|
|
Dalla protostoria del carnevale: i versi fescennini
La letteratura anonima romana dei primi tempi fu per eccellenza poetica, orale e collettiva. Tale letteratura precorre e anticipa le prime forme letterarie colte per poi accompagnarle – come struttura, genere e stile – fino tardi, in un parallelismo mai superfluo o ingombrante. Eccone alcuni esempi: il poema 17 del Liber di Catullo (secondo quanto affermato da studiosi come Grimal, 1997: 186-197; Cupaiuolo, 1994: 91-98, 482-484; Cizek, 2003, I: 154-161, 163-164) sarebbe la rielaborazione di una canzone popolare satirica, molto probabilmente fescennina, cantata dagli abitanti delle città settentrionali cisalpine come risposta a certe situazioni, mentalità, abitudini delle rispettive comunità rurali od urbane. Secondo Svetonio (Aug, 100), alla morte di Augusto, durante la processione funebre, i rampolli delle famiglie illustri di Roma, cui si aggiunsero in gran numero anche gli astanti, intonarono dei lamenti funebri (naeniae). Quasi quattro decenni più tardi, a un altro decesso illustre, quello dell’imperatore Claudio, Seneca fece uso del modello del lamento funebre popolare per integrarlo, con valore parodico, nella sua celebre corbellatura del defunto imperatore, Apokolokyntosis diui Claudii (cap.XII).
I versi fescennini, nati probabilmente agli albori della civiltà romana, sono stati la produzione poetica anonima più duratura nella storia della romanità. Nel periodo tardo imperiale, alla fine del IV secolo d.C, il poeta Claudio Claudiano ci informa ancora (nell’epitalamio per le nozze del figlio dell’imperatore Teodosio I il Grande, Onorio, con Maria, vv. 128-130) che alle porte del palazzo imperiale di Roma risuonavano i vecchi versi fescennini. Ciò sicuramente perché essi rispondevano a una caratteristica fondamentale della spiritualità latina protratta fino a tardi, nella postromanità: la propensione all’umorismo, al comico e all’ironia, espressioni di un atteggiamento distaccato, critico di fronte agli uomini ma anche agli dei, specchio di ottimismo ottemperato dalla ragione, dalla lucidità. Nella mentalità collettiva romana tale propensione era importante perché correlata con il pragmatismo e lo spirito costruttivo dei romani (Cizek, 1994: 49). Prima di una letteratura satirica, mordace e persino sarcastica – sia orale che scritta – ci fu questa propensione specifica romana a criticare, a deridere, a biasimare ridendo – secondo l’espressione ormai celebre ridendo castigat mores – tutto ciò che trasgrediva la normalità naturale, il buon senso, il codice etico millenario non scritto (mores) della collettività.
Le suaccennate creazioni fescennine, versus Fescennini, che secondo Sesto Pompeo Festo (cca la seconda metà del sec II d.C.) avevano un carattere religioso e apotropaico e si cantavano alle nozze – versus Fescennini, qui canebantur in nuptiis – , non erano se non allegre canzoni popolari satiriche e spudorate. La libertà di espressione risultava dalla funzione originariamente magica della canzone e le occasioni in cui venivano cantate erano probabilmente molto più svariate delle sole nozze: alle feste del raccolto, a quelle della vita quotidiana e in genere in occasione di qualsiasi evento legato alle forze telluriche. Tali momenti o eventi erano sempre accompagnati da canzoni allegre e mordaci, pungenti come l’aceto. Questo spirito mordace sarà etichettato, in piena epoca classica da un suo poeta emblematico, Orazio, come Italum acetum (Sat. I, 7, 32). E siccome, secondo lo stesso Orazio (Epist. II, 1, 139), i versi fescennini avevano una forma dialogica, cioè erano successioni di battute improvvisate, contrasti spontanei su un certo argomento, essi erano in nuce delle rappresentazioni teatrali, totalmente libere da una sceneggiatura. Per questa loro teatralità e per la caratteristica causticità e mordacità (Fescennina iocatio, «lo scherzo fescennino» come lo chiama Catullo, LXI, 127) si può considerare che i versi fescennini, cui si aggiungeranno i modelli greci (Aristofane, Menandro ma anche il poeta ellenistico Eronda e altri), siano all’origine della grande commedia latina (comoedia palliata e togata), del mimo latino (mimus), ma anche di quel genere prettamente latino, la satira, che gli stessi latini affermavano di essere «tutta loro» (Quintiliano: Satira tota nostra quidem est., Instit. orat. X, 1, 93), ossia libera da ogni influsso greco.
