La colonna traiana come rotolo librario. 1900 anni di vita nel cuore di Roma

Il 12 maggio dell’anno 113 d.C., Traiano si fece dedicare dal Senato romano un monumento celebrativo. Esso costituiva una novità nella storia urbanistica della città ellenistico-romana, ma aveva probabilmente ascendenze nella regalità faraonica: un gigantesco libro-rotolo, la cosiddetta colonna traiana. Un imponente bassorilievo avvolto intorno alla colonna racconta la conquista della Dacia. Il grande rotolo di marmo si estende per circa 200 metri e avviluppa la colonna lungo 23 volute. Il «testo» va letto dal basso verso l’altro: in tutto si identificano 154 scene. In vetta alla colonna una statua di Traiano.
Tale libro-rotolo era posto tra le due biblioteche – una greca, l’altra latina – nelle quali culminava il foro di Traiano. Per volontà dell’imperatore il monumento era destinato ad essere anche il suo sepolcro. Anche in questo si potrebbe riscontrare un riflesso della regalità faraonica: nella convergenza, cioè, di sepolcro, biblioteca, statua del sovrano. Si potrebbe pensare, ad esempio, al complesso del «Ramesseum», progettato e realizzato da Ramsete II, qual è descritto da Diodoro Siculo (Biblioteca Storica, I, 46-48).
Egizio è anche il modello-rotolo di proporzioni così grandi. Si possono citare, a questo proposito, due rotoli celebri: il Pap. Harris I (British Museum) lungo oltre 40 metri, ed il Pap. Ebers (nella Univ. Bibliothek di Lipsia) lungo oltre 20 metri. Le 154 scene del bassorilievo che gira intorno all’intera colonna, dal basso verso l’alto, sono l’equivalente delle colonne di scrittura (σελίδες) che occupano i rotoli di papiro.

Qual era il grado di leggibilità della colonna-libro? Oggi la situazione in loco è falsata dalla circostanza della scomparsa degli edifici contenenti le due biblioteche; essi circondavano dunque la colonna e rendevano possibile una visione ravvicinata, e ad altezza adeguata, del «testo» racchiuso nelle 154 scene.
La colonna racconta le due campagne condotte da Traiano in Dacia, nel 101-102 e nel 105-107, nei territori posti al di là del Danubio e delle Alpi Transilvane, sino ai Carpazi orientali. Il vasto territorio nel quale si svolsero le due campagne coincide in parte con quello dell’attuale Romania. Furono campagne durissime, che coinvolsero anche la temibile cavalleria sarmata, caratterizzata dal pesante mantello a squame di ferro, che protegge il cavallo analogamente alla ferrea tuta che riveste il cavaliere. Molti riquadri del bassorilievo della colonna presentano per l’appunto cavalli e cavalieri equipaggiati in tal modo. I Sarmati, infatti, erano accorsi in soccorso dei Daci.
Il racconto della colonna può considerarsi un racconto storico nel senso proprio del termine? I moderni ne hanno discusso tanto più appassionatamente in quanto proprio l’età traianea, e più specificatamente le campagne in Dacia, soffrono di una penuria di fonti storiografiche. Ma certo la colonna, con la sua enfasi semplificatoria tutta incentrata sulla figura di Traiano che ricorre ossessivamente quasi ad ogni voluta, non può sostituire una tradizione storiografica peraltro carente. Il «maestro della colonna», come viene talvolta chiamato, avrà avuto, come fonte di ispirazione, le narrazioni ufficiali, in particolare i Commentarii che Traiano scrisse, o più probabilmente fece scrivere e presentò come suoi.
Dei Commentarii non abbiamo che un minuscolo frammento, compreso nella raccolta del Peter, ma della procedura cui Traiano faceva ricorso per confezionare scritti e discorsi che dovevano apparire come suoi sappiamo qualcosa. L’imperatore Giuliano, nella satira intitolata Cesari, pur trattando Traiano assai meno aspramente che altri, non lesina il sarcasmo su questo punto. Raffigura Traiano come particolarmente indolente: quando è richiesto di esporre i suoi meriti, il conquistatore della Dacia, «pur essendo in grado di parlare, indolente come sempre (infatti faceva sempre scrivere tutto a Sura), emettendo dei suoni piuttosto che effettivamente articolando parole, additava ed esibiva il trofeo del trionfo sui Geti» (Cesari, 327 a-b). Di questa subalternità scrittoria di Traiano rispetto ai suoi «redattori occulti» parla anche la Historia Augusta all’inizio della Vita Hadriani, là dove sostiene che, una volto morto Sura, i discorsi Traiano se li faceva scrivere da Adriano. Nella colonna, significativamente, Lucio Licinio Sura figura accanto a Traiano già nella sua prima apparizione. Di Sura come «ghost writer» dell’imperatore parla anche Dione Cassio (LXVIII, 4-6 e 15).

