«Il pellegrino, l’amante e l’alchimista». Il simbolismo mistico di Evelyn Underhill

Nota da un paio d’anni al pubblico italiano per essere l’autrice di una biografia spirituale di Jacopone da Todi [1], Evelyn Underhill (1875-1941) è stata una figura di assoluto rilievo nell’ambito del revival mistico di area anglofona all’inizio del Novecento, tanto da meritare uno spazio nell’Enciclopedia delle religioni ideata e diretta da Mircea Eliade presso l’editore Macmillan [2]. Alla voce corrispondente possiamo leggere dell’influenza che inizialmente subì da parte dell’occultista Arthur Waite, membro dell’Ordine Ermetico della Golden Dawn di cui la stessa Underhill fece parte per qualche tempo. La scrittrice inglese approfondiva in seguito la via mistica, attingendo al vitalismo che si andava allora affermando – nella sua duplice matrice: bergsoniana e spiritualista (alla Rudolf Eucken) – mentre, in collaborazione con Rabindranath Tagore, traduceva per la prima volta in inglese una raccolta di componimenti del mistico indiano Kabīr, vissuto a Benares nel XV secolo [3]. L’abbandono delle posizioni teiste e il riconoscimento dell’unicità della via cristiana al misticismo sarebbe infine avvenuta sotto l’egida dello studioso cattolico Friedrich von Hügel. Underhill è stata una scrittrice estremamente prolifica, ha pubblicato in vita in tutto oltre una trentina di saggi di argomento religioso, tre romanzi e altrettante raccolte di poesie. Pur appartenendo alla confessione anglicana contribuì alla riscoperta dell’eredità cattolica in seno alla chiesa d’Inghilterra. È per questo annoverata tra gli esponenti del cosiddetto anglo-cattolicesimo. Dal 2000, la Chiesa anglicana la ricorda liturgicamente il 15 giugno.

«Il misticismo è l’arte dell’unione con la Realtà. Il mistico è una persona che ha raggiunto quell’unione in misura maggiore o minore; o che aspira a essa e crede in tale raggiungimento» [4]. Così scriveva nel suo Practical Mysticism,licenziato il 12 settembre 1914, a poco più di un mese dalla dichiarazione di guerra presentata dal Regno Unito all’Impero tedesco (4 agosto), in seguito all’invasione del neutrale Belgio. In un frangente tanto drammatico, qual era quello che si delineava fin dalle prime settimane del conflitto, Underhill sottolineava che il misticismo non consiste in un «passatempo spirituale» [spiritual plaything] raccomandato nei «giorni di bel tempo», né la vita contemplativa descrive un tipo di esistenza egoista, ripiegata su stessa, estranea alle sofferenze e ai fardelli della vita ordinaria [5]. è proprio nei momenti di maggiore crisi, anzi, che la vita spirituale approfondisce se stessa, ancorandosi ai valori eterni e trascendenti che rendono capaci di «discernere le esigenze reali da quelli illusorie, e di pronunciarsi sui nuovi problemi, le nuove difficoltà, i nuovi campi di attività ora dischiusi», facendo propria una saggezza che è preclusa a coloro che vivono in balìa degli eventi [6]. La pratica mistica rende dunque disponibile all’uomo una riserva di energia e di vitalità, di lucidità e di fermezza che risultano quanto mai utili nella desolazione presente. Il mistico realizza la pienezza dell’essere umano, entrando «in possesso di tutti i suoi poteri», e nel far questo, rafforza anche i legami con la comunità di appartenenza, contribuendo attivamente alla sua salvezza. Dalla pratica del misticismo, lascia intendere Underhill, possono dipendere anche le sorti di una guerra, perché solo la nazione che «ha visione» e resta padrona di sé può uscire vincitrice dal conflitto.

