La tradizione patristico-medievale nella filosofia di Nae Ionescu (III)

La mistica come «cognitio dei experimentalis»

Nell’ambito del corso di metafisica del semestre invernale 1928-1929, dedicato alla teoria della conoscenza metafisica, Ionescu pone la distinzione, che sta alla base dell’intera sua filosofia, tra «conoscenza» ed «esperienza vissuta». La conoscenza si fonda sulla logica, mentre l’esperienza vissuta sull’intuizione. La logica opera attraverso il concetto, «una formula generale di conoscenza, di classificazione degli oggetti della realtà sensibile, cioè, il raggruppamento di diversi oggetti, che esistono nella realtà sensibile, all’interno di uno stesso insieme e l’estrapolazione di ciò che tutti questi oggetti hanno in comune» (II, 78). Conoscere significa, in altri termini, sussumere sotto un concetto un certo numero di casi particolari.
Vi è però un’altra modalità di entrare in contatto con l’esistenza, più radicale, che consiste nel porsi «alla sorgente stessa dell’esistenza», realizzando un rapporto osmotico tra soggetto e oggetto. La conoscenza più piena che si possa avere di un oggetto consiste perciò nell’immedesimarsi con l’oggetto stesso. Questo genere di esperienza è quella che Tommaso d’Aquino chiama «conoscenza per connaturalità». La differenza tra conoscenza concettuale e conoscenza per connaturalità segna la linea di discrimine tra metafisica e religione. Il filosofo romeno mantiene ferma la distinzione tra il «dominio della metafisica» e «quello della religione», per quanto sia dato riconoscere una certa convergenza o «identità parziale» tra i due ambiti, giustificata dall’«identità dell’oggetto» che le due sfere hanno in comune: l’assoluto. La «confusione» tra l’una e l’altra sfera si è storicamente prodotta nel Medioevo con la dottrina tomista, la quale, presupponendo la continuità tra il dominio naturale e quello soprannaturale, e la complementarietà tra fede e ragione, ha reso di fatto la filosofia uno strumento della teologia: philosophia ancilla theologiae. Questa visione è completamente estranea alla spiritualità orientale, la quale presuppone invece una discontinuità netta tra i due dominî.
La locuzione latina credo quia absurdum, attribuita a Tertulliano, ben esprime l’alterità dell’esperienza religiosa rispetto al piano della ragione umana. Esiste a tutti gli effetti un altro piano di realtà, che prescinde dalle leggi comuni della causalità psichica: «ciò significa» conclude Ionescu «che non solo la coscienza religiosa è separata e diversa da quella comunemente intesa, non solo l’oggetto esterno è diverso dagli altri oggetti esterni, dagli altri atti spirituali, ma la concatenazione di questi atti spirituali costituisce, per se stessa e nella sua totalità, un ambito distinto, con una legislazione propria» [1]. Per sua intrinseca struttura, l’esperienza religiosa si sottrae dunque a un esame “scientifico”, apparendo, a chi non disponga di adeguati strumenti di comprensione, alla stregua di un “non senso” o di uno stato di coscienza patologico, di una anormalità. Da qui la necessità di procedere non secondo un approccio psicologico-riduzionista, ma “fenomenologico” che sospenda il giudizio e conceda all’esperienza religiosa la possibilità di manifestarsi nel suo specifico dinamismo coscienziale.
