Il sentimento di «assenza» in «Anna Cappelli», dramma di Annibale Ruccello Vedi, Napoli è una città immobile che respinge tutto, vendicativa, ancora non ha digerito il fatto di non essere più capitale. È contenta quando succede qualcosa che la distrae. La gente si meraviglia, si spaventa, prega, spanteca, mentre lei si compiace, finalmente torna a esistere. (…) Tra i tanti, l’unico grande problema di Napoli è l’assenza. [1] La protagonista principale del dramma Anna Cappelli è indubbiamente l’assenza, assenza percepita proprio come mancanza, infatti, la scena si apre con la protagonista che, seduta da sola a un tavolo mentre mangia pasta e piselli, cerca di coinvolgere in una conversazione la proprietaria dell’appartamento, dove ha una camera in affitto [2], e fin dalle prime battute si avverte il malessere dell’incomunicabilità in senso letterale, intesa come assenza di comprensione reciproca; Anna e la proprietaria non riescono a capirsi, come se parlassero due lingue diverse, lo stesso avviene con la famiglia e dopo un primo momento di afflato, si verifica la medesima cosa con il suo uomo; si avverte la mancanza di sicurezza economica, di un proprio posto nella società, di amicizie vere, il tutto metterà in evidenza anche una latente assenza di stabilità mentale di Anna. SCENA I «No no Signora, dicevo così per dire… Non volevo certo offenderla… Cosa le stavo dicendo?… Ah sì, dei miei!.. » (…) SCENA II «Ragioniere!... Ragioniere!... Ragioniere, senta potrebbe farmi la cortesia di quelle pratiche… Come?... Ma cosa dice ragioniere, se è una settimana che non vado neanche dal parrucchiere!… No no no, sono miei così al naturale…Odio le pitture, i cachét (…)» SCENA III «Eeeh, lo so e lo e lo e lo e lo e eeeh lo sooo Tonino, lo so che è una formalità, ma questo è un fatto per me, per… i… e… io, aspetta, allora io vo… aspetta, io voglio, aspetta Tonino, io voglio che… aspetta, io… fammi spiegare!» [8] Ruccello, in questo lungo monologo, riprende la struttura della lingua parlata, riproducendo suoni, spezzature, ritmo sincopato, fonemi balbettati, senza dimenticare le sempre presenti pause che aggiungono spessore alle parole; indubbiamente, questo dramma si discosta dall’intera produzione ruccelliana, non solo per le scelte linguistiche, ma anche per quelle del linguaggio che incarna appieno la teoria bachtiniana del cronotopo letterario, descrivendo gli anni ’60 di un’Italia piccolo borghese della provincia laziale sfruttando una terminologia che rispecchi, appunto, sia il tempo cronologico che lo spazio geografico [9]; inoltre, ripresenta il prototipo del personaggio femminile che Ruccello mette in evidenza nelle sue rappresentazioni, donne che si presentano forti, con una grande carica emotiva e di carattere, ma che sono sempre in bilico sul baratro della follia, e Anna Cappelli è fino alla fine una funambola eccellente, che riesce a tenere a bada la sua mente disturbata prima di scoppiare nell’ultima scena. Tonino… Tonino?... Questo è solo un atto d’amore… Hai notato?... Ho detto è… No ho detto è stato… Perché quello che ho fatto è solo l’inizio di questo atto d’amore… Tu ora non puoi sapere più… Non puoi capire… E forse non avresti comunque capito… Ma io ho un piano… Un piano mio… Un disegno… Sai Tonino tu non mi abbandonerai mai più… Ma veramente… Mai più!... … E lo sai perché?... Perché io adesso… Ti mangio… Sì, ti mangio… Ti mangio tutto! Per fortuna che la vecchia ghiacciaia che abbiamo giù in cantina funziona ancora bene! [10] Anche qui Ruccello usa un finale estremo, anche in questo lavoro troviamo una conclusione segnata da un atto clamoroso, quale l’antropofagia, che sottolinea il malessere della protagonista che vuole essere padrona della propria vita e del proprio destino. In questa follia di Anna, permeata di lucidità, è evidente il suo desiderio di incorporare e di farsi incorporare dall’altro, desiderio che normalmente si esprime attraverso un atto estremamente tenero come il bacio, ma che, in questo finale, viene esasperato fino al parossismo [11]. Come le altre protagoniste dei drammi ruccelliani, anche Anna è guidata dagli eventi all’epilogo tragico, una serie di avvenimenti fanno sì che la situazione degeneri, così come la ragione della nostra eroina che alla fine sfocia nella follia e l’amore nella morte. Questo binomio amore-morte è costante nella produzione di Ruccello, le sue protagoniste, sempre impantanate nella mediocrità della routine quotidiana, trovano il loro riscatto attraverso il delitto, provocando la morte del soggetto-oggetto amato riescono a ristabilire una certa forma, talvolta molto personale, di equilibrio. L’ombra della tragedia classica è ovunque palpabile e la sua fusione con gli elementi del teatro d’avanguardia creano un ibrido che, discostandosi dall’effetto catartico, lascia come prodotto dei personaggi ammantati di un alone nero. No no il mio babbo e la mia mamma stanno benissimo, e chi li ammazza quelli? Invece la mia sorella più piccola, Teresa, ha preso quattro in matematica al primo trimestre! No dico io gliel’ho detto al babbo, eh… di santa ragione, deve suonargliele di santa ragione! A quindici anni non ha ancora messo la testa a posto! Invece la mia sorella più grande, Giuliana, ah… diciotto anni, si è fidanzata con un… sììì! Sì, fidanzata! Fidanzata!.. con uno studente in medicina, un bravo ragazzo, uno con la casa del suo, un buon partito… cosa vuole che le dica: speriamo che duri!