Mysticism. A study A Study in the Nature and Development of Man’s Spiritual Development (1911), un corposo tomo di oltre seicento pagine, vera e propria summa del pensiero mistico universale, ha conosciuto, mercé la sua chiarezza espositiva e la sua profondità, un considerevole successo di pubblico, arrivando a contare nel 1930 ben dodici edizioni. L’opera, di taglio volutamente divulgativo, si articola in due sezioni. La prima, intitolata The mystic fact, è la più ampia delle due e consiste in una introduzione, di carattere didascalico-compilativo, alla letteratura mistica, ai suoi simbolismi e ai suoi stadi di sviluppo; la seconda, The mystic way,è una disamina psicologica dell’esperienza mistica. Lungi dal presentarsi come un’opera accademica o uno studio di comparatistica religiosa, il saggio testimonia principalmente l’interesse personale della Underhill – la quale peraltro è stata un scrittrice animata da intenti religiosi, certamente non una teologa né una docente universitaria – e il suo diretto coinvolgimento nella ricerca spirituale di cui andava tracciando il profilo. Monumentale lavoro di sintesi ma senza pregio di originalità, Mysticism ha conservato, nelle varie edizioni che si sono succedute nel tempo, i segni della graduale «conversione» dell’autrice da posizioni neoplatoniche verso un sempre maggiore cristocentrismo, dovuto alla già ricordata influenza di Friedrich von Hügel.
È nota l’impronta che quest’opera ha lasciato sul corso di Metafisica tenuto da Nae Ionescu presso l’Università di Bucarest nell’anno accademico 1928-1929. Ionescu avrebbe letto il saggio di Underhill in traduzione tedesca [7], e ne avrebbe tratto ispirazione per circa un terzo delle sue lezioni (XV-XXII), corrispondenti alla seconda parte del corso. Non è questa la sede per rivangare la vexata quaestio del presunto plagio contestato al filosofo romeno. Il lavoro di Liviu Bordaș, cui va il merito di avere confutato la tesi ‘giustizialista’ di Marta Petreu, ha del resto ampiamente dimostrato che le corrispondenze testuali tra il corso di Nae Ionescu e il volume Mysticism di Underhill, quando non sono solo apparenti o parziali, conducono a conclusioni nient’affatto simili, semmai addirittura opposte, sempre e comunque tali da non pregiudicare il valore e la specificità del contributo ioneschiano: «il Misticismo e la Metafisica sono opere dal registro molto diverso. Da una parte abbiamo un approccio teologico-estetico percorso dall’anglo-cattolicesimo femminista di Evelyn Underhill. Dall’altra un approccio logico-metafisico sotteso dall’ortodossia origenista di Nae Ionescu» [8].
Tra le poche idee che Ionescu avrebbe effettivamente ricavato dal saggio di Underhill, vi è la tipologia tripartita «pellegrino-sposo-santo» – che d’altra parte il filosofo romeno aveva apertamente riconosciuto essere un prestito: «D’altronde, questa teoria dei tipi è qualcosa di molto più antico. Io ho cercato di applicarla all’intero dominio della filosofia e credo che in buona parte mi abbia dato, perlomeno a me pare, dei risultati soddisfacenti» [9]. Riproduciamo di seguito alcuni frammenti del capitolo «Misticismo e simbolismo» a cui Ionescu si sarebbe presumibilmente ispirato, ricordando, con Bordaş, come la ripresa della tipologia underhilliana non sia avvenuta meccanicamente da parte del filosofo romeno. Oltre a rivisitare i tipi alla propria maniera – pilgrim, lover e alchimist di Underhill diventano nel corso di Metafisica «il pellegrino» [Pelerinul], «lo sposo» [Mirele] e «il santo» [Sfântul] – Ionescu avrebbe infatti sottoposto tale simbolismo a una trattazione coerente, sorretta da una logica rigorosa che faceva difetto all’esposizione puramente descrittiva dell’autrice inglese.

«A causa dell’immaginazione spaziale inseparabile dal pensiero e dall’espressione umane, nessuna descrizione diretta dell’esperienza spirituale è o può essere accessibile all’uomo. Deve sempre essere simbolica, allusiva, obliqua: sempre alludere a, ma mai dire, la verità: e a questo riguardo c’è poco da scegliere tra il linguaggio fluido e artistico della visione e gli aridi tecnicismi della filosofia. Sotto un altro punto di vista, tuttavia, c’è l’imbarazzo della scelta: e qui la palma spetta al visionario, non al filosofo. Quanto maggiore sarà la qualità suggestiva dei simboli usati, quanto più l’emozione che esso evoca è rispondente a coloro ai quali si rivolge, tanta più verità veicolerà. Un buon simbolismo, pertanto, sarà più di un semplice schema o di una semplice allegoria: esso si servirà al massimo delle risorse di bellezza e passione, porterà con sé cenni di mistero e meraviglia, ammalierà con periodi sognanti la mente di colui a cui si rivolge. Il suo appello non sarà rivolto alla mente intelligente ma al cuore desideroso, al senso intuitivo, dell’uomo.
Le tre grandi classi di simboli che propongo di considerare, traggono alimento da tre ardenti desideri del sé, tre grandi espressioni dell’inquietudine umana, che soltanto la verità mistica può soddisfare appieno. Il primo è l’anelito che fa di lui un pellegrino e un girovago. È il desiderio di uscire dal suo mondo usuale in cerca di una dimora perduta, “un paese migliore”; un Eldorado, una Sarras, una Gerusalemme celeste. Quello che segue è il desiderio del cuore per il cuore, dell’anima per la sua ideale metà, che fa di lui un amante. Il terzo è il desiderio per la purezza interiore e la perfezione che fa di lui un asceta, e da ultimo, un santo.
Questi tre aneliti, io credo, rispondono alle tre modalità con le quali mistici di temperamenti diversi affrontano il problema dell’Assoluto: tre diverse formulae sotto le quali è possibile descrivere la loro trascendenza del mondo dei sensi» [10].

