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Pontiggia e la letteratura per l’infanzia
Pontiggia ha dimostrato, negli sviluppi formali della sua opera, grande sensibilità e attenzione verso il linguaggio. Non a caso ha individuato «il compito più importante» della narrativa contemporanea nell’«impiego di un linguaggio corrente per esprimere verità remote dai luoghi comuni», compito che comporta «una concentrazione ininterrotta sui significati delle parole e delle frasi […]», oltre che «una coscienza anche etimologica delle parole, un ricupero della loro originaria potenza e ricchezza di significazione», come afferma nello scritto La «chiarezza» di Daumal [1]. Il testo è collocato, significativamente, in apertura della sua prima raccolta di saggi, Il giardino delle Esperidi (1984), che costituisce «una sorta di biblioteca ideale di Pontiggia, delle letture classiche e moderne che a lui sono più care» [2], ed è illuminante per accostarsi alla sua stessa produzione. Pontiggia fa suo, infatti, il presupposto di Daumal: «la fede nella potenzialità enigmatica di un linguaggio chiaro», l’unico che possa rivelarsi «di una complessità inesauribile» [3]. Una chiarezza dunque, quella ricercata dallo scrittore, non disgiunta dalla profondità: «il testo è una stratificazione di significati, di cui quello superficiale deve essere comunque intellegibile» [4]. «A una tale urgenza della chiarezza in Pontiggia […] – rileva Daniela Marcheschi – concorrono anche l’inconsueta attenzione verso la letteratura infantile, di cui egli sa presto l’importanza, e le sue caratteristiche espressive; la riflessione sul linguaggio della favola e della fiaba e di classici come Collodi, Renard, Salgari, Verne; nonché la constatazione che il lettore giovane ha un suo modo particolare di percepire le vicende narrate», concentrandosi sul significato letterale [5].
Daumal è richiamato, insieme a Renard, nel saggio Versailles nella Toscana di Collodi: «narratori sapienti come Renard e Daumal, che ambivano alla semplicità immediata del loro strato di superficie, avrebbero voluto la verifica di un lettore molto giovane» [6]. Pubblicato come Prefazione all’edizione adelphiana dei Racconti delle fate di Collodi (1976) e poi compreso, con varianti, nel Giardino delle Esperidi, il saggio prende le mosse, con gustoso andamento narrativo, da un anno chiave per lo scrittore toscano: «Nel 1875 Collodi era segretario di prima classe presso la prefettura di Firenze. Aveva quarantanove anni e alle spalle una malinconica carriera di giornalista arguto, un repertorio di commedie di discreto successo e di romanzi destinati ad assicurargli l’oblio» [7].
In quell’anno, infatti, ricevuto dall’editore Paggi l’incarico di tradurre Perrault e altri favolisti francesi, contrae un «immenso» debito nei confronti dell’autore dei Contes de ma mère l’Oye,«che gli schiuse il meraviglioso delle fate» [8]. A tale dimensione, di cui scopre la ricchezza e le possibilità narrative, Collodi saprà attingere poi originalmente, genialmente, per il suo denso e complesso capolavoro, Pinocchio. Nella traduzione collodiana «la Corte del Re Sole si trasferisce, con il suo seguito luminoso, in una Toscana insieme granducale e umile», sottolinea Pontiggia, individuando proprio «nella capacità di rendere, con felice immediatezza, il parlato di Perrault […] l’aspetto inimitabile della sua traduzione, incunabolo dello stile di Pinocchio» [9].
Perrault riesce, infatti, per Pontiggia nella complicatissima impresa di coinvolgere allo stesso tempo bambini e adulti: «che intendesse infatti rivolgersi anche alla Corte lo si deduce da molteplici indizi, tra cui le moralités ironiche alla fine di ogni fiaba e le allusioni maliziose dissimulate nella narrazione; lui stesso accenna a un diverso “grado di penetrazione di quelli che leggono”» [10]. Non riescono invece nella difficile impresa Madame d’Aulnoy e Madame Leprince de Beaumont, che si rivolgono – la prima soprattutto, rileva ancora lo scrittore – al pubblico di Versailles: «Il bambino, con le sue esigenze prepotenti ed elementari, con la sua fame di fatti, il suo piacere dell’aggressività, della beffa e del comico, è lontano» [11]. Vicino e concreto, al contrario, è il rischio che, provocata da intenzioni scopertamente moralistiche, si abbatta sul lettore «la catastrofe più comune, la noia» [12].
L’interesse dimostrato da Pontiggia nei confronti del secolare e affascinante patrimonio rappresentato da favole e fiabe si concretizza anche nella Prefazione, poco nota, a Il topo di campagna e il topo di città, in cuiriporta la vicenda esopiana all’insensatezza della vita contemporanea, sempre più frenetica («Rinunciamo agli spazi interiori del tempo libero per riempirlo di un lavoro sempre più accanito») [13], e, soprattutto, nel progetto,risalente al 2002 e purtroppo non sviluppato, di scrivere un libro di favole per adulti [14]. Tra i suoi racconti, certamente, considerava una favola moderna per adulti Il Residence delle ombre cinesi, che pubblica proprio nel 2002 su un numero monografico dell’«Erasmo» intitolato Favole su favole [15].
