Spazio Giuseppe Pontiggia. Note sulla «trilogia dell’assenza»

Nel capitolo della Grande sera dal titolo Animali e uomini Pontiggia introduce il personaggio di un investigatore privato, Borghi, e dedica molte pagine all’analisi della sua singolare personalità. Borghi, infatti, si caratterizza per una sua particolare mania: quella di ridurre mentalmente le persone con cui gli capita di interagire a una condizione animale. Mediante questa riduzione, commenta lo scrittore, egli riusciva a ottenere una semplificazione dei rapporti sociali:

Trattare gli uomini come animali lo aiutava a rispettare le distanze. E quanto tale atteggiamento fosse prezioso lo constatava quando se ne dimenticava. Gli esempi, del resto, non facevano che confortarlo. Conosceva l’ilare demenza degli amici degli animali, che trattavano le bestie feroci come cuccioli o giocavano con gli squali come con i coetanei, salvo perdere, con fulminea maturazione, un arto. E considerava invece esemplare il comportamento dei domatori, che non dimenticano mai la paura, e neanche la pistola. [1]

Pontiggia si dilunga molto su questo atteggiamento del suo personaggio, che è attratto in modo particolare dalla ‘naturalezza’ dell’astuta ferocia animale:

Milioni di anni avevano cooperato a una coordinazione mirabile, a una rapidità silenziosa, a una aggressività tanto più efficace, quanto meno distratta dall’odio. [2]

E ancora:

Soprattutto i documentari sui predatori avvincevano il suo sguardo, solidale con il vincitore non meno che con la vittima, imparziale come doveva essere quello di un dio che li avesse creati. [3]

L’interesse affascinato del personaggio per questi aspetti della vita animale si lega strettamente con la sua attività professionale di detective privato:

Investigare era per lui aggirarsi in un mondo primitivo, attento a ogni rumore, cauto nei movimenti, paziente. Era ritornare un animale sulle tracce di un altro. [4]

Ora, il personaggio dell’investigatore può essere assunto come una chiave privilegiata per comprendere un aspetto fondamentale della narrativa di Giuseppe Pontiggia: nei romanzi e nei racconti pontiggiani, infatti, l’aggressività cauta, paziente, nascosta e micidiale che Borghi ammira nei predatori, non domina soltanto fra gli animali, ma si manifesta anche nel mondo umano, sebbene in modi più coperti e complessi e dunque più difficilmente individuabili. Uno degli ambiti di manifestazione di essa, ad esempio, è stato particolarmente indagato da Pontiggia ed è rappresentato dal gioco degli scacchi, presente in molte pagine dei suoi romanzi e dei suoi saggi, a partire dall’Arte della fuga, in cui agli scacchi è dedicata una delle ‘sequenze’ narrative che compongono il libro, e dal Giocatore invisibile, in cui un capitolo si svolge interamente in un circolo scacchistico. Il protagonista del Giocatore è rappresentato come un maniaco, più ancora che un semplice appassionato, degli scacchi, collezionista ossessivo di scacchiere, attentissimo ai minimi particolari degli oggetti da lui amati. Non casualmente, poi, il tema degli scacchi ritorna nelle pagine conclusive del libro, quasi a suggellare l’esito del conflitto tra il protagonista ricercatore e l’antagonista, oggetto della sua ricerca.
Anche nella Grande sera, che è un romanzo in cui Pontiggia ha ripreso, e un po’ irrigidito, situazioni e temi del Giocatore invisibile e del Raggio d’ombra (in particolare, il tema fondamentale della ricerca narrativa messa in movimento da un personaggio assente), ritroviamo il gioco degli scacchi. Scrive Pontiggia di uno dei personaggi ‘ricercatori’:

Quello che lo attirava, rifacendo le partite dei maestri, non erano le battute finali, spesso inevitabili, né le prime, quasi sempre prevedibili: ma quella mossa che, in una situazione di equilibrio, cominciava occultamente ad alterarlo. Non riusciva mai a immaginarla e quando per caso accadeva, non sapeva perché. [5]