Dopo aver espresso la convinzione che l’esperienza mistica possa offrirsi solo in forma simbolica, e dopo avere delineato gli orientamenti generali del simbolismo mistico, Underhill passa a considerare l’allegoria del pellegrinaggio, riconoscendo in essa due possibili varianti: la prima è quella della cerca di un tesoro o di un oggetto dai poteri miracolosi (il Graal); l’altra è quella del viaggio verso una meta ideale, di cui la Commedia dantesca è l’esempio più noto.
«L’idea del pellegrinaggio, la cerca verso l’esterno, si presenta nella letteratura mistica sotto due aspetti abbastanza diversi. Uno è la ricerca del “Tesoro Nascosto che desidera essere trovato”. Tale è la “cerca del Graal” se considerata nel suo aspetto mistico come un’allegoria delle avventure dell’anima. L’altro è il lungo e difficoltoso viaggio verso una nota e definita meta o condizione. Tale è il caso della “Divina Commedia” di Dante; la quale è, sotto un certo aspetto, un’accurata e dettagliata descrizione della Via Mistica. La meta di una tale cerca – l’Empireo dantesco, la Visione Beatifica o la pienezza d’amore – spesso viene chiamata Gerusalemme dai Mistici Cristiani; abbastanza comprensibilmente, dato che la città era per la mentalità medievale il fine supremo del pellegrinaggio. […] Sotto questa immagine del pellegrinaggio – un’immagine, per gli scrittori medievali che se ne servirono, tanto concreta e pratica, e avulsa dal romanticismo e dal pittoresco, quanto per noi l’insegna un hotel o di una ferrovia – i mistici si sforzarono di condensare e alludere a gran parte della storia della vita dell’anima ascendente; la coscienza spirituale in via di evoluzione. La libertà e il distacco necessari del viaggiatore, l’abbandono della vita e degli interessi di tutti i giorni, le difficoltà, i nemici, e le avversità incontrate sul suo cammino; la lunghezza del viaggio, la varietà del paesaggio, la notte oscura che lo sopraffa, gli scorci della destinazione in lontananza – man mano che progrediamo nella conoscenza tutti questi elementi vanno a comporre una allegoria trasparente delle vicende del progresso umano dall’irreale al reale» [11].
L’autrice esamina poi il simbolo delle nozze mistiche, rilevando come esso abbia goduto di una particolare fortuna in seno alla tradizione mistica occidentale. Le ragioni di tale successo non sono tanto da ricondursi alla popolarità del Cantico dei Cantici – così facendo si invertirebbe, pensa l’autrice, l’ordine di successione tra la causa e l’effetto – quanto piuttosto alla pregnanza dell’immagine nuziale, che meglio di ogni altra riesce a esprimere la comunione spirituale tra umano e divino che l’esperienza mistica realizza.  
«Era naturale e inevitabile che fra tutte le immagini, quella dell’amore umano e del matrimonio dovesse sembrare al mistico la migliore espressione della sua “pienezza di vita”; la resa della sua anima, dapprima alla chiamata, infine all’abbraccio dell’Amore Perfetto. Era a sua portata di mano: era comprensibile a tutti gli uomini: e, soprattutto, offre sicuramente, su di un livello inferiore, un parallelo sorprendentemente esatto con la serie di stati in cui la coscienza spirituale dell’uomo si dispiega, e che costituisce il compimento della vita mistica.
Si è detto che il ricorso costante a questa immagine da parte dei mistici cristiani del periodo medievale è riconducibile alla popolarità del Cantico di Salomone. Credo che la verità sia esattamente l’opposto: cioè, che il mistico amasse il Cantico di Salomone perché vi vedeva riflesse, come in uno specchio, le più recondite esperienze della sua anima. Il senso di un desiderio che era insaziabile, di una comunione spirituale a tal punto reale, interiore, e intensa da poter essere paragonata soltanto al più stretto vincolo d’amore umano, di un rapporto che non era mero autocompiacimento spirituale, ma era radicato nei doveri e nelle necessità primarie della vita – di più, i più profondi, i più intimi segreti di comunione, le estasi donative che tutti i mistici conoscono, ma di cui noi, che non siamo mistici, non possiamo parlare – tutto questo egli trovò simboleggiato e adombrato, le loro insostenibili glorie velate da una caritatevole nebbia, nella poesia che l’uomo ha inventato per onorare quell’augusta passione in cui  ciò che è meramente umano si avvicina di più al divino» [12]. 