Ma lo scrittore si è misurato anche, seppur marginalmente, con una scrittura rivolta a lettori giovanissimi.Può essere interessante, per mettere ulteriormente a fuoco il profilo critico di Pontiggia, focalizzare l’attenzione su due testi: uno, Cichita la scimmia parlante, è scritto per un pubblico infantile; l’altro, Il nascondiglio, presuppone un doppio destinatario e ha avuto infatti una duplice collocazione editoriale; in esso l’autore più che per l’infanzia «ha scritto dell’infanzia» [16]. I due racconti si iscrivono perfettamente nell’opera di Pontiggia: nelle scelte stilistiche e formali e nella limpidezza della lingua si ritrovano agevolmente i tratti distintivi dello scrittore. In particolare, Daniela Marcheschi ha messo in rapporto il linguaggio di Cichita con «l’esperienza stilistica del Giocatore invisibile» (1978), osservando che il testo per bambini «partecipa dell’importante momento di riflessione letteraria e linguistica rappresentato dal più noto romanzo» [17].
La storia di Cichita nasce tra il 1964 e il 1966, durante i soggiorni estivi a Rapallo, come racconto orale per i due nipotini della moglie [18]. Il contatto diretto con gli ascoltatori bambini diventa, come per Rodari, una sorta di collaudo narrativo. Sull’importanza delle loro reazioni – veri e propri giudizi espressi attraverso il linguaggio del corpo – Pontiggia non ha dubbi: «Raccontare una favola a un bambino è una esperienza affascinante. Il bambino infatti è un test assolutamente trasparente […], essendo inesperto, non cerca di lusingare il narratore. Il suo viso, i suoi occhi soprattutto, sono, per chi gli parla, una guida insostituibile. Il suo interesse, che si concentra esclusivamente sull’azione, la sollecita quando essa è rallentata da pause descrittive» [19].
Cichita la scimmia parlante viene pubblicata nel 1979 da Lisciani&Zampetti, con le illustrazioni di Maria Concetta Mercanti, nella collana «C’era non c’era», diretta da Renato Minore e Carla Candelori, che propone ai bambini opere di scrittori contemporanei tra cui Arpino, Porta, Malerba, Tobino e Zavattini. Il testo, conforme all’edizione del 1979, viene incluso poi nella raccolta La bottega dello stregone. Cent’anni di fiabe italiane (1985), curata da Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo. Nel 1990 esce, con le illustrazioni di Daniela De Luca e con l’Appendice Tanto per giocare a cura di Rita Rucci, nella nuova collana «C’era non c’era» di Giunti&Lisciani. Nel 2001, con le stesse illustrazioni e con l’Appendice di Rita Rucci, viene edito nella collana «Leggo io» di Giunti Junior [20]. L’ultima edizione, postuma, è del 2011, con illustrazioni di Antongionata Ferrari, nella collana mondadoriana «Oscar Junior».
La trama è estremamente lineare, ma animata da una tensione narrativa ben calibrata. Il testo, lieve e scorrevole, è caratterizzato da una scrittura nitida, che si rivela attenta, nelle scelte lessicali e sintattiche, alle esigenze del bambino lettore, diverse da quelle del bambino ascoltatore di storie: al primo tocca, infatti, vedersela da solo «con i significati, gli spazi nella pagina, le pause, la sintassi, il lessico» [21].
Modellando la scrittura, come sempre, Pontiggia elude sia preziosismi che grigiume lessicale e depura «il testo nel suo complesso da residui e tempi morti» [22]. Essenziali i dialoghi, improntati a un’efficace brevità. Pontiggia – che apprezza quelli di Hemingway [23] – è estremamente consapevole dell’importanza del dialogato nell’architettura del testo e il ruolo che esso gioca nella costruzione dell’intreccio è uno degli aspetti su cui si sofferma nelle lezioni di scrittura che, su invito di Raffaele Crovi e subentrandogli, tiene dal 1985 al 1996 al Teatro Verdi di Milano. A uno di quei corsi partecipa Cristina Brambilla, autrice poi di Odore di brodo (1999) e di altri libri per bambini. Lo ricorderà come un’esperienza fondante: dichiarandosi fortunata per aver seguito le lezioni di Pontiggia, «un maestro, uno scrittore, ma soprattutto, un lettore eccezionale», racconta in particolare di aver raccolto le sue sollecitazioni a un esercizio di affinamento nella stesura dei dialoghi: «Personalmente trovo che non ci sia niente di peggio di un dialogo mal scritto per azzoppare un romanzo. Di conseguenza, penso che un dialogo efficace possa fare miracoli per dare ritmo alla lettura. Allenarsi a scrivere un dialogo perfetto (efficace, realistico, incisivo) è un esercizio imprescindibile per qualunque aspirante scrittore. È una lezione che appresi dal già citato Giuseppe Pontiggia, che insisteva sull’importanza del dialogo come propulsore della narrazione, nonché come forma di rispetto per il lettore» [24].
