Luigi Baldacci: L’impronta di Guarnieri

Segnaliamo l'ultimo numero (n. 61/giugno 2022, pp. 172, Libreria Ticinum Editore), della rivista internazionale di poesia e filosofia «Kamen’», la cui sezione di Critica è dedicata a Silvio Guarnieri. «Kamen’» aderisce così all’iniziativa della nostra rivista, che pubblica una sezione di contributi di studiosi italiani e romeni dedicati a Guarnieri, per onorarne la memoria in occasione del trentesimo anniversario della morte. Riprendiamo qui il saggio del critico Luigi Baldacci.

L’impronta che ha lasciato Silvio Guarnieri nella nostra critica non è effimera. Ho sott’occhio Condizione della letteratura (Editori Riuniti,1975). È il libro di uno storico del nostro Novecento, di una qualità e di una vocazione quali raramente si riscontrano.
I problemi di Guarnieri sono problemi di storiografia, di periodizzazione. Critico di precisi interessi d’ordine etico, ed etico-politico, egli riceve dalla tradizione un concetto come quello di decadentismo (vedi Tesi per una storia della poesia italiana del Novecento), un concetto che potrebbe determinare qualche reazione di rifiuto, e lo riscatta invece nella sua funzione di nodo, di cerniera storiografica.
È così che, progressivamente, di fronte a problemi che la vecchia critica aveva cercato di neutralizzare, per esempio quello del futurismo, Guarnieri si apre ad un’attenzione sempre più acuta e paziente: penso a tutti gli Abbozzi di bilancio, nella prima parte del volume a cui ci riferiamo: e allora sarà un Soffici, e magari un Papini, da considerare nel contesto della vicenda avanguardistica, tanto diversi da quelli che nella loro immagine squallidamente uflìciale sono stati consegnati alla stessa generazione di Guarnieri, il quale vide di loro, in atto, tutto il processo di buia involuzione.
Ma poiché abbiamo toccato la categoria generazionale, conviene dire che Guarnieri, che può essere attento ad ogni proposta di Sanguineti, non viene meno alla sua responsabilità di testimone. Il suo Novecento è decisamente un Novecento nuovo, senza nostalgie, senza recuperi polemici; è il Novecento di Anceschi e magari di Contini e di Bo (da rilevare in Guarnieri la disponibilità nei confronti di critici che gli sono ideologicamente lontani: ma,appunto, il criterio di affinità generazionale vince su quello ideologico), e non è il Novecento di Sanguineti. Montale, Comisso, Gadda, oppure Saba e Montale, e magari Palazzeschi, ma senza mai trascurare il significato di Ungaretti, anche se giustamente si può lamentare, in Ungaretti, l’ingenuità disarmata di fronte alle insidie dei tempi.
Insomma, non dimentichiamoci che Guarnieri ha tratto gran giovamento dalle esperienze di «Solaria» e di «Letteratura». Donde la sua ammirazione per Gadda (Abbozzo di bilancio della letteratura italiana del Novecento, del ’49) a una data in cui Gadda non era entrato ancora nella grande circolazione. Si capisce anche che Svevo, proprio attraverso «Solaria», appaia a Guarnieri in vantaggio su Pirandello. E infine io credo che certe altre riviste fiorentine, per esempio «Il Bargello» nell’ottica di Vittorini o la fronda di «Campo di Marte», abbiano offerto a Guarnieri anche molte motivazioni di carattere politico.
Ma Guarnieri, proprio per il suo convincimento che il Novecento dovesse avvalersi di caratteri distintivi (chiaro il suo rifiuto di un poeta pur notevole come Gaeta), è anche uno dei critici che più hanno avuto presente il senso dell’avventura novecentista: e i nomi di Bontempelli o di Aniante ritornano spesso nel suo discorso, quasi a dire che «La Ronda», una volta che avesse voluto diventare veramente prassi narrativa, avrebbe dovuto trasfondersi nel «900»› bontempelliano. E naturalmente Guarnieri non lascia cadere l’occasione di richiamare a quell’esperienza scrittori di indole diversissima ma di dati anagrafici affini, come Moravia o Vittorini.
Ne risulta pertanto un’idea del Novecento come di una civiltà letteraria che sviluppa un corso parallelo a quello dell’inciviltà politica. Quella del Novecento finisce per essere, per Guarnieri, una letteratura senza società, e chi abbia l’abitudine di stabilire rapporti strettamente deterministici si troverà imbarazzato di fronte a siffatta libertà d’impostazionedel problema storiografico. Ma la lezione che noi ne ricaviamo è appunto quella di una libertà mentale non solo invidiabile diper sé, ma anche altamente utile a ogni buon fine di conoscenza.
Il che non toglie che questa coscienza di civiltà produca,nella prospettiva storica di Guarnieri, il frutto di una coscienza ulteriore e più matura, che sarà quella del realismo, e potremmo dire del realismo critico. O forse meglio sarebbe parlare di un metarealismo, se appunto alla categoria del realismo può essere ascritto emblematicamente Comisso, senza che peraltro siano negati i suoi debiti con d’Annunzio: per precisare infine che, se il d’Annunzio notturno è essenziale al Novecento, il dannunzianesimo di Comisso, che è poi natura e riconquista di tutta la vita, si colloca persino fuori da una cifra decadente.