Sono tanti gli autori latini dell’età classica che parlano di una poesia popolare satirica caratterizzata da un umorismo succoso, da uno straordinario brio comico, fatta di botte e risposte sferzanti che i contadini romani improvvisavano e abbinavano con il canto e la danza, in occasione delle feste dedicate agli dei della terra – alla terra stessa, ma anche a Silvano, a Genio (Orazio Epist. II, 1, 139-155). Osserviamo alcuni termini chiave del testo oraziano citato, riguardanti tali rappresentazioni: la libertà fescennina (licentia, 145) di fustigare aspetti sociali e politici del tempo, o persino di stroncarli; la loro derivazione dalle pratiche religiose bacchiche (vv. 139-144); la tonalità sarcastica resa dal sintagma opprobria rustica (v. 146) per cui, a un certo momento i versi fescennini furono considerati un pericolo pubblico e furono puniti dalla legge (lex poenaque, 152-153) a tutti imposta (lata, ibid.) e ciò per proteggere i cittadini dalle zanne (cruento / dente, 150-151) di tali poesie considerate ormai mala carmina (153).
Un’altra testimonianza ci viene offerta nelle Georgiche virgiliane, tanto più interessante in quanto inserita in un poema consacrato al mondo rurale. Nel libro II (vv. 385-396) sono passati in rassegna i divertimenti generati lungo gli anni dal culto di Bacco presso i contadini latino-italici, qui chiamati Ausonii /.../ coloni (v. 385). Allora i contadini, trasformati in «attori» con o senza una maschera o con il volto dipinto (Virgilio, Georg. II, 385-396), improvvisavano, senza nessun copione o filo drammatico, in spazi allestiti ad hoc (una piazza, una radura, un prato ecc.), delle recite e dei giochi burleschi divertenti, accessibili, informali, che piacevano agli altri contadini o borghigiani diventati all’occasione spettatori. Sono divertimenti in cui il rituale religioso, svolto secondo il cerimoniale sacro, è strettamente legato alla rappresentazione poetico-drammatica. La descrizione virgiliana, che rivela due caratteristiche essenziali della poesia satirico-drammatica anonima latino-italica, la lucidità e la comicità della burla, ha indotto gli studiosi (Cupaiuolo, 1994: 10-11) a identificarci i versi fescennini – chiamati nel poema versus incompti, (v. 386), cioè versi rozzi, ma anche carmina patria (v. 394) ossia poesie popolare avite. Ne può risultare che durante le feste della vendemmia (Virgilio associa questa produzione esclusivamente al culto di Bacco) i contadini, con i volti dipinti e avvolti in corteccia d’albero, dunque a loro modo mascherati, si lanciavano l’un l’altro dei motti arguti, spontanei, improvvisati, in una prima e rudimentale forma di teatro rustico.
Una terza testimonianza sui versi fescennini ce la offre Albio Tibullo, poeta elegiaco, più giovane di Virgilio e Orazio, nell’elegia II (1, 51-56): anche qui, come nei versi virgiliani, il contadino pronuncia rustica verba che formano un carmen, cioè versi ben ritmati (certo /.../ pede, 52) e accompagnati dallo zufolo del pastore o dal flauto di Pan (avena, 53) e da balli popolari non ritoccati dall’arte coreografica (inexperta /.../ ab arte, ibid.); neanche qui i contadini si mostrano al dio col viso scoperto, bensì dipinto di rosso (minium, 55). Come in Orazio, le canzoni e i balli dei contadini segnano il momento di riposo dopo il duro lavoro dei campi (post frumenta levantes, 140), e l’espressione rustica uerba (52) di Tibullo è molto simile all’opprobria rustica (146) oraziana. Sono analogie non casuali.