In Cichita la scimmia parlante Pontiggia riprende l’incipit tipicamente fiabesco, innestandovi però una rapida correzione: «C’era una volta (ma anche ieri, oggi) un circo, che girava per le città e i paesi d’Italia ed era pieno di animali di ogni specie: elefanti, tigri, leoni, zebre, scimmie» [25]. Tale scelta se da un lato rimanda naturalmente all’uso parodico della formula di apertura che Collodi usa (non solo) in Pinocchio e che ha precedenti nella tradizione umoristica, per esempio in Yorick [26], dall’altro riconduce la vicenda a un tempo più vicino al lettore e colloca quindi la narrazione nella duplice dimensione della tradizione fiabesca, e letteraria, e della modernità. Favola moderna, dunque, questa di Pontiggia, sin dalle righe iniziali.
La vicenda si apre in un circo, realtà che da sempre affascina i bambini e che è ben presente nella produzione per l’infanzia: oltre che a Pinocchio (1883), si pensi anche solo a Gli eredi del circo Alicante (1933) di Giana Anguissola e al più recente Olga di carta. Il viaggio straordinario (2015) di Elisabetta Gnone. Un incendio brucia il tendone rendendo impossibile la prosecuzione degli spettacoli e il pagliaccio Anselmo, come tutti i membri della compagnia, è abbattuto e preoccupato. Lo riscuote improvvisamente dal suo stato pensoso una vocina di cui non riesce a individuare la provenienza. Con questo rapido passaggio narrativo – evidente reminiscenza collodiana – Pontiggia porta in primo piano la figura della scimmietta protagonista, che intende mettere la sua abilità, la capacità di parlare, al servizio della piccola comunità. Qualcuno però si dimostra scettico:
un domatore, che si dava molte arie ed era piuttosto antipatico, le chiese beffardo:
– È vero che tu parli?
Cichita lo guardò con i suoi occhietti vivacissimi e non rispose.
– Chi sono io? – le chiese allora il domatore.
– Uno stupido – rispose Cichita [27].
Il personaggio viene individuato solo attraverso il suo ruolo, quello di domatore appunto. Come avviene nel Giocatore invisibile, infatti, anche in Cichita solo alcuni personaggi hanno un nome proprio, scelta che risponde a una precisa ragione stilistica: «Nel Giocatore invisibile il protagonista […] l’avevo chiamato, nella stesura dei primi capitoli, “il professore”. Mi riservavo di trovargli in seguito un nome, così come ad altri personaggi, l’assistente, la moglie, la ragazza eccetera. Poi mi sono reso conto che queste denominazioni coincidevano con il ruolo in cui i personaggi si riconoscevano oppure con il ruolo in cui erano visti dal protagonista. E quindi bastavano, anzi erano preferibili ai nomi e cognomi, che invece ho scelto in altri casi dello stesso romanzo, dove assolvevano a differenti funzioni» [28].
In Cichita il rapido scambio di battute tra i due personaggi è funzionale a presentarne carattere e temperamento. Di fronte alla domanda del borioso domatore, la protagonista tace. Sceglie cioè, consapevolmente, di rispondere attraverso uno sguardo – per nulla intimorito, anzi vivacemente irridente – che è «già linguaggio» [29]. È lei, poi, a lasciare senza parole l’interlocutore, che, dopo averle chiesto «Chi sono io?», attendendosi certamente delle parole pronte a riconoscerne il ruolo dominante all’interno del circo, viene invece messo a nudo nella sua essenza dalla risposta lapidaria e rivelatrice: «Uno stupido» (e si pensi, sempre nell’individuazione di punti di tangenza con Il giocatore invisibile, a quanto efficacemente nel romanzo lo scrittore riesca a tratteggiare il culto delle gerarchie in ambito accademico). Vale insomma, anche per Cichita, ciò che Francesca Bernardini individua nei romanzi di Pontiggia: «è il linguaggio l’elemento-sorpresa capace di mettere in crisi la mistificazione, la menzogna, il vuoto su cui è costruita l’apparente vita reale e razionale dei suoi personaggi» [30].
La brevissima domanda pronunciata dal domatore, di cui è facile cogliere il tono un po’ intimidatorio, rimanda anche a una questione al centro dell’interesse e degli studi di Pontiggia: quella del rapporto tra autorità e linguaggio, strettamente connessa alla riflessione sulla responsabilità delle parole. Lo scrittore aveva infatti il progetto di realizzare un volume sul tema; ne è stato pubblicato solo, incompleto, il primo capitolo, Il linguaggio autoritario, nella raccolta postuma Il residence delle ombre cinesi (2004) [31].