L’irriducibilità dell’esperienza religiosa entro il perimetro della coscienza ordinaria se da una parte spiega perché il fatto religioso, nella sua eccezionalità, sia precluso alle masse, dall’altra consente di capire perché Ionescu rinvenga il “tipo” dell’uomo religioso tra i rappresentanti della tradizione mistica occidentale: San Paolo, Caterina di Siena, Angela da Foligno, Jan Ruysbroeck, Meister Eckhart, Francesco d’Assisi [2]. Lo stesso Agostino viene considerato da Ionescu un “mistico”, la cui profonda analisi introspettiva concorre a chiarire la struttura fondamentalmente bipolare e transitiva dell’esperienza religiosa. Il noto adagio agostiniano Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te (Conf. 1, 1) traduce in un linguaggio immediato la struttura dell’atto religioso, il quale presuppone sempre due termini qualitativamente eterogenei, il primo dei quali, la coscienza, deve di necessità trascendere se stesso e l’intera realtà sensibile di cui fa parte, per giungere all’altro termine che è Dio. L’esperienza religiosa infatti si esplica in forza di un atto coscienziale mediante il quale il soggetto esce fuori di sé (realizzando l’ἔκστασις) e attinge direttamente l’oggetto della propria esperienza. In polemica con l’approccio positivista, allora dominate nell’ambiente accademico romeno, Ionescu sottolinea come la mistica non significhi «mancanza di disciplina», «mancanza di discernimento» o di «controllo». Lungi dall’essere un abbandono disordinato e fantastico, la mistica è un’attitudine che l’uomo può conseguire al duro prezzo di una rigorosa disciplina interiore [3].
L’esperienza religiosa ha per Ionescu un carattere strutturalmente trascendente e apofatico. Non può essere compresa in termini razionali né tradotta nel linguaggio ordinario. È qualcosa di ineffabile e, come tale, essenzialmente incomunicabile. Ciononostante, è pure esistita una “letteratura” mistica che testimonia lo sforzo di veicolare il contenuto di un’esperienza altrimenti inattingibile al linguaggio ordinario. «La frequenza con la quale il Medioevo parla di musica dimostra appunto la discrepanza, lo scarto esistente tra l’esperienza mistica e la possibilità di esprimere questa esperienza mediante il linguaggio articolato» (II, 112). Per riuscire in questo intento, il mistico si affida a espressioni simboliche di vario genere. Tra le più note, Ionescu ricorda l’immagine delle “nozze mistiche”. Il riferimento ioneschiano è duplice. Nel trattato De IV gradibus violentae charitatis, attribuito a Riccardo di San Vittore, e nella Scala paradisi di Giovanni Climaco, l’itinerario dell’anima a Dio viene descritto nei termini di un processo ascensionale, riconducibile a quattro passaggi fondamentali: fidanzamento, mistero nuziale, fusione, frutto. Il “fidanzamento” esprime allegoricamente il desiderio spirituale di Dio a cui l’anima (“la promessa”) anela. Le “nozze” corrispondono al momento in cui l’anima viene a trovarsi al cospetto di Dio; il terzo momento, la “fusione”, comporta che l’anima si perda in Dio. È il momento estatico dell’esperienza mistica, in cui l’individualità si dissolve, facendosi assorbire nella realtà dell’essere supremo. Il quarto momento, il “frutto” descrive il doloroso processo di ricaduta dell’anima nel mondo. Giova osservare come l’esperienza mistica si realizzi secondo un ordine progressivamente unitivo, il che rimanda all’idea di una struttura gerarchica del reale.