… Sì, che “duri”, nel senso di di di mmm… che duri, che… Madonna che… che stavo per dirle?… [12] Dalle sue parole traspare rabbia, frustrazione, invidia verso la sorella che si avvia alla vita normale del «buon matrimonio» e senso di superiorità, quasi sentimenti di genitorialità, verso l’altra sorella che invece non studia, non si omologa, non si adatta alla normalità. Si avverte in Anna un doppio sentimento di assenza di qualcosa, qualcosa che le manca, le manca la normalità, l’omologazione della prima sorella che vola verso una vita coniugale benestante, ma le manca anche la ribellione dell’altra sorella, la piccola che non studia e che lei vorrebbe il padre rimettesse in carreggiata anche con la violenza. Anna è un personaggio borderline, si dibatte tra la ricerca della quotidianità e della disobbedienza, vive una vita comune, dove svolge un lavoro comune, di routine, è alla ricerca della perfezione della consuetudine che crede di trovare nel matrimonio, specchio della società benpensante del periodo, periodo della crescita economica, ma lo fa attraverso la ribellione, accettando l’offerta di convivenza di Tonino. Con questo atto di ribellione alla morale, che rappresenta soprattutto un’infrazione alla società come istituzione, Ruccello fa un’approfondita analisi antropologica della società conformista di questo periodo, mettendo in evidenza come la natura istintuale della disobbedienza combatta e spesso abbia il sopravvento sulla consapevolezza. Nicola Fano a tal proposito scrive: (…) il suo Anna Cappelli appariva come una vera e propria grande creazione teatrale. Annibale Ruccello, dunque, era un autore vero, non un giocoliere o un improvvisato assemblatore di parole. Qui ha raccontato del triste fallimento dell'amore di una donna di provincia. Una storia sottile e descritta con sapiente tratteggio. Poi, alla fine di quell'amore, l’iperbole: la donna uccide l'amato per non farlo allontanare mai più da sé. Attraverso Anna, il nostro autore dimostra come la repressione sociale sia un fenomeno storico e come la sottomissione degli istinti dovuta ai freni costrittivi, che vengono imposti dall’uomo, in quanto appartenente alla categoria dell’animale evoluto, e non dalla natura, possano contribuire alla creazione dell’individuo represso; questo genera una battaglia tra due forze rappresentanti la repressione esterna e quella interna che alimentano l’incapacità dell’uomo di svincolarsi dalle catene sociali, fino a trasformarsi in autoinibizione, che a sua volta accetterà il giogo della morale comune [14]. È quello che succede ad Anna nelle ultime due scene, quando scopre che la sua disobbedienza alle regole non è servita a nulla, che l’accettazione del compromesso della convivenza, quindi la rottura di un tabù sociale, non ha avuto i riscontri positivi che si aspettava, non è servita ad assicurarle quella serenità che sperava, perché il ragioniere Scarpa ha intenzione di lasciarla, ma soprattutto vuole toglierle la casa, questo fa sì che le due forze, della repressione interna ed esterna, rompano gli argini, quindi viene a mancare l’equilibrio tra le due, che alla fine finiscono per confondersi, e Anna si ritrova, come in un gioco dell’oca, alla casella iniziale, dove è costretta a riscattarsi dall’abbandono. (…) Tu stai andando via, ma mi stai mandando via, mi stai mandando via da questa casa, Tonino! (…) Io ti ho sacrificato tutto: giovinezza, rispettabilità, matrimonio, ho fatto da serva in questa casa e poi… sì, lo so, l’ho scelto io, lo so, lo so Tonino, infatti non sto recriminando nulla, aspetta Tonino, non farmi dire cose che non voglio, aspetta Tonino, non voglio dire questo, aspetta… Sta di fatto che a questo punto ogni più piccolo oggetto di questa casa è diventato… mio! Mio, mio, mio, mio… (…) Tonino non mi lasciare non mi lasciare non mi lasciare… [15] L’assenza del futuro, visto come la perdita del possesso e quindi del controllo, contribuisce a portare Anna in caduta libera nel baratro della follia, il ritorno della paura di essere «spossessata» dei suoi oggetti e del suo uomo, quindi di ritrovarsi in quel vuoto, quel senso di mancanza che aveva riempito con il suo amore verso Tonino, scatenano la sua parte peggiore e mettono in evidenza il connubio perfetto tra le radici ancestrali dell’essere e la solitudine della vita nelle periferie non solo metropolitane, ma soprattutto nelle periferie sociali. Nella settima scena Anna, nella sua totale alienazione, spiega il suo progetto per rimanere sempre insieme al suo amato e alla casa, spiega qual è l’unico modo per rimediare al trauma della perdita: l’elaborazione del lutto deve avvenire attraverso il rituale dell’antropofagia. Questa soluzione rivela sia la disperazione di questa donna, che incarna l’incapacità di sopportare la privazione, sia la sua volontà di riappropriarsi della propria dignità, che è stata distrutta dalla persona in cui aveva riposto tutte le sue speranze. Anna non riesce a sopportare l’idea della mancanza del suo uomo, non riesce a pensare ad altro, l’idea di perderlo, l’idea di perdere quello che ha costruito certosinamente, giorno dopo giorno, genera quell’idea dell’assenza che ricorda il pensiero dominante leopardiano, come vediamo nella sesta scena: «(…) Tu mi appartieni! Il tuo corpo appartiene a me! Neanche più a te! È mio!... Io non posso permettere che una qualsiasi altra possa toccarti… Possa toccare il tuo braccio… Il tuo, il tuo gomito Non ridere… Sapessi quanto tempo c’ho messo per impossessarmi del tuo gomito… E ora… E ora… Io… Io… Io dovrei rassegnarmi…» [16]. Alla base del desidero ci sono sempre l’assenza e la mancanza, più Anna sente Tonino allontanarsi, più il desiderio di possesso aumenta e trova il suo appagamento nel cibarsi del suo uomo. Anna è certa di quello che sta facendo, l’unico dubbio è da quale parte del corpo le conviene cominciare il suo macabro banchetto, se dal cervello o dal cuore «(…) da che parte posso cominciare? Da dove credi che sia meglio?... Il cervello, eh? Il cervello, forse anche perché quello non è mai stato veramente mio… Se sei riuscito a nascondermi tutti i tuoi progetti… Non è mai stato mio è giusto quindi che lo diventi subito… O il cuore?... Ma dov’è che risiederà veramente il sentimento?... In quale organo?... E i pensieri?...» [17] Innanzitutto credo che le mie fonti ispirative siano necessariamente quelle… cioè c’ho un rapporto diretto con la piccola borghesia; perché sono un piccolo borghese di estrazione sociale, e poi perché in fondo il primo modello di quando ero proprio piccolo, quando ero bambino, quando ero adolescente, di teatro è stato l’incontro col mondo di Eduardo che è, comunque, un mondo di piccola borghesia, cioè i rappresentanti sono della piccola borghesia, da un lato; dall’altro lato c’era poi, in quella che potrebbe essere una sorta di trilogia, un’attenzione particolare al degradarsi della vita urbana al degradarsi proprio della piccola borghesia che sono i modelli più meschini. Un tipico rapporto del piccolo borghese con la propria classe di appartenenza è quello di odiarla. C’è un rapporto di odio sui modelli rappresentativi che finiscono semplicemente per invischiare la persona che li vive. [19] L’assenza sul palcoscenico degli interlocutori di Anna è emblematica, ognuno di loro, pur non parlando, mostra un lato buio della collettività: la proprietaria incarna l’opinione pubblica e il pensiero ipocrita del periodo, la famiglia rappresenta l’avidità, il ragionier Tonino Scarpa impersona la corruzione e l’egoismo che umilieranno la nostra eroina al punto da devastare la sua già fragile psiche. L’assente protagonista maschile, il ragioniere, mette in pratica il più abbietto strumento di potere in suo possesso: l’umiliazione. Grazie alle pause nella sesta scena del monologo si possono quasi sentire le risposte intrise di derisione di Tonino alle domande di Anna e avvertire la mortificazione che la stessa prova nel vedersi messa alla porta, una mortificazione dalla quale si può riscattare solo attraverso l’eliminazione fisica di colui che l’ha provocata; Anna deve rimuovere ciò che le ha procurato vergogna, deve riprendersi ciò che considera una sua proprietà, come lo stesso ragioniere, e lo fa nel modo più cruento, forse, ma anche in quello più letterale perché mangiando il suo uomo diventano una cosa sola e bruciando insieme alla casa e a tutti gli oggetti contenuti saranno una sola polvere, non sarà mai più possibile dividerli. Ricorda molto il concetto di possesso che diventa ossessione in Giovanni Verga quando alla fine della novella La roba Mazzarò è oramai vicino alla morte e «uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me!» [20]
Pinkola Estés Clarissa, Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Milano 1993. |