Ma torniamo alla trama di Cichita. In breve tempo la scimmietta diviene una celebrità e la sua fama attira l’attenzione di un gruppo di malviventi che la rapisce nottetempo con l’intenzione di chiedere un riscatto. Cichita ha paura ma, consapevole delle proprie risorse (intelligenza, intraprendenza, coraggio), non perde la fiducia in sé e non cede alla disperazione neppure quando uno dei rapitori le rivela l’intenzione di ucciderla dopo la riscossione del denaro: «sai parlare e potresti riconoscerci […]. Le persone intelligenti sono sempre pericolose» [32]. Si noti, en passant, che la prospettiva del bandito rovescia una considerazione presente nel saggio Sulla stupidità: «Tutti sono intimamente convinti che uno stupido è più pericoloso di un criminale» [33]. Già Flaiano – autore apprezzato da Pontiggia – del resto in Diario notturno chiedeva: «Quando mai uno stupido è stato innocuo?» [34].
Come nelle fiabe, in Cichita l’avidità, la malvagità vengono punite e il coraggio premiato. Non ci sono qui però né aiutanti magici né talismani: non solo la scimmietta si salva da sola, inerpicandosi a fatica lungo la canna fumaria della villa in cui è tenuta prigioniera, ma è lei, di fatto, a bloccare il tentativo di fuga di uno dei banditirendendone possibile la cattura da parte delle forze dell’ordine, come sottolinea, con rapido cenno ironico il narratore: «La polizia intanto era entrata nel giardino e fu bravissima a mettergli le manette, anche perché era svenuto» [35].
Il lieto fine sancisce il trionfo di Cichita – e indirettamente quindi del lettore bambino che in lei si rispecchia – e il ritorno all’operosa quotidianità del circo, che riprende a girare per l’Italia. Nella sorridente grazia del finale, il quadro si allarga di nuovo alla piccola comunità chiudendo circolarmente la narrazione. Pontiggia, infatti, interviene sulle righe conclusive del racconto («E da quel giorno Cichita divenne la gloria della città e l’attrazione del circo»), riscrivendole in parte nell’edizione del 2001: «Da quel giorno Cichita divenne la gloria della città e la principale attrazione del circo, che fu completamente ricostruito e riprese, con grande successo, a girare per tutta l’Italia» [36].
Nella vicenda della vivace scimmietta, che dimostra un uso consapevole e saggio del linguaggio, affiora, in maniera trasparente, la pacata fiducia nella parola sottesa alla visione dello scrittore. Analogamente Il nascondiglio, che ha però sfumature molto più complesse, racchiude un altro dei motivi di fondo della riflessione di Pontiggia, o meglio, sembra tradurre metaforicamente in forma narrativa la sua idea di scrittura letteraria.
Il nascondiglio viene pubblicato nella raccolta L’Astromostro [37], curata da Antonio Porta, scrittore legato a Pontiggia da un rapporto intellettuale e di amicizia. Pontiggia inserisce poi il racconto, con qualche variante, nel 1991, nella terza edizione della Morte in banca [38]. Il testo viene infine pubblicato nel 2012 da Mondadori, nella collana «Oscar Junior», con le illustrazioni di Antongionata Ferrari.
Impeccabile nell’impianto narrativo e nel ritmo, Il nascondiglio è un racconto di grande intensità espressiva, avvincente sin dall’incipit: «Quando Andrea sparì, nessuno se ne accorse» [39]. Nella quiete pomeridiana di un appartamento borghese, il bambino protagonista, Andrea (sul cui nome torneremo), trova una scala collocata davanti all’apertura del soppalco fatto realizzare dai genitori. Se la celeberrima Alice, seguendo il Coniglio, si ritrova a precipitare lungo un pozzo buio e profondissimo alle cui pareti si trovano scaffali, carte geografiche, quadri e perfino un barattolo (vuoto) di marmellata d’arance, analogamente Andrea, salendo lungo la scala e varcando la «porticina», vede spalancarsi davanti a sé un «cunicolo nero» ingombro di casse, oggetti, riviste geografiche (che suo padre non legge ma conserva per la vecchiaia), pile di libri e barattoli di miele.