Mentre i testi già ricordati parlano di una creazione folcloristica prettamente rurale, esiste tuttavia una testimonianza, in quanto pare l’unica, che dimostra che i versi fescennini fossero adottati anche dal mondo urbano. Si tratta del filologo (grammaticus) Festo (Linsday, 1996) che fa risalire la creazione dei fescennini alla città di Fescennia o Fescennium (cui offre anche due possibili etimologie), collocata vicino alla frontiera meridionale del mondo etrusco. Riprendendo l’espressione di Seneca (Fescennini nuptiales), Festo dice che le canzoni venute dalla città fescennina erano cantate alle nozze per scongiurare la mala fortuna (canebantur in nuptiis, ex urbe Fescennina allati, siue ideo dicti quia ‘fascinum’ putabantur arcere). Troviamo qui due informazioni basilari su questa specie letteraria orale e anonima: il fatto che ai tempi di Festo i versi fescennini non erano più strettamente legati alle feste e al lavoro dei campi, come nell’età classica, bensì al cerimoniale, anch’esso metà laico metà religioso, delle nozze. Ed è molto probabile che i versi fescennini agricoli siano coesistiti con quelli nuziali, ma per noi qui l’importante è che tutti rappresentavano la stessa vocazione burlesca espressa in una forma di poesia-spettacolo. Ne danno prova i versi di Catullo (LXI, v. 126 e segg.) in cui, a proposito delle nozze di due giovani, la sposa è accolta con punzecchiature fescennine (Fescennina iocatio ,127). Anzi, c’è chi considera (Serafini, 1981: 33; Cupaiuolo, 1994: 11) addirittura che, come già detto, questo poema di Catullo sia un rifacimento o un’imitazione (Lafaye, 1984: 61, n. 4) dei fescennini nuziali, anche se con diverso metro e in una veste più decente.
In genere si è poco insistito sul destino letterario dei fescennini e lo spazio non ci permette di dettagliarlo neanche qui. Basta ricordare che in maggior parte essi sono rimasti una specie distinta della letteratura satirico-drammatica orale anonima; d’altra parte, però, varie testimonianze (v. Svetonio, cap.XXXIX della biografia di Nerone) dimostrano che i versi fescennini (in rielaborazioni sì e no colte) acquistarono anche una forma scritta, fungendo a volte da manifesti politici scritti sui muri (quasi come le pasquinate romane di più tardi), ciò a causa della brevitas specifica che li avvicinava all’epigramma satirico (con cui forse sono stati a volte scambiati); e dimostrano pure che alcuni autori colti ne hanno fatto uso nei propri testi di carattere satirico (Macrobio, Saturn, III, 14,9 e II, 4, 21).
Concludendo, possiamo azzardare l’idea che i fescennini, espressione originale e duratura dello spirito dell’Italum acetum, con la loro forma popolare, anonima, satirica e ludica, intrecciante poesia e spettacolo, movimento e maschera, siano il filone sotterraneo che dopo secoli uscirà in superficie – attraversando tante altre esperienze culturali, incluse quelle religiose – per irrigare lo spirito del carnevale italiano e delle sue mirabili e colorite manifestazioni.
Liviu Franga
Traduzione dal romeno di Smaranda Bratu Elian
(marzo 2018, anno VIII)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Cizek, 1994: Eugen Cizek, Istoria literaturii latine. Vol. 1-2. Bucureşti, Societatea «Adevărul» S.A., 1994; ed. a II-a, revăzută şi adăugită, vol. 1-2, Bucureşti, Grupul editorial Corint, 2003.
Cupaiuolo, 1994: Fabio Cupaiuolo, Storia della letteratura latina. Forme letterarie, autori e società. Napoli, Loffredo Editore, 1994.
Grimal, 1997: Pierre Grimal, Literatura latină. Traducere de Mariana şi Liviu Franga. Note suplimentare şi cuvânt înainte de Liviu Franga. Medalion biografic Pierre Grimal de Eugen Cizek. Bucureşti, Editura Teora, 1997.
Lafaye, 1984: Catulle, Poésies. Texte établi et traduit par Georges Lafaye. Onzième tirage. Paris, Société d’édition «Les Belles Lettres», 1984.
Lindsay, 1996: Lindsay, Wallace Martin. 1996. Studies in Early Mediaeval Latin Glossaries. Edited by Michael Lapidge. Variorum Collected Studies Series 467. Aldershot, UK.
Serafini, 1981: Augusto Serafini, Storia della letteratura latina dalle origini al VI secolo d. C. Nuova edizione, Torino, Società Editrice Internazionale, 1981.
|
|