Un altro riferimento che documenta il tentativo di rendere accessibile l’esperienza religiosa attraverso simboli, analogie, immagini e perfino suoni, è al Didascalicon di Ugo di San Vittore (nello specifico al Liber II, cap. XII, De musica triplici) [4]. L’esperienza vissuta dal mistico trascende i limiti del linguaggio e reclama di essere espressa in musica. Non a caso, Ugo di San Vittore è anche l’autore di un commento alle Gerarchie celesti di Dionigi Areopagita, l’esponente della cosiddetta teologia apofantica o negativa, la cui immanenza al corso di filosofia della religione 1924-1925, per quanto “implicita” e mediata dal commento di Tommaso, ci pare inequivocabile. Se per buona parte il discorso di Ionescu sugli attributi del divino sembra infatti seguire la lezione di Scheler di Vom Ewigen im Menschen (1923) [6], la sua conclusione ci sembra guardare altrove, segnatamente al De divinis nominibus, nello specifico laddove Ionescu accenna al fatto che le determinazioni del divino sono innumerevoli e inesauribile è l’esperienza religiosa da cui esse vengono dedotte. Dionigi Aeropagita parla a questo proposito di «pluriappellatività» della divinità, «fornita d’ogni nome», cioè di «innumeri nomi». Ma, soprattutto, l’adesione di Ionescu alla teologia dionisiana traspare dalla tensione tra “partecipazione” e “trascendenza”. Da una parte, parafrasando quanto afferma l’Aeropagita – che cioè le espressioni “essere per sé”, “vita per sé”, “sapienza per sé” «si dicono di Dio desumendole dalle cose che sono», giacché «Egli è causa di tutti gli enti» – Ionescu afferma che «le qualità di Dio sono infinite, il che significa che ciò che attribuisco a me stesso o che scopro in me, e nella realtà sensibile, deve necessariamente essere contenuto in Dio» [5]. Dall’altra, in linea con le affermazioni dionisiane che certificano l’ineffabilità e al tempo stesso la pluriappellatività di Dio, Ionescu argomenta che la differenza tra gli attributi divini e quelli delle realtà sensibili che di essi partecipano è imponderabile, motivo per cui il “passaggio al limite”, attraverso il quale la matematica esprime il tendere di un certo quid a grado infinito, non si applica al divino. Così, se della grandezza di Dio Dionigi afferma che è «senza fine, senza qualità determinata e senza numero» e della piccolezza che «è priva di quantità, è priva di qualità, senza limite o misura interna o esterna» [7], dire di Dio che è infinitamente buono, significa analogamente affermare non che egli sia sommamente buono (ovvero il massimo della bontà che un uomo possa concepire), ma piuttosto buono in misura non finita, buono oltre-modo e oltre-misura, che la sua bontà, in altri termini, non abbia niente a che vedere con la bontà di cui gli uomini hanno contezza – e questo sia detto pure della giustizia, e di ogni altro divino attributo.


