell’attrice, il suo rivolgersi a degli interlocutori assenti, che potrebbe sembrare surreale, ha lo scopo di sottolineare il disagio sociale di Anna dovuto a questo senso di solitudine, a questa mancanza di comunicazione. Anna ha bisogno di comunicare, lo dimostrano certi suoi discorsi a volte inutili, futili, con dettagli eccessivi:

No no il mio babbo e la mia mamma stanno benissimo, e chi li ammazza quelli? Invece la mia sorella più piccola, Teresa, ha preso quattro in matematica al primo trimestre! No dico io gliel’ho detto al babbo, eh… di santa ragione, deve suonargliele di santa ragione! A quindici anni non ha ancora messo la testa a posto! Invece la mia sorella più grande, Giuliana, ah… diciotto anni, si è fidanzata con un… sììì! Sì, fidanzata! Fidanzata!.. con uno studente in medicina, un bravo ragazzo, uno con la casa del suo, un buon partito… cosa vuole che le dica: speriamo che duri!… Sì, che “duri”, nel senso di di di mmm… che duri, che… Madonna che… che stavo per dirle?… [12]

Dalle sue parole traspare rabbia, frustrazione, invidia verso la sorella che si avvia alla vita normale del «buon matrimonio» e senso di superiorità, quasi sentimenti di genitorialità, verso l’altra sorella che invece non studia, non si omologa, non si adatta alla normalità. Si avverte in Anna un doppio sentimento di assenza di qualcosa, qualcosa che le manca, le manca la normalità, l’omologazione della prima sorella che vola verso una vita coniugale benestante, ma le manca anche la ribellione dell’altra sorella, la piccola che non studia e che lei vorrebbe il padre rimettesse in carreggiata anche con la violenza. Anna è un personaggio borderline, si dibatte tra la ricerca della quotidianità e della disobbedienza, vive una vita comune, dove svolge un lavoro comune, di routine, è alla ricerca della perfezione della consuetudine che crede di trovare nel matrimonio, specchio della società benpensante del periodo, periodo della crescita economica, ma lo fa attraverso la ribellione, accettando l’offerta di convivenza di Tonino. Con questo atto di ribellione alla morale, che rappresenta soprattutto un’infrazione alla società come istituzione, Ruccello fa un’approfondita analisi antropologica della società conformista di questo periodo, mettendo in evidenza come la natura istintuale della disobbedienza combatta e spesso abbia il sopravvento sulla consapevolezza. Nicola Fano a tal proposito scrive:

(…) il suo Anna Cappelli appariva come una vera e propria grande creazione teatrale. Annibale Ruccello, dunque, era un autore vero, non un giocoliere o un improvvisato assemblatore di parole. Qui ha raccontato del triste fallimento dell'amore di una donna di provincia. Una storia sottile e descritta con sapiente tratteggio. Poi, alla fine di quell'amore, l’iperbole: la donna uccide l'amato per non farlo allontanare mai più da sé.
Una vicenda cruda, dunque, che pure affonda le radici in quella particolare antropologia meridionale tanto cara a Ruccello.
[13]

Attraverso Anna, il nostro autore dimostra come la repressione sociale sia un fenomeno storico e come la sottomissione degli istinti dovuta ai freni costrittivi, che vengono imposti dall’uomo, in quanto appartenente alla categoria dell’animale evoluto, e non dalla natura, possano contribuire alla creazione dell’individuo represso; questo genera una battaglia tra due forze rappresentanti la repressione esterna e quella interna che alimentano l’incapacità dell’uomo di svincolarsi dalle catene sociali, fino a trasformarsi in autoinibizione, che a sua volta accetterà il giogo della morale comune [14]. È quello che succede ad Anna nelle ultime due scene, quando scopre che la sua disobbedienza alle regole non è servita a nulla, che l’accettazione del compromesso della convivenza, quindi la rottura di un tabù sociale, non ha avuto i riscontri positivi che si aspettava, non è servita ad assicurarle quella serenità che sperava, perché il ragioniere Scarpa ha intenzione di lasciarla, ma soprattutto vuole toglierle la casa, questo fa sì che le due forze, della repressione interna ed esterna, rompano gli argini, quindi viene a mancare l’equilibrio tra le due, che alla fine finiscono per confondersi, e Anna si ritrova, come in un gioco dell’oca, alla casella iniziale, dove è costretta a riscattarsi dall’abbandono.