Ciò che dunque affascina Pontiggia negli scacchi è il controllo intellettuale di una situazione di conflitto e anche, insieme, il fatto imprevedibile che la rompe e si sottrae al dominio di una aggressività apparentemente fredda e lucida.
Il gioco degli scacchi, ha scritto Pontiggia in un saggio dal significativo titolo di L’eterno nemico al circolo degli scacchi, poi raccolto nell'Isola volante, si svolge nei tornei dei professionisti «nel raccoglimento degli agguati» e nei circoli dei dilettanti, invece, «in frenetiche partite lampo». Osserva lo scrittore:

Eppure non è meno feroce la speranza di annientare l’avversario, anzi l’impazienza la tradisce in modi paradossali. [6]

Gli scacchi, duello inesorabile e immagine della vita, sono dunque un gioco che «incanala in un sistema complicato di regole il massimo di aggressività, tendendo alla soppressione dell’avversario». [7]

Ora, un duello inesorabile sono, per lo più, nei romanzi di Pontiggia anche i dialoghi fra i diversi personaggi: nel Giocatore invisibile uno di essi, conversando con il protagonista, enuncia la concezione del linguaggio che è alla base dei numerosi, lucidi e spietati dialoghi contenuti nel libro:

Il linguaggio serve per difendersi, per aggredire, per ingannare e ingannarsi, non per capire. [8]

Un tipico esempio dei dialoghi pontiggiani lo ritroviamo poi in un capitolo di Nati due volte, in cui l’io narrante racconta del suo incontro con il direttore della scuola elementare presso cui egli vuole iscrivere il figlio disabile. Il capitolo è intitolato, non a caso, «Corpo a corpo»: il colloquio tra i due personaggi è, infatti, una lotta, aperta dal direttore scolastico con le parole: «Parliamoci chiaro», che sono così commentate dal narratore:

Ho sempre temuto questa frase, che non è mai un invito alla trasparenza, ma l’apertura delle ostilità. [9]

Il dialogo nel Pontiggia narratore è dunque, in prevalenza, conflitto: conflitto nascosto, guardingo, intellettualizzato, ma non per questo meno micidiale e distruttivo. Ambiti privilegiati per l’osservazione di questa persistente situazione di conflitto sono per lo scrittore, già a partire dalla sua prima prova narrativa, il breve romanzo La morte in banca, alcuni ambienti professionali: la banca, appunto, e poi il mondo accademico, la società letteraria ecc. In essi la conflittualità si presenta sempre in una forma coperta, non esplicita, dissimulata, e la narrazione mira a scoprirla e a portarla fulmineamente alla luce.

In un saggio dal titolo Il letterato e l’inesistenza, che Pontiggia ha voluto porre a conclusione della sua prima raccolta saggistica, Il giardino delle Esperidi, lo scrittore descrive la società letteraria, il mondo di quelli che Giacomo Noventa chiamava i «letterati di casta», come un mondo di omicidi silenziosi, resi possibili dal segreto sentimento di paura che vi domina:

C’è una paura che segue il letterato come la sua ombra: quella di non esistere. [10]

E ancora:

[…] il letterato cammina sul ciglio della inesistenza: e il timore di essere nuovamente inghiottito dall’abisso ricorre con un andamento a spirale. [11]

Da qui, allora, gli «omicidi silenziosi», cioè i giudizi di inesistenza che gli appartenenti a quel mondo si rivolgono reciprocamente:

Il dubbio di esistere è alimentato dagli stessi letterati. E la paura che provano è quella con cui intimidiscono gli altri.
L’attributo della inesistenza è l’unico che di buon grado concedono ai loro simili.
La frase “non esiste”, riferita a un collega, è l’espressione più tipica in cui sogliono condensare un giudizio.
Pensavo alla prima volta che l’avevo udita, qualche decennio fa, da un critico famoso: ero un ragazzo e avevo provato un certo disagio.
Mi era parso di assistere a un omicidio silenzioso. [12]