La scolastica. Un bilancio critico

Nell’ambito dei corsi di storia della logica, metafisica e teoria della conoscenza, se da una parte Ionescu identifica la filosofia di Tommaso d’Aquino con la filosofia medievale tout court, dall’altra tende a rimarcare la differenza tra cristianesimo occidentale e cristianesimo orientale, mostrando come l’impianto logico di matrice aristotelica a cui la scolastica ha sostanzialmente aderito [8], senza introdurre alcun elemento di novità, comporti di fatto il primato del concetto sull’esperienza, introduca una discontinuità nell’unità del reale e conferisca perciò all’essere il carattere del divenire. Per questo Ionescu può affermare per un verso che la scolastica non è una creazione occidentale ma orientale, e per altro che il tomismo contiene in sé elementi di «dissoluzione dello spirito metafisico» (II, 62). Spirito metafisico che egli rivendica, invece, come prerogativa esclusiva del cristianesimo ortodosso, il quale sarebbe rimasto fedele a una concezione tipicamente parmenidea dell’essere, informata da un atteggiamento contemplativo nei confronti della realtà. I cristiani orientali percepiscono l’universo come un’esistenza di cui l’uomo fa esperienza; mentre in occidente l’universo è una realtà di cui si ha conoscenza. L’uomo orientale si scopre all’interno dell’universo, mentre l’uomo occidentale, in un certo senso, lo domina. Rispetto a ciò le intuizioni ioneschiane si dimostrano sorprendentemente feconde e sembrano precorrere alcuni degli sviluppi più originali che la questione ontologica abbia conosciuto nel secolo scorso.
La logica di dominio che informa la mentalità occidentale trova nel mito biblico del peccato originale la propria chiave di interpretazione simbolica e nella vicenda di Faust il suo esito più mirabile. «Nel Paradiso, l’uomo viveva in una incessante disposizione contemplativa; non faceva nulla; solo dopo essere stato cacciato dal paradiso, ha cominciato a lavorare» (II, 83). Dio ha punito gli uomini facendo sì che fossero appunto quel che avrebbero voluto essere – “come Dio”. Dio è l’essere creatore. Essere come Dio significa dunque creare, ma mentre la creazione divina non comporta alcun dispendio di sostanza, il solo atto creativo di cui l’uomo sia capace, il lavoro, è un «atto di fatica» perché comporta un certo consumo di sostanza, e la punizione degli uomini è che questi creino appunto secondo la loro possibilità. L’attitudine contemplativa appartiene invece allo stato edenico che precede la caduta. L’“attivismo” è la tendenza metafisica che caratterizza l’occidente europeo e di cui il Faust di Goethe rappresenta il monumento più riuscito. Nell’Europa orientale prevale invece un’attitudine mistica volta all’identificazione dell’individuo con l’assoluto. Ma il volontarismo dell’uomo rinascimentale, che Goethe ha incarnato in senso eminente, affonda le proprie radici nella stessa logica aristotelica che ha costituito l’ossatura della metafisica occidentale. La condizione di possibilità della metafisica in quanto scienza dell’essere riposa sulla traducibilità di ogni predicato in un predicato di esistenza. La metafisica è la scienza dell’essere, di ciò che è.
Sotto il profilo logico, la metafisica occidentale, sulla scia di Aristotele ha elaborato una teoria del giudizio per cui ogni giudizio si riduce da ultimo a un giudizio predicativo (S è P). Ionescu contesta la possibilità di operare una simile riduzione. Ad esempio “il bue traina il carro” sta ad esprimere un fenomeno unitario che non può essere scomposto e ricondotto a una forma predicativa. Così pure i giudizi di relazione, come “il sole è più grande della terra”. Quando si dice, ad esempio, che “la lampada illumina” Aristotele opera per astrazione, separando la lampada da una parte e la luminosità dall’altra, facendo di quest’ultima una proprietà della lampada. Ma la “lampada illumina” rappresenta un fenomeno a sé stante, non scomponibile, come l’ossido di carbonio è in sé qualcosa di diverso e irriducibile alla semplice addizione di ossigeno e carbonio. Ionescu spiega in questi termini l’errore aristotelico:

«Aristotele poteva affermare ciò, dal momento che per lui esistevano gli enti: l’intero universo si riduceva, per lui, a sostanze; tutto esisteva in entità particolari, universali e discontinue in un certo senso così come sono discontinue per la nostra conoscenza logica» (IV, 80).

La logica aristotelica dei giudizi predicativi infrange, per così dire, la staticità del quadro d’esperienza, scomponendo la realtà nei suoi elementi astratti, che restano eventualmente disponibili a nuove combinazioni. Le conseguenze di lunga durata di questa impostazione si intravedono facilmente. Per quanto, infatti, Ionescu interpreti nei termini di una cesura il passaggio dal mondo degli antichi a quello dei moderni e per quanto, di conseguenza, una logica costruttiva, o addirittura inventiva, si abbia solo a partire dal Rinascimento, è altresì vero che la vocazione “sintetica” della logica moderna trova il proprio presupposto fondamentale nell’impostazione “analitica” della logica antica.
È interessante, a tale riguardo, osservare come Ionescu provi a sostenere l’idea che la scolastica, intesa come «forma tipica di pensiero», «forma di civiltà» basata sul rispetto del principio di autorità, appartenga per essenza più all’oriente che all’occidente. La prevalenza accordata nel pensiero scolastico alla “forma” comporta un’attitudine per la gerarchia e per la staticità che meglio si accorda alla struttura spirituale orientale.