(…) Tu stai andando via, ma mi stai mandando via, mi stai mandando via da questa casa, Tonino! (…) Io ti ho sacrificato tutto: giovinezza, rispettabilità, matrimonio, ho fatto da serva in questa casa e poi… sì, lo so, l’ho scelto io, lo so, lo so Tonino, infatti non sto recriminando nulla, aspetta Tonino, non farmi dire cose che non voglio, aspetta Tonino, non voglio dire questo, aspetta… Sta di fatto che a questo punto ogni più piccolo oggetto di questa casa è diventato… mio! Mio, mio, mio, mio… (…) Tonino non mi lasciare non mi lasciare non mi lasciare… [15]

L’assenza del futuro, visto come la perdita del possesso e quindi del controllo, contribuisce a portare Anna in caduta libera nel baratro della follia, il ritorno della paura di essere «spossessata» dei suoi oggetti e del suo uomo, quindi di ritrovarsi in quel vuoto, quel senso di mancanza che aveva riempito con il suo amore verso Tonino, scatenano la sua parte peggiore e mettono in evidenza il connubio perfetto tra le radici ancestrali dell’essere e la solitudine della vita nelle periferie non solo metropolitane, ma soprattutto nelle periferie sociali. Nella settima scena Anna, nella sua totale alienazione, spiega il suo progetto per rimanere sempre insieme al suo amato e alla casa, spiega qual è l’unico modo per rimediare al trauma della perdita: l’elaborazione del lutto deve avvenire attraverso il rituale dell’antropofagia. Questa soluzione rivela sia la disperazione di questa donna, che incarna l’incapacità di sopportare la privazione, sia la sua volontà di riappropriarsi della propria dignità, che è stata distrutta dalla persona in cui aveva riposto tutte le sue speranze. Anna non riesce a sopportare l’idea della mancanza del suo uomo, non riesce a pensare ad altro, l’idea di perderlo, l’idea di perdere quello che ha costruito certosinamente, giorno dopo giorno, genera quell’idea dell’assenza che ricorda il pensiero dominante leopardiano, come vediamo nella sesta scena: «(…) Tu mi appartieni! Il tuo corpo appartiene a me! Neanche più a te! È mio!... Io non posso permettere che una qualsiasi altra possa toccarti… Possa toccare il tuo braccio… Il tuo, il tuo gomito Non ridere… Sapessi quanto tempo c’ho messo per impossessarmi del tuo gomito… E ora… E ora… Io… Io… Io dovrei rassegnarmi…» [16]. Alla base del desidero ci sono sempre l’assenza e la mancanza, più Anna sente Tonino allontanarsi, più il desiderio di possesso aumenta e trova il suo appagamento nel cibarsi del suo uomo. Anna è certa di quello che sta facendo, l’unico dubbio è da quale parte del corpo le conviene cominciare il suo macabro banchetto, se dal cervello o dal cuore «(…) da che parte posso cominciare? Da dove credi che sia meglio?... Il cervello, eh? Il cervello, forse anche perché quello non è mai stato veramente mio… Se sei riuscito a nascondermi tutti i tuoi progetti… Non è mai stato mio è giusto quindi che lo diventi subito… O il cuore?... Ma dov’è che risiederà veramente il sentimento?... In quale organo?... E i pensieri?...» [17]

Quando Anna, nella sesta scena, scopre che Tonino la sta lasciando, apre la porta sulla sua psiche e vede lo strazio che la devasta, si rende anche conto che l’artefice di quella devastazione, l’omicida dei suoi sogni e dei suoi progetti, altri non è che l’oggetto del suo amore; che quei pensieri, quei desideri e quei sentimenti un tempo pieni di allegria e confidenti nel futuro, giacciono ora privi di vita, assassinati dall’amato che ha svelato la sua natura di predatore [18]. Così Anna decide di riprendersi la sua dignità e può farlo solo attraverso un’azione purificatrice, solo cibandosi del suo uomo potrà colmare quel vuoto che la sua assenza potrebbe lasciare.
La personalità disturbata di Anna dimostra la sua frattura interiore, ma mette anche in evidenza il lento e costante sgretolamento a cui viene sottoposto il sistema sociale italiano di quel periodo storico. Attraverso le sette scene viene ripercorso un lasso di tempo di circa tre anni in cui si vedono i cambiamenti della protagonista, quasi sette persone o personalità diverse, dovuti alla sua volontà di adattarsi alla società piccolo borghese del tempo, fatta di apparenza e ipocrisia, condita di solitudine e incomunicabilità. Lo stesso autore in un’intervista dirà:

Innanzitutto credo che le mie fonti ispirative siano necessariamente quelle… cioè c’ho un rapporto diretto con la piccola borghesia; perché sono un piccolo borghese di estrazione sociale, e poi perché in fondo il primo modello di quando ero proprio piccolo, quando ero bambino, quando ero adolescente, di teatro è stato l’incontro col mondo di Eduardo che è, comunque, un mondo di piccola borghesia, cioè i rappresentanti sono della piccola borghesia, da un lato; dall’altro lato c’era poi, in quella che potrebbe essere una sorta di trilogia, un’attenzione particolare al degradarsi della vita urbana al degradarsi proprio della piccola borghesia che sono i modelli più meschini. Un tipico rapporto del piccolo borghese con la propria classe di appartenenza è quello di odiarla. C’è un rapporto di odio sui modelli rappresentativi che finiscono semplicemente per invischiare la persona che li vive. [19]