Da ultimo, Underhill considera il simbolismo degli alchimisti spirituali, cioè di quanti – tra questi Jacob Böhme e William Law, ma non soltanto loro – hanno rivestito l’esperienza mistica con le immagini di elementi e operazioni tratte dal repertorio dell’alchimia: la scienza sacra che conduce alla trasformazione dei metalli vili in oro. Il fine dell’alchimia spirituale è in realtà bel altro: il rinnovamento dell’uomo, la trasformazione interiore mediante la quale il sé diventa omogeneo alla realtà di cui va in cerca perché: «soltanto il Reale può conoscere la Realtà».
«Veniamo ora ai simboli che sono stati adottati da quei mistici in cui la coscienza lunatica della loro imperfezione, e dell’indicibile perfezione della Vita Assoluta alla quale aspiravano, ha sopraffatto tutti gli altri aspetti della cerca umana della realtà. Il “cerca, e troverai” del pellegrino, il “per amore Egli sarà preso e tenuto” della sposa, non possono mai sembrare una descrizione adeguata dell’esperienza a menti di questo genere. Essi sono protesi verso l’inesorabile verità che dev’essere accettata in qualche modo da entrambe queste categorie: il fatto cruciale che “noi vediamo che quel che siamo”, o in altri termini, che “soltanto il Reale può conoscere la Realtà”. Perciò la condizione dell’uomo interiore, la di lui “irrealtà” se giudicato da qualsiasi criterio trascendentale, è il loro centro di interesse. Il suo rinnovamento o la sua rigenerazione appare loro come la necessità primaria, perché egli ottenga statuto di cittadinanza nel “paese dell’anima”.
Abbiamo visto che questa idea della Nuova Nascita, il rinnovamento o la trasmutazione del sé, rivestita da molti diversi simboli, percorre tutto il misticismo e gran parte della teologia. […] Di tutti i sistemi simbolici in cui questa verità è stata racchiusa nessun altro è altrettanto competo, pittoresco, e ora altrettanto frainteso come quello dei “Filosofo Ermetici” o Alchimisti Spirituali» [13].

In conclusione, il simbolismo mistico rappresenta, nelle varie figurazioni passate qui in rassegna, l’esigenza di esprimere in forma traslata il contenuto di un’esperienza che si colloca per sua natura al di là delle parole, di cui il poeta indù Kabīr ha testimoniato l’inadeguatezza:

O come posso mai esprimere quella parola segreta?
O come posso dire che Egli non è come questo,
ma è come quello?
Se dico che Egli è dentro di me, l’universo si vergogna.
Se dico che Egli è fuori di me, è falso.
Egli rende i mondi interiore ed esteriore indivisibilmente uno;
Il conscio e l’inconscio,
sono entrambi i suoi poggiapiedi.
Egli non è né manifesto né nascosto,
Egli non è né rivelato né non rivelato:
Non ci sono parole per dire quello che Egli è. [14]






Igor Tavilla
(n. 3, marzo 2021, anno XI)





NOTE

[1] E. Underhill, Jacopone da Todi, poeta e mistico 1228-1306, Tau, Todi 2019.
[2] G.F. Porter, Underhill, Evelyn in Encyclopedia of Religion, 2nd ed., voll. I-XV, Macmillan Reference, Detroit 2005, pp. 9450-9451. La voce è la stessa che nella prima edizione dell’Enciclopedia (1987), ma con la bibliografia aggiornata.
[3] One Hundred Poems of Kabir, trans. by Rabindranath Tagore and Evelyn Underhill, Macmillan, London 1915.
[4] E. Underhill, Practical Mysticism, E.P. Dutton & Company, New York 1915, p. 3. La traduzione dei passi qui citati in italiano è nostra.
[5] Ibid., p. viii.
[6] Ibid., p. ix.
[7] E. Underhill, Mystik. Eine Studie über die Natur und Entwicklung des religiösen Bewusstseins im Menschen, übertragen von Helene Meyer Franck und Heinrich Meyer-Benfey, Ernst Reinhardt Verlag, München 1928.
[8] L. Bordaș, Apașul metafizic și paznicii filozofiei, Humanitas, București 2010, p. 97. 
[9] N. Ionescu, Opere, voll. I-III, Academia Română, București 2020, vol. I, p. 1335.
[10] E. Underhill, Mysticism. A study on the nature and development of man’s spiritual consciousness, 3rd ed., E.P. Dutton & Company, New York 1912, pp. 150-151.
[11] Ibid., pp. 154-155.
[12] Ibid., pp. 162-163.
[13] Ibid., p. 167.
[14] One Hundred Poems of Kabir, cit., p. 9.