«L’Occidente, in ciò che esso ha di caratteristico, è una realtà in continuo fermento. Tutto quel che accade nel genere umano, per l’occidentale, è un processo, un flusso, una mescolanza, piuttosto che una formula di equilibrio» (IV, 97).

È possibile datare il divorzio tra la logica occidentale e quella orientale al primo Concilio di Costantinopoli nel 381, con la formalizzazione della dottrina della processione dello Spirito Santo dal Padre. Mentre i cattolici adottano il testo latino dove si legge che lo Spirito “ex Patre Filioque procedit”, la Chiesa d’Oriente aderisce alla formula greca “τὸ ἐκ τοῦ Πατρὸς ἐκπορευόμενον”. Ionescu enfatizza l’importanza di questa diversa pneumatologia: «Se dico che lo Spirito Santo procede solo dal Padre, ho una teoria dei giudizi in logica, se dico invece che procede sia dal Padre che dal Figlio ho un’altra teoria dei giudizi […]. Tutto il dinamismo occidentale non è che un altro modo di esprimere il Filioque, così come tutto il nostro staticismo non è che un’assenza del Filioque» (II, 251).
In più, la copula “est” è e resta un operatore logico e come tale non può oltrepassare il piano della pura possibilità. In altri termini, l’essere di cui la ragione certifica l’esistenza attraverso i suoi predicati esistenziali è sempre e comunque un’«esistenza logica». Questo errore sembra essere ormai un dato acquisito anche fra coloro che hanno operato un recupero della tradizione tomista:

«Il neotomismo attuale non si basa più sull’argomento ontologico, appunto perché era insufficiente e si faceva un passaggio non autorizzato dalla logica alla metafisica; e, con tutto questo, lo stesso neotomismo che accantona l’argomento ontologico oggi accetta la trasformazione di tutti i giudizi in esistenziali, perché si mostra che la ragione è adeguata all’esistenza. A quale esistenza? Noi rispondiamo immediatamente: all’esistenza logica» (II, 61).

La logica scolastica rappresenta a detta di Ionescu la conclusione di una fase nella storia della filosofia inaugurata dal pensiero greco, segnatamente da Parmenide, il quale aveva sancito l’identità di pensiero ed essere. Gli antichi – e i medievali rientrano, come abbiamo visto, nella categoria del “vecchio mondo” – concepirono una logica statica, fondata sul concetto di sostanza e di essenza, a cui l’Oriente sarebbe rimasto fedele.


Conclusioni

L’apporto della tradizione patristico-medievale alla filosofia di Ionescu appare ben documentato nei corsi tenuti presso l’Università di Bucarest nell’arco del ventennio compreso tra il 1919 e il 1938. La premessa “realista”, l’impostazione metafisica della questione del male, l’assoluto rilievo dato all’esperienza religiosa, l’attenzione portata sulla dottrina cristiana e sugli sviluppi che il cristianesimo ha conosciuto tanto in occidente quanto in oriente, radicano la filosofia del Romeno, al di là delle pur innegabili e certamente non trascurabili influenze novecentesche, in un orizzonte spirituale che si definisce per antitesi alla modernità.
Ciò non toglie che la tradizione medievale venga attentamente vagliata e discussa nei limiti e nelle contraddizioni che la caratterizzano. In questa operazione di discrimine e parziale rivalutazione, Ionescu si lascia pur sempre guidare dai principi della patristica alessandrina, forte della convinzione che la filosofia scolastica nel suo senso più autentico debba considerarsi un esito della tradizione teologica e metafisica orientale. Alla luce di questa premessa, Ionescu preferisce la dottrina dell’amore di Origene a quella di Agostino, respinge la pretesa continuità tra dominio naturale e soprannaturale sancita dalla dottrina tomista, e denuncia le ricadute ontologiche insite nella teoria proposizionale aristotelica (su cui il tomismo si è a tutti gli effetti innestato), rilevando come i giudizi predicativi, a cui viene accordata una indiscussa preminenza, scompongano l’unità del reale in elementi astratti (soggetto e predicato), i quali, in virtù della copula (est), vengono poi più o meno arbitrariamente ricomposti. L’unità e la staticità dell’essere parmenideo cedono così il passo a una realtà discontinua e mutevole. La china attivistico-volontaristica e successivamente scientista della civiltà occidentale sono già annunciate in questa “svolta” logico-ontologica.
In conclusione, il Medioevo e la sua filosofia hanno rappresentato per Ionescu una categoria dello spirito e un tipo di civiltà improntate al teocentrismo, al principio di gerarchia, alla stasi, e alla contemplazione dell’essenza del reale. Un’esperienza di per sé storicamente esaurita, ma le cui “idee fondamentali”, rimesse in circuito attraverso una forma non dogmatica di insegnamento, avrebbero potuto contribuire a sanare quell’ansia metafisica che la condizione umana abita per natura.