D’altra parte, ciò non accade solo nella società letteraria, ma si verifica anche in molti altri ambienti professionali: ad esempio nella banca del libro giovanile di Pontiggia, La morte in banca, e di alcuni suoi brevi racconti. Discorrendo della sua esperienza di lavoro come bancario, iniziata quando aveva appena diciassette anni, lo scrittore ha osservato una volta che ciò che egli vi avvertiva di negativo non era tanto la monotonia e la ripetitività del lavoro, ma era soprattutto «la prospettiva riduttiva di alcuni miei colleghi, i quali così esibivano un cinismo brutale, liquidatorio nel quale non mi riconoscevo, nel quale scoprivo un tradimento della vita». [13]

Ora, queste parole si adattano perfettamente non solo all’ambiente bancario del primo romanzo, ma anche al mondo accademico entro cui si svolge la vicenda del Giocatore invisibile: anche quest’ultimo, infatti, non diversamente dal piccolo universo difficile e sconcertante della Morte in banca, appare come un mondo chiuso, in cui vigono, come nel gioco degli scacchi o nella nevrosi ossessiva, le «leggi ferree di un universo perfetto» [14], le stesse che ritroveremo dominanti nel mondo di militanti politici e di spie del romanzo successivo di Pontiggia, Il raggio d’ombra, che è un mondo «gremito di pericoli, di agguati, di riconoscimenti fatali» [15]. Entro mondi cosiffatti, in cui realtà e ideazione paranoica sembrano coincidere, si muovono personaggi ossessivi essi stessi, cauti, guardinghi e sempre oscuramente impauriti, che vedono poste in crisi da eventi imprevisti e in apparenza accidentali le situazioni di vita e le sicurezze illusorie da loro costruite, il loro precedente vivere «come se» le loro menzogne fossero vere.

Pontiggia, che aveva anche una vasta cultura filosofica, ha scritto una volta un saggio, poi confluito nel Giardino delle Esperidi, che appare molto importante per comprendere il suo mondo romanzesco e che ha per titolo, appunto, La vita “come se”: qui egli prende le mosse da un libro di Hans Vahinger, pubblicato nel 1911, La filosofia del “come se”, in cui il filosofo neokantiano aveva sostenuto il carattere di finzioni – finzioni praticamente utili e, in quanto tali, generalmente accettate «come se» fossero vere – di tutte le conoscenze che vogliano superare il livello dell’esperienza immediata. Ora, Pontiggia riprende il libro di Vahinger, spostando però la sua attenzione dall’ambito della teoria della conoscenza e utilizzandolo invece come sollecitazione ad una riflessione morale sull’esistenza e sui suoi aspetti di illusione e di ipocrisia o di malafede: una riflessione sulla «vita ipotetica, immaginaria, che corre parallela alla vita quotidiana e finisce non solo per sovrapporsi a essa, ma per sostituirla»:

Noi viviamo “come se” la nostra vita fosse un’altra, “come se” la nostra condizione e il nostro destino fossero diversi da quello che sono.
E non parlo solo delle illusioni a occhi aperti, quelle dei bambini che agiscono “come se” fossero adulti o degli anziani che agiscono “come se” fossero giovani. Ma parlo di illusioni più occulte e tenaci, di rapporti che durano tutta la vita “come se” non fossero morti, di fraintendimenti che rimandano alla eternità il loro chiarimento. [16]