Un elemento concreto e reale, la porticina del soppalco, – come avviene spesso nella letteratura per l’infanzia – si configura come dimensione liminare: non si tratta qui però propriamente della soglia di accesso a una dimensione altra, parallela rispetto al reale. L’avventura che Pontiggia sapientemente tratteggia avviene nello spazio quotidiano che, sulla spinta dell’immaginazione, si dilata e si trasforma diventando scenario in movimento di molteplici possibili avventure costruite dal protagonista. L’addentrarsi carponi di Andrea lungo il soppalco diviene un «viaggio» che la fantasia del protagonista imbastisce muovendosi nei territori e nei topoi del romanzo d’avventura: nella storia che il bambino comincia a costruirsi si ritrova ad avanzare verso il centro della Terra (trasparente l’allusione a Verne [40], ma d’altronde anche l’Alice di Carroll, nel suo lunghissimo precipitare delle pagine iniziali del romanzo, immagina di avvicinarsi al centro della Terra), poi di trovarsi nelle viscere di un’isola, dove intravede nell’oscurità un forziere baluginante di pietre preziose, poi ancora di percorrere una grotta, in cui scorre una cascata sotterranea. Tra i personaggi chiamati a raccolta in momenti diversi non mancano gli indiani, che Andrea osserva, con lo sguardo della fantasia, mentre sono accovacciati intorno a sua madre legata a un palo, e perfino uno stregone.
Nella costruzione dell’immaginario del piccolo protagonista, infatti, Pontiggia impasta materiali provenienti da fonti diverse (libri, cinema, tv) e fa risuonare anche un’eco della propria infanzia, vissuta in «spazi molto avventurosi»: «avevo un senso di libertà che penso sia precluso ai bambini che crescono nelle città; giocavo assieme ad altri amici nel giardino […] lì facevamo rivivere i personaggi di Salgari, trasformando in giungla gli alberi e i prati in praterie» [41].
Raccontando il gioco di Andrea nel suo farsi, Pontiggia ne segue ipotesi, decisioni, ripensamenti. Mette in evidenza in particolare l’esplorazione delle possibilità narrative insite nel gioco – sottolineate dall’uso dell’avverbio «forse» – che il protagonista valuta di volta in volta se percorrere o abbandonare. «Forse, dietro quella immensa scatola di cartone, c’erano gli occhi rossi, scintillanti, del mostro che aveva visto al cinema, due sere prima. Rimase a lungo immobile. […] No, al di là non c’erano gli occhi del mostro, ma solo puntini gialli nel buio. Forse era il tesoro luccicante di pietre preziose, il forziere spalancato» [42].
Il bambino, dopo essersi soffermato sulla possibilità di introdurre nella trama del gioco un mostro in agguato, la scarta e imprime una diversa direzione al racconto: il luccichio immaginato diventa allora quello del forziere, a cui Andrea intende giungere prima di un gruppo di pirati. Può essere interessante mettere in relazione tale passaggio narrativo con una riflessione presente nella Grammatica della fantasia. A proposito della scelta di un gruppo di bambini, chiamato a continuare la storia di un gruppo di fantasmi, decisi a lasciare Marte, dove nessuno li teme più, per trasferirsi sulla Terra, Rodari afferma: «Cinque bambini fra i sei e i nove anni, concordi fino a un momento prima nel farsi beffe dei fantasmi, sono ora altrettanto concordi nell’evitare che essi invadano la Terra. Come ascoltatori si sentivano abbastanza al sicuro per ridere: come narratori obbediscono invece a una voce interna che raccomanda la prudenza. La loro immaginazione è diretta, ora, da un riferimento inconsapevole a tutte le loro paure (di fantasmi e d’altro, ovviamente, che accetta di farsi rappresentare dai fantasmi)» [43].
Denso di significati e ricco di suggestioni, Il nascondiglio delinea anche il rapporto adulti-bambini, mettendo in evidenza da un lato gli errori e le manchevolezze dei primi e dall’altro le insicurezze dei secondi e anche le loro intenzioni punitive nei confronti del mondo adulto. Il piccolo protagonista, infatti, inizialmente si nasconde aspettando (e desiderando) che la madre si accorga della sua assenza, ma questa per diverso tempo non se ne avvede affatto. La disattenzione della madre, degli adulti dunque, viene sottolineata attraverso l’uso insistito del verbo «accorgersi», già in rilevo nell’incipit, che torna altre tre volte: «rimase in attesa. Di che cosa? Che sua madre si accorgesse che lui non c’era. Invece sua madre non se ne accorse» e poco dopo: «era passata mezz’ora e non si era accorta di niente» [44].
Quando la donna, rendendosi finalmente conto dell’assenza del figlio, lo chiama ripetutamente, il bambino sta per rispondere, ma il tono secco di rimprovero e le parole pronunciate dalla madre («Un bel gioco dura poco!») [45] lo inducono a perseverare nel silenzio e a continuare la sua esplorazione della grotta fino a trovarsi dove nessuno avrebbe più potuto raggiungerlo: nel ventre della terra. Gradualmente poi però il paesaggio si trasforma fino a diventare una galleria aerea di liane e rami intrecciati. La fantasia del bambino opera simultaneamente sul piano realistico e su quello dell’immaginazione: dall’alto scorge infatti sua madre che lo cerca e che per avere sue notizie interroga lo stregone del villaggio. Quando la donna, ormai in apprensione, esce per chiamare aiuto, Andrea si chiede se, dopo quello spavento, «lo avrebbe ancora tormentato con l’aritmetica e con i confronti con gli altri. E anche suo padre, che quando si arrabbiava rovesciava sedie e gettava a terra piatti e vasi, avrebbe dovuto finalmente occuparsi di lui e andare al commissariato» [46].