Igor Tavilla
(n. 9, settembre 2023, anno XII)




* I riferimenti alle Opere di Nae Ionescu (voll. I-XVI, a cura di Marin Diaconu e Dora Mezdrea, EMLR, București 2016-2020), sono abbreviati riportando tra parentesi tonde l’indicazione del volume (in numeri romani) e della pagina (in numeri arabi).


NOTE

[1] N. Ionescu, Conoscenza metafisica ed esperienza religiosa, tr. di Igor Tavilla, prefazione di P.F. Stagi e postfazione di H.C. Cicortaș, Stamen, Roma 2020, p. 112.
[2] Ionescu descrive l’esperienza mistica francescana nei termini di un panenteismo, in cui tutta la natura viene spiritualizzata. Citando il Cantico delle creature, Ionescu mostra come il Santo riconosca una parentela tra sé e ognuna delle realtà naturali che lo circondano, assimilandole alla propria essenza spirituale. Per questa via l’esperienza religiosa giunge a spiritualizzare anche Dio, in un processo ascensionale, dal basso verso l’alto. Questa concezione presenta secondo Ionescu un’aporia. Lo spirito umano e quello divino sono infatti essenzialmente diversi, poiché mentre l’uomo non è in grado di agire sulla realtà esterna, facendo sì che essa si presenti altra da com’è, Dio è il creatore dell’intera realtà. Nello sperimentare la propria impotenza si consuma la tragedia dello spirito umano e in ciò risiede, al tempo stesso, la radice dell’umiltà religiosa e di ogni pratica ascetica.
[3] La mistica non «manca di ragione», specialmente la mistica tedesca dove la “religione” si risolve nella “metafisica” e il mito cede il passo a una comprensione razionale del divino. Ionescu cita a questo proposito, oltre a Jakob Böhme, il poeta e mistico Johannes Scheffler, alias Angelus Silesius (“l’angelo della Slesia”), autore del Cherubinischer Wandersmann (“Il pellegrino cherubico”, 1675) ed erede della mistica renana. La mistica tedesca è connotata da un carattere essenzialmente “speculativo” ed eserciterà una profonda influenza anche sulle filosofie di Hegel e Schopenhauer. Nella mistica razionale la religione cessa di essere tale, venendo meno la concretezza e la personalità di Dio, e trapassa in un sistema di idee di tutt’altro ordine, metafisico appunto.
[4] «Tre sono le tipologie di musica: cosmica, umana, strumentale. La musica cosmica si manifesta negli elementi, nei pianeti, nei tempi. Negli elementi: nel loro numero, nel loro peso, nella loro misura. Quella nei pianeti: nella posizione, nel moto, nella conformazione. Quella nei tempi: nei giorni, per l’alternanza di luce e oscurità, nei mesi, per le fasi crescenti e decrescenti della luna; negli anni, per la successione delle stagioni: primavera, estate, autunno, inverno. La musica umana si manifesta nel corpo, nell’anima, e nella connessione tra i due. Quanto al corpo essa si manifesta parte nella sua vita vegetativa, che ne determina la crescita (come si conviene a tutti gli esseri viventi). Parte negli umori: dalla mescolanza dei quali si forma il corpo umano, la qual cosa è comune a tutti gli esseri senzienti; parte nelle attività che convengono specialmente agli esseri dotati di ragione, alle quali sono preposte le arti; le quali sono buone se non eccedono la misura e non alimentano il desiderio a cui si deve