Ora, nei romanzi della «trilogia dell’assenza» i personaggi principali vivono, appunto, «come se». Questa situazione sollecita negli altri personaggi e, ancor di più, nel narratore stesso una volontà di smascheramento e di demistificazione: la cautela ossessiva, l’ipocrisia e la malafede hanno lo stesso effetto che, secondo Karl Kraus, ha la gelosia: sono «un abbaiare di cani che attira i ladri». I romanzi che compongono la trilogia sono tutti, non casualmente, romanzi di investigazione: un’investigazione che mira, in prima istanza, a lacerare il velo dell’ipocrisia e della malafede, a «smascherare» e a «demistificare». Questa disposizione allo smascheramento è anche l’atteggiamento che ha, per lo più, l’autore stesso verso i suoi personaggi; da qui derivano alcuni rilevanti caratteri formali della narrativa pontiggiana: in primo luogo, l’articolazione del racconto in sequenze brevi, culminanti in fulminee rivelazioni del senso nascosto; poi, ancora, l’insistita aforisticità, la grande frequenza di sentenze e giudizi, che si accentua in particolare nella Grande sera, in cui essa giunge a irrigidire e persino a paralizzare la narrazione.
L’aforisticità e la tendenza a racchiudere i personaggi entro fulminee e univoche definizioni morali sono in Pontiggia l’espressione di una concezione della verità come smascheramento e demistificazione, come improvviso svelamento del senso nascosto, dunque di una ermeneutica del sospetto, duramente riduttiva, che è interamente dominante nei racconti brevi e, in particolare, anche nelle Vite di uomini non illustri.
Questa disposizione ermeneutica demistificatrice è anche all’origine – ma solo all’origine – dei romanzi della trilogia dell’assenza, dei romanzi di investigazione. Nel Giocatore invisibile e nel Raggio d’ombra, però, e anche, almeno intenzionalmente, in un libro certo, nel complesso, meno convincente come La grande sera, la prospettiva ermeneutica riduttiva, cioè la concezione della verità come demolizione smascherante di ipocrisie e difese, incontra un limite insuperabile in una figura – il «giocatore invisibile» – che appare irriducibile ad essa: la ricerca narrativa, che si realizza attraverso il ricorso al tema dell’investigazione – investigazione essa stessa ossessiva e infine apparentemente fallimentare –, entra in conflitto con il moralismo satirico dell’autore, che si esprime negli aforismi e nelle definizioni univoche e distruttive, e mette in discussione, nell’oggettività della narrazione, la concezione della verità che lo sostiene.

Pontiggia ha più volte insistito sul tema di una sapienza del testo che va al di là della consapevolezza dello scrittore:

Il romanzo è un viaggio nell’ignoto. E l’aspirazione di un narratore non è di raccontare quello che sa, ma di scoprire quello che non sapeva e che pure è riuscito a raccontare. [17]

In generale, egli scrive in un altro luogo, la letteratura «è sorpresa e conferma. Non ricalca il noto (altrimenti non avremmo la sorpresa), ma al tempo stesso svela quell’ignoto che non ci è estraneo». [18]

E ancora:

Un autore scrive per fare qualcosa di vivo al di là delle sue intenzioni, delle sue possibilità di controllo, di programmazione, di previsione, per mettere in moto qualche cosa di sorprendente anche per lui. [19]

Proprio in questa possibilità data allo scrittore di realizzare un testo che «alla fine ne sappia più di lui, risulti più ricco e più strano di quanto potesse prevedere e programmare», Pontiggia, in un breve scritto del 1979 intitolato «Dove va la letteratura?», ha individuato quello che forse «è l’aspetto più importante del lavoro letterario». [20]
Ora, nel Pontiggia narratore la funzione di motore che mette in movimento la ricerca romanzesca è affidata, appunto, a un personaggio che è un «giocatore invisibile», a una figura che è l’obiettivo della ricerca, dell’investigazione, e che fino alla fine si sottrae alla ricerca, resta nell’ombra e delude la volontà di chiarezza e di controllo dei personaggi ricercatori: tali sono l’antagonista del professore nel Giocatore invisibile e il misterioso personaggio del traditore nel Raggio d’ombra; tale è anche, nel terzo romanzo della trilogia dell’assenza, La grande sera, il personaggio che scompare fin dall’inizio e che, appunto scomparendo, orienta tutta la narrazione. In realtà, però, in quest’ultimo libro la figura dell’assente è introdotta in modo un po’ meccanico dallo scrittore, che resta interamente consapevole e padrone della macchina narrativa da lui creata: il «giocatore invisibile» non può dunque assumere qui la positiva ambiguità che aveva nei due precedenti romanzi della trilogia. La conclusione vera della ricerca romanzesca di Pontiggia deve essere cercata invece non tanto nella Grande sera quanto nell’ultimo romanzo pubblicato dallo scrittore, Nati due volte: qui, è vero, non abbiamo nessun personaggio che sia letteralmente assente, ma senza dubbio la figura del giovane disabile, oggetto di ansiose interpretazioni e spiegazioni da parte dei genitori, dei professori, degli esperti, assume proprio quella funzione di «giocatore invisibile», che è sempre necessaria a Pontiggia per superare il moralismo satirico e avviare l’investigazione narrativa. Il personaggio di Paolo, infatti, non si lascia afferrare fino in fondo da nessuna delle interpretazioni e spiegazioni, di cui è origine. Egli porta invece nella narrazione una sottile componente di umorismo, molto diversa dalla comicità aspramente demistificatrice del moralismo satirico, e delude la volontà di controllo e di spiegazione, restando sfuggente e irriducibile ad una definizione univoca.
Il romanzo, come, in generale, tutta l’opera narrativa più valida di Pontiggia, diviene così il luogo di un confronto tra diversi atteggiamenti ermeneutici, tra diverse concezioni della verità, che per altro non si oppongono necessariamente fra loro. Nell’ultima pagina del libro si affaccia con evidenza, nel rapporto tra io narrante e personaggio «invisibile», tra padre e figlio, la possibilità di un comprendere che sia finalmente irriducibile al pur necessario spiegare:

Una volta, mentre lo guardavo come se lui fosse un altro e io un altro, mi ha salutato. Sorrideva e si è appoggiato contro il muro. È stato come se ci fossimo incontrati per sempre, per un attimo. [21]

           
Pontiggia ha detto una volta di sé: «Per me non c’è la fede, ma c’è il mistero» [22]. Ora, questa componente di mistero si lega sempre nella sua opera narrativa ad un personaggio in qualche modo «invisibile»; quando tale figura manca, prevale l’atteggiamento riduttivo, l’ermeneutica del sospetto e dello smascheramento. Caso esemplare ne sono le Vite di uomini non illustri, in cui nessuno dei molteplici personaggi che compaiono nel libro giunge ad assumere il carattere di «personaggio-uomo» e tutte le esistenze – narrate, per altro, con grande sapienza letteraria – appaiono davvero esistenze mancate, condannate all’illusione e alla ripetizione nevrotica. Solo il personaggio invisibile consente al narratore di superare il moralismo satirico, tendente all’aforisma più che al racconto, e di avviare la ricerca romanzesca: una ricerca che non giunge ad un completo svelamento, come vorrebbero i personaggi investigatori, ma ad un enigma che non è pienamente dissolto dallo scioglimento dei nodi della trama investigativa.


Leonardo Lattarulo
(n. 6, giugno 2023, anno XIII)



NOTE

[1] Giuseppe Pontiggia, La grande sera, in Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori (“I Meridiani”), 2004, pp. 965-966.
[2] Ivi, p. 966.
[3] Ivi, p. 967.
[4] Ivi, p. 968.
[5] Ivi, p. 974.
[6] Giuseppe Pontiggia, L’isola volante, in Opere cit., p. 1362.
[7] Ivi, p. 1365.
[8] Giuseppe Pontiggia, Il giocatore invisibile, in Opere cit., p. 379.
[9] Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, in Opere cit., p. 1580.
[10] Giuseppe Pontiggia, Il giardino delle Esperidi, in Opere cit., p. 774.
[11] Ivi, p. 775.
[12] Ivi, p. 777.
[13] Rossana Dedola, Giuseppe Pontiggia. La letteratura e le cose essenziali che ci riguardano, Roma, Avagliano, 2013, p. 27.
[14] Giuseppe Pontiggia, Il giocatore invisibile cit., p. 328.
[15] Giuseppe Pontiggia, Il raggio d’ombra, in Opere cit., p. 442.
[16] Giuseppe Pontiggia, Il giardino delle Esperidi cit., p. 664.
[17] Ivi, p. 659.
[18] Giuseppe Pontiggia, L’isola volante cit., pp.1494-1495.
[19] Giuseppe Pontiggia, Il residence delle ombre cinesi, Milano, Mondadori, 2004, p. 128.
[20] Giuseppe Pontiggia, Il giardino delle Esperidi cit., p. 638.
[21] Giuseppe Pontiggia, Nati due volte cit., p. 1702.
[22] Giuseppe Pontiggia, Una lettera dal Paradiso: storie di Natale, a cura di Fulvio Panzeri, Novara, Interlinea, 2017, p. 6.