L’opera più documentata intorno alle campagne daciche dovette essere quella di Critone (Die Fragmente der Griechischen Historiker, nr. 200: Γετικά). Egli era anche il medico di Traiano, e ci è noto, come medico, anche da un divertente epigramma di Marziale.
La Storia getica di Critone era dunque un diario di guerra, una cronaca dello stato maggiore: e soprattutto un racconto documentato. L’opera circolava ancora in età giustinianea se Giovanni Lido se ne serviva. E proprio a lui dobbiamo un frammento molto rilevante (De Magistratibus, II, 28). Si tratta delle notizie sull’entità del bottino di Traiano, sul guadagno in termini di oro, preziosi e prigionieri di guerra: notizie che Giovanni Lido traeva appunto dall’opera di Critone. La scena corrispondente, nella colonna traiana, può essere utilmente messa a raffronto con i dati riferiti da Giovanni Lido. Le cifre, risalenti a Critone, sono state per molto tempo accettate senza problemi nonostante la loro enormità, che – a rigore – stride con l’immagine presente nella colonna (ma tale immagine può avere un valore essenzialmente simbolico). Che i materiali preziosi fossero alquanto consistenti risulterebbe anche da Dione Cassio, il quale narra dello stratagemma di Decebalo: aveva fatto temporaneamente deviare il corso di un fiume onde nascondere sotto il letto del fiume quei preziosi (ma una spia aveva svelato l’arcano ai Romani).
È merito di Jérôme Carcopino, in una serie di interventi pubblicati tra il 1924 e il 1968, di aver sollevato il problema della credibilità delle cifre gigantesche fornite da Critone (presso Giovanni Lido). Il più recente intervento di Carcopino, quello del 1968, è compreso nel suo bel volume filologico intitolato Les bonnes leçons, riedito nel 1990, presso Les Belles Lettres, a cura e con una prefazione di Jean Irigoin.
Carcopino pensava che Giovanni Lido avesse frainteso i numerali adoperati da Critone, in particolare il simbolo del numerale «mille» con moltiplicatore sovrapposto, scambiato per M (cioè 10.000) anch’esso con moltiplicatore sovrapposto. L’equivoco è possibile, trattandosi di un simbolo numerale (il sampi con moltiplicatore) che si trova unicamente in un gruppo di papiri documentari del III a.C. e molto più spesso in epigrafi dell’area caria (Alicarnasso, Mileto Didymeion etc.), mentre non figura in testi letterari. Ma allora l’errore si produsse a partire da un documento, e dunque si può arguire che fosse Critone ad aver frainteso il simbolo che trovava in un documento (redatto probabilmente da persone familiari con quei simboli numerali). Giovanni non ha fatto che riprodurre le cifre che trovava in Critone che vanno dunque ridimensionate. Molto più semplice sarebbe però immaginare che Critone, familiare coi numerali greci (dove M = μυριάς, cioè 10.000), abbia preso per 10.000 una cifra espressa in latino (dove M = 1.000). In un caso come nell’altro, da questo ripristino testuale esce confermata l’indicazione che indirettamente può ritrovarsi nelle scene 137 e 138 della colonna, dove il «tesoro dei Daci», poggiato sul dorso di un cavallo, non appare, comunque, di dimensioni smisurate.


Luciano Canfora
(n. 7-8, luglio-agosto 2013, anno III)