attribuire la nostra infermità, come dice Lucano in lode di Catone: Per lui un banchetto era vincere la fame, una casa lussuosa un tetto per ripararsi dalle intemperie e preziosa veste coprirsi le membra con una toga ruvida secondo l’uso del Romano Quirite [Farsalia, II, v. 383 ss]. La musica dell’anima sta, in parte, nelle virtù, cioè giustizia, religiosità e temperanza; in parte nelle facoltà, cioè ragione, ira e concupiscenza. La musica che sorge fra il corpo e l’anima è quell’amicizia naturale, per la quale l’anima si vincola al corpo non attraverso vincoli materiali, ma per mezzo di alcuni affetti, per conferirgli il movimento e la sensibilità: a ragione di questa amicizia si dice che nessuno ha in odio il proprio corpo. Questa musica consiste nell’amare il corpo, ma ancor di più lo spirito, così da proteggere il corpo e non estinguere la virtù. La musica strumentale [si fonda] sulla percussione, come quella del cembalo e dell’arpa; oppure sul fiato, come quella del flauto e l’organo, oppure sulla voce, come nelle poesie e nei canti. Tre poi sono i generi di musici: uno, che compone le canzoni; un altro che si serve dei vari strumenti, infine un terzo, che esprime giudizi riguardo all’esecuzione e ai componimenti».
[5] M. Scheler, L’eterno nell’uomo, Bompiani, Milano 2009.
[6] N. Ionescu, op. cit., p. 280.
[7] Dionigi Areopagita, Circa i nomi divini, in Corpus Dionysiacum, a cura di Enrico Turolla, La Vita Felice, Milano 2014, p. 354.
[8] «La logica scolastica è nelle sue linee essenziali la logica aristotelica» (III, 44). Lo “strumento” (ὄργανον) di cui la scienza medievale, cioè la teologia, si serve essa lo trova bell’e pronto. La filosofia scolastica deve molto alla “riscoperta” di Aristotele. Ma di una riscoperta appunto si tratta: «Tutti i commentari arabo-giudaici, che abbiamo menzionato la volta scorsa, come una sorta di periodo di rielaborazione, di ricostruzione della logica, tutti i commentari non erano che dei commentari; cioè, questa operazione non era che la riscoperta, il ritrovamento di un materiale codificato, non la costruzione di un nuovo codice, vero e proprio, di un nuovo codice di conoscenza e espressione di certe verità» (III, 93). Il contributo dato dalla scolastica alla ricerca logica consiste soltanto nella superfetazione interpretativa di alcune questioni senza che si producesse un mutamento di prospettiva sostanziale rispetto all’Organon aristotelico. Sotto questo aspetto Ionescu sopravvaluta l’influenza orientale e specialmente bizantina nella maturazione di questa efflorescenza logica. Questo filone della scolastica trae la propria origine dalla ricerca greco-bizantina di Michele Psello, degenerando presto in una riflessione di carattere puramente grammaticale sull’elemento lessicale della questione. Sotto due aspetti la logica scolastica è in effetti andata oltre l’impianto aristotelico e cioè la sottigliezza nella trattazione delle questioni, tanto che sottigliezza e scolasticismo, osserva Ionescu, sono diventati pressoché sinonimi e il nominalismo, che si afferma nel periodo conclusivo della filosofia medievale, ha contribuito alla formalizzazione del pensiero logico, dissociandolo dal contenuto del pensiero.