Il verbo «accorgersi»torna un’ultima volta nelle righe finali del racconto, stavolta però riferito ad Andrea. Approfittando dell’assenza della madre, il bambino si lascia andare rapidamente giù dal soppalco per correre a prendere il suo fucile: «al ritorno si accorse che non poteva risalire. Non c’era la scala. Sua madre stava ritornando con un’altra persona, udiva le loro voci avvicinarsi. Era finita. Guardò in alto verso il suo nascondiglio e si sentì in trappola. Non poteva che arrendersi. Però ora sapeva dove era libero» [47]. Intrappolato nella realtà, l’eroe è sconfitto, ma, allo stesso tempo, in qualche modo, vittorioso: ha scoperto uno spazio autentico di libertà, assaporandone la fugace meraviglia.
Il nascondiglio racconta, insomma, la ricchezza e la complessità, anche emotiva, dell’infanzia e la profondità dell’immaginazione. Significativamente Pontiggia dà al protagonista il nome del proprio figlio, Andrea. Ma Andrea è anche uno dei personaggi del romanzo La grande sera (1989, poi, in un’edizione rivista, 1995), il nipote dell’uomo che sceglie di scomparire e suo unico affetto profondo e autentico. L’unico tra i personaggi che sembra giustificare, o comunque comprendere, la scelta dello zio perché prova lui stesso un forte desiderio di fuga. Vittima della guerra che quotidianamente, implacabilmente, si fanno l’un l’altro i genitori, il giovane Andrea è imprigionato in un’atmosfera opprimente: «ogni volta che usciva di casa si sentiva un evaso, felice e insieme timoroso di essere libero» [48]. La necessità di uno spazio per sé, il desiderio di libertà, pur nelle differenze, sembrano accomunare dunque il protagonista bambino del Nascondiglio e l’omonimo personaggio della Grande sera. Quest’ultimo, tre mesi dopo la scomparsa dello zio, scoprirà che questi gli ha lasciato una cospicua somma di denaro per consentirgli di emanciparsi dai genitori e proverà «una felicità dolorosa». Anche tale emozione complessa, ben evidenziata dall’ossimoro [49], sembra richiamare la sensazione contraddittoria che sperimenta il piccolo Andrea nelle righe finali del Nascondiglio.
Confrontando il racconto con il capitolo conclusivo della Grande Sera, intitolato Una mattina di Andrea, emergono poi due spie lessicali: una meno importante (entrambi i testi cominciano con le parole «Quando Andrea»), l’altra invece più significativa. Nel capitolo citato della Grande sera, leggiamo che Andrea viene introdotto nella stanza del direttore della banca attraverso una «porticina di velluto». Ci aspetteremmo, dato il contesto, una porta, non una porticina. E del resto, una «porta di velluto» si apre e si chiude nell’incipit della Morte in banca a circoscrivere narrativamente il colloquio che il giovane Carabba, spinto da necessità economiche, svolge per ottenere il posto di lavoro. Nella Grande sera Pontiggia sceglie però il diminutivo «porticina», imprimendo quasi una coloritura fiabesca alla situazione. Lo fa perché vuole in qualche modo richiamare la porticina del soppalco varcata dal protagonista del Nascondiglio? Forse non è poi così azzardato ipotizzarlo: in entrambi i casi, il passaggio dalla porticina apre al personaggio un nuovo percorso, gli dà una nuova prospettiva, un orizzonte di libertà.
Un’ultima rapida notazione a proposito del Nascondiglio: nel testo né la madre né il padre (quest’ultimo assente, in realtà, dalla scena dell’azione) hanno un nome; viene citato invece quello di un amico di famiglia, Zeno. L’omaggio all’amatissimo Svevo – autore fondamentale per Pontiggia – ha valore emblematico: il richiamo a uno dei propri autori di riferimento intende illuminare il discorso sulla scrittura che innerva il racconto.
Se, come abbiamo visto, l’esplorazione compiuta da Andrea nel Nascondiglio è un affascinante resoconto del lavoro dell’immaginazione del bambino, certamente si può leggere il percorso del piccolo protagonista anche in chiave metaforica e metaletteraria. Per Pontiggia infatti «scrivere non è trascrivere quello che si sa già […], ma esplorare ciò che ancora non si conosce», «è inventare, ossia trovare, invenire, attraverso le parole» e, ancora, la scrittura è «un percorso imprevedibile, un modo di sondare sé stessi e l’esperienza» [50].
Il racconto riassume quindi il senso di quello che è per Pontiggia il lavoro letterario, l’avventura della scrittura. Un’avventura che, nel Nascondiglio, davvero è felicemente riuscita.
Mariarosa Rossitto
(n. 12, dicembre 2023, anno XIII)
NOTE
[1] G. Pontiggia, La «chiarezza» di Daumal, in Il giardino delle Esperidi, ora in Id., Opere, a cura e con un saggio introduttivo di D. Marcheschi, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2004, pp. 539-540.
[2] D. Marcheschi, Destino e sorpresa. Per Giuseppe Pontiggia, con i suoi primi scritti sul «verri», Pistoia, C.R.T., 2000, p. 48.
[3] G. Pontiggia, La «chiarezza» di Daumal, cit., p. 537.
[4] Ivi, p. 535.
[5] D. Marcheschi, La letteratura in «prima persona» di Giuseppe Pontiggia, in G. Pontiggia, Opere, cit., p. XIV.
[6] G. Pontiggia, Versailles nella Toscana di Collodi, in Il giardino delle Esperidi, cit., p. 587.
[7] Ivi, p. 585.
[8] Ivi, p. 595.
[9] Ivi, p. 592 e p. 594.
[10] Ivi, pp. 590-591.
[11] Ivi, p. 591.
[12] Ivi, p. 592. Tale valutazione è condivisa da Beatrice Solinas Donghi che ritiene«alquanto invadenti e moraleggianti» le fate delle «grandi dame favolatrici come Madame d’Aulnoy». Cfr. B. Solinas Donghi, C’è un Perrault tra le fate. Perrault, d’Aulnoy e Leprince de Beaumont (1980), ora in La fiaba come racconto. E altri scritti sul fiabesco, a cura di P. Boero, Milano, Topipittori, 2022, p. 272.
[13] G. Pontiggia, Prefazione a Esopo, Il topo di campagna e il topo di città, con una acquaforte di E. Tatafiore, Milano, Rizzardi, 1991, p. 7.
[14] Cfr. Cronologia, in G. Pontiggia, Opere, cit., p. CXX.
[15] «l’Erasmo. Bimestrale della civiltà europea», 12, novembre-dicembre 2002. Il testo di Pontiggia compare nella sezione L’inedito, insieme alla splendida tavola di Luzzati Il principe ranocchio, accompagnata da una Nota di M. Vitta e riprodotta anche in copertina, e alle Fiabe in controluce di Malerba.
[16] S. Gavriilidis, L’infanzia nell’opera di Giuseppe Pontiggia, in Giuseppe Pontiggia. Investigare il mondo, a cura di A. Cadioli, G. Langella, D. Marcheschi, G. Ruozzi, Novara, Interlinea, 2015, p. 104.
[17] D. Marcheschi, La letteratura per l’infanzia, in Storia generale della Letteratura Italiana diretta da N. Borsellino e W. Pedullà (1999), XVI, Il Novecento. Sperimentalismo e tradizione del nuovo, Milano, Motta - Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2004, p. 517.
[18] Cfr. Cronologia, in G. Pontiggia, Opere, cit., p. LXXXIV.
[19] G. Pontiggia, Versailles nella Toscana di Collodi, cit., pp. 586-587.
[20] Tra l’edizione 1985 (conforme alla prima) e quella del 1990, le varianti sono minime e non significative: per esempio l’inserimento di una d eufonica («disse a Anselmo» diventa «disse ad Anselmo») e di un’elisione («una automobile» diventa «un’automobile»). Tra l’edizione del 1990 e quella del 2001, accanto a varianti minime, si registrano due lievi ritocchi («solo in ultimo» diventa «solo all’ultimo momento»; e «con due mattoni» diventa «con in mano due mattoni») e, soprattutto, l’ampliamento della frase conclusiva.
[21] C.I. Salviati, Il primo libro non si scorda mai, Firenze, Giunti, 2017, p. 15.
[22] F. Bernardini Napoletano, La poetica sperimentale di Giuseppe Pontiggia, in Accademia degli Scrausi, Parola di scrittore. La lingua della narrativa italiana dagli anni Settanta a oggi, a cura di V. Della Valle, Roma, minimum fax, 1997, p. 32.
[23] Hemingway (di cui ritiene I quarantanove racconti «tra i più belli e importanti della letteratura contemporanea») insieme a Carver, Joyce, Mansfield, Maupassant e Singer, è tra gli autori di cui Pontiggia consiglia la lettura ai «giovani adulti». Cfr. Racconti per lettori ideali. Intervista di L. Seveso, «Liber», 44, 1999, pp. 18-19.
[24] C. Brambilla, Memorie del sottosuolo, in Raccontare ancora. La scrittura e l’editoria per ragazzi, a cura di S. Blezza Picherle, Milano, Vita e Pensiero, 2007, p. 16 e p. 23.