L’assenza sul palcoscenico degli interlocutori di Anna è emblematica, ognuno di loro, pur non parlando, mostra un lato buio della collettività: la proprietaria incarna l’opinione pubblica e il pensiero ipocrita del periodo, la famiglia rappresenta l’avidità, il ragionier Tonino Scarpa impersona la corruzione e l’egoismo che umilieranno la nostra eroina al punto da devastare la sua già fragile psiche. L’assente protagonista maschile, il ragioniere, mette in pratica il più abbietto strumento di potere in suo possesso: l’umiliazione. Grazie alle pause nella sesta scena del monologo si possono quasi sentire le risposte intrise di derisione di Tonino alle domande di Anna e avvertire la mortificazione che la stessa prova nel vedersi messa alla porta, una mortificazione dalla quale si può riscattare solo attraverso l’eliminazione fisica di colui che l’ha provocata; Anna deve rimuovere ciò che le ha procurato vergogna, deve riprendersi ciò che considera una sua proprietà, come lo stesso ragioniere, e lo fa nel modo più cruento, forse, ma anche in quello più letterale perché mangiando il suo uomo diventano una cosa sola e bruciando insieme alla casa e a tutti gli oggetti contenuti saranno una sola polvere, non sarà mai più possibile dividerli. Ricorda molto il concetto di possesso che diventa ossessione in Giovanni Verga quando alla fine della novella La roba Mazzarò è oramai vicino alla morte e «uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me!» [20]
Il sentimento di solitudine di Anna Cappelli incarna l’archetipo dell’assenza e attraverso il suo lungo monologo lo spettatore percepisce in maniera inequivocabile l’assenza della comunicazione, l’assenza della dignità, l’assenza del rispetto, l’assenza dell’amore, l’assenza della comprensione e paradossalmente anche l’assenza della morte, morte che, nonostante la sua presenza sia tangibile fin dalla prima scena, risulta assente, perché mangiando il cadavere del suo uomo e bruciando la casa, non resterà nessuna traccia del loro passaggio nella cittadina della provincia laziale, non resterà nulla che potrà testimoniare la loro vita e, quindi, anche la loro morte.


Patrizia  Ubaldi
(n. 3, marzo 2022, anno XII)





NOTE

[1] Marco Ciriello, Un giorno di questi, Rubbettino, Editore, 2018, p.107.
[2] Cfr. Annibale Ruccello, Teatro, introduzione di Enrico Fiore, Milano, Ubulibri, 2005, p.107.
[3] Ibid. p. 106.
[4] Ibid. pp.105-115.
[5] Ibid. p. 107.
[6] Cfr. Nicola Fano, La solitaria guerra di Annibale che non è arrivato alle Alpi, in: «L’Unità», 18 aprile 1990. https://archivio.unita.news/assets/main/1990/04/18/page_025.pdf 07/11/2021 H.14:50.
[7] Annibale Ruccello, «Perché faccio il regista», in Sipario, marzo-aprile 1987, 466, p. 78.
[8] Annibale Ruccello, Teatro, cit. pp. 107-110.
[9] Cfr. Michail Bachtin, Estetica e romanzo, traduzione di Clara Strada Janovic, Einaudi, Torino, 1997, pp.239-240.
[10] Annibale Ruccello, Teatro, cit. pp. 113-114.
[11] Cfr. Aldo Carotenuto, Eros e pathos, Bompiani, Milano 2001, p. 111.
[12] Annibale Ruccello, Teatro, cit. p. 107.
[13] https://archivio.unita.news/assets/main/1986/09/28/page_010.pdf Nicola Fano, Parola di nuovo teatro, in «L’Unità», 28 settembre 1986.    
[14] Cfr. Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1974, pp. 46-47.
[15] Annibale Ruccello, Teatro, cit. pp. 112-113.
[16] Ibid.. cit. p.113
[17] Ibid., cit. pp. 112-113
[18] Cfr. Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Milano 1993, pp. 24-25.
[19] Videointervista in: Annibale Ruccello, Assoli, (Sul limite del non visto), di Domenico Sabino, in: www.youtube.com.
[20] Giovanni Verga, La roba, in Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 1979, p. 285.


BIBLIOGRAFIA

Pinkola Estés Clarissa, Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Milano 1993.
Verga Giovanni, La roba, in Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 1979.
Marcuse Herbert, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1974.
Carotenuto Aldo, Eros e pathos, Bompiani, Milano 2001.
Bachtin Michail, Estetica e romanzo, traduzione di Clara Strada Janovic, Einaudi, Torino, 1997.
Ruccello Annibale, «Perché faccio il regista», in Sipario, marzo-aprile 1987, 466.
Ruccello Annibale, Teatro, introduzione di Enrico Fiore, Ubulibri, Milano, 2005.
Ciriello Marco, Un giorno di questi, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2018


SITOGRAFIA

https://archivio.unita.news/assets/main/1990/04/18/page_025.pdf Nicola Fano, La solitaria guerra di Annibale che non è arrivato alle Alpi, in: «L’Unità», 18 aprile 1990.       07/11/2021 H.14:50
https://archivio.unita.news/assets/main/1986/09/28/page_010.pdf Nicola Fano, Parola di nuovo teatro, in «L’Unità», 28 settembre 1986.      
Videointervista in: Annibale Ruccello, Assoli, (Sul limite del non visto), di Domenico Sabino, in: www.youtube.com