Ma uno dei saggi più stimolanti, per restare a questo libro, è quello intitolato ad Arturo Loria e la crisi del realismo: dove è un realismo antico, di tradizione, quello messo in forse dagli strumenti raffinati di Loria, dal suo gusto per il pastice, per la rivisitazione ottocentista: nell’aspettativa di un realismo nuovo alle soglie del quale Loria doveva arrestarsi (ma ci fu mai questo nuovo realismo?). E tuttavia, ancora una volta, l’insegnamento che ci viene da Guarnieri consiste nella sua capacità di cogliere il senso, anche civile ed umano, di un’esperienza letteraria, senza forzarla, e
soprattutto senza forzare se stesso verso la meta di un realismo improbabile, quando invece c’era tanta più ricchezza in quel realismo di crisi.
E qui bisognerebbe fare i conti con Guarnieri scrittore e in proprio. Penso al gettone del ’55 che s’intitola Utopia e realtà, dove sono dominanti i modidi un’educazione perfetta, fino alla freddezza (mi riferisco alla freddezza di Bonsanti, se vogliamo restare in un’area comune a Loria): per accorgersi subito che dietro quella freddezza c’è la fede in una civiltà letteraria che può benissimo assolvere al proprio compito senza alzare troppo la voce. Donde si capirà meglio la difesa di Palazzeschi (si vedano gli Atti intitolati Palazzeschi oggi, 1978), laddove, rispondendo a Moravia, Guarnieri riscatta in una sigla di superiore educazione il carattere «un po’ falso, finto» che sarebbe di certa letteratura palazzeschiana. Nel distacco di Palazzeschi, in quel suo guardate le cose dalla finestra, ci sarà stato anche un principio di ritorno all’ordine; ma era un ritorno all’ordine ben diverso, dice Guarnieri, da quello di un Papini, di un Soffici, di un Marinetti.
E qui interviene positivamente quella prospettiva ideologica che nel discorso di Guarnieri è sempre sottintesa, e molte volte è esplicita, ma non invade mai il campo a danno delle risultanze del discorso letterario. In questo senso la sua preferenza per le Sorelle Materassi è molto significativa, purché sia vista accanto alla condanna di un libro di Soffici come Elegia dell’Ambra. È significativa, più generalmente, tutta la posizione critica e storica di Guarnieri: fedele, che non è facile, alla propria ideologia politica e ai valori della propria generazione, vale a dire quella letteratura tra il ’15 e il ’45 che si colloca tra la fine delle avanguardie e la fine del fascismo. Magari questo taglio storico (con ciò che esso implica, per Guarnieri, di vita vissuta) non sarà il nostro: ma ciò non toglie niente alla validità di quella testimonianza.



Luigi Baldacci
(n. 9, settembre 2022, anno XI)