[25] Cito da G. Pontiggia, Cichita la scimmia parlante, Firenze, Giunti, 2001, p. 4.
[26] Cfr. Note ai testi, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1995, pp. 918-919.
[27] G. Pontiggia, Cichita la scimmia parlante, cit., p. 16.
[28] G. Pontiggia, Per scrivere bene imparate a nuotare. Trentasette lezioni di scrittura, a cura di C. De Santis, Prefazione di P. Di Paolo, Milano, Mondadori, 2020, p. 33. Va precisato che Pontiggia opera in questa direzione sin dalla Morte in banca, omettendo i nomi dei colleghi del protagonista, sulla scia di Kafka, per farne dei tipi umani. Cfr. D. Marcheschi, La letteratura in «prima persona» di Giuseppe Pontiggia, cit., p. XXI.
[29] G. Pontiggia, Per scrivere bene imparate a nuotare, cit., p. 9.
[30] F. Bernardini Napoletano, La poetica sperimentale di Giuseppe Pontiggia, cit., p. 33.
[31] La raccolta comprende anche lo scritto Il linguaggio autoritario nell’uso quotidiano della parola. Per un approfondimento rimando all’accurato saggio di C. De Santis, Il linguaggio autoritario dalla biblioteca alla scrittura, in Giuseppe Pontiggia. Investigare il mondo, cit.
[32] G. Pontiggia, Cichita la scimmia parlante, cit., p. 37.
[33] G. Pontiggia, Sulla stupidità, in Il giardino delle Esperidi, cit., p. 722. Sulla passione di Pontiggia per gli aforismi cfr. G. Ruozzi, Giuseppe Pontiggia e gli aforismi, http://www.orizzonticulturali.it/it_studi_Gino-Ruozzi.html Vale la pena ricordare che è di Pontiggia la Prefazione a Scrittori italiani di aforismi. I classici, vol. 1, a cura di G. Ruozzi, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1994.
[34] E. Flaiano, Diario notturno (1956), Milano, Adelphi, 1994, p. 99.
[35] G. Pontiggia, Cichita la scimmia parlante, cit., p. 48.
[36] Cito da La bottega dello stregone. Cent’anni di fiabe italiane, a cura di E. Ghidetti e L. Lattarulo, Roma, Editori Riuniti, 1985, p. 372 e da G. Pontiggia, Cichita la scimmia parlante, cit., p. 50.
[37] L’Astromostro. Racconti per bambini, a cura di A. Porta, ill. di M. Belardetti, Milano, Feltrinelli, 1980.
[38] La morte in banca. Cinque racconti e un romanzo breve, «Quaderni del Verri», Milano, Rusconi e Paolazzi, 1959. Le due edizioni successive (Mondadori 1979 e Mondadori 1991) si arricchiscono di ulteriori racconti. Per la storia editoriale dell’opera rimando alle Notizie sui testi, in G. Pontiggia, Opere, cit., p. 1909.
[39] Cito da Il nascondiglio, in La morte in banca. Un romanzo breve e sedici racconti, Milano, Mondadori, 2020, p. 149.
[40] All’autore francese Pontiggia ha dedicato il breve saggio Verne speleologo della psiche, compreso nel Giardino delle Esperidi.
[41] La citazione, tratta da un’intervista di E. Sassi (1991), è in Cronologia, in G. Pontiggia, Opere, cit., pp. LXIX-LXX. Ivi (p. LXXII) è riportata la notizia che a nove anni il piccolo Peppo aveva iniziato la stesura, non completata, di un romanzo in stile salgariano.
[42] G. Pontiggia, Il nascondiglio, cit., p. 150. Corsivi miei.
[43] G. Rodari, Grammatica della fantasia (1973), ora in G. Rodari, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di D. Marcheschi, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2020, pp. 1451-1452.
[44] G. Pontiggia, Il nascondiglio, cit., pp. 149 e 151. Corsivi miei.
[45] Ivi, p. 151.
[46] Ivi, p. 152.
[47] Ivi, p. 153.
[48] G. Pontiggia, La grande sera, in Id., Opere, cit., p. 864.
[49] A proposito di tale figura retorica, cfr. il capitolo L’ossimoro immagine del mondo, in G. Pontiggia, Per scrivere bene imparate a nuotare, cit.
[50] Le prime due citazioni sono tratte rispettivamente da Imparare a narrare. Anche il realismo richiede fantasia. Intervista di F. Borrelli, «il manifesto», 1 marzo 1996 e da G. Pontiggia, Per scrivere bene imparate a nuotare, cit., p. 12. L’ultima, tratta da G. Pontiggia, Scrivere: modi, problemi, aspetti, in «UICS Studia», 1, giugno 1987, è riportata in F. Bernardini Napoletano, La poetica sperimentale di Giuseppe Pontiggia